Sull’adunata spiritica che ogni anno si ripete in via Acca Larentia a Roma per ricordare l’inutile e feroce uccisione di tre giovani missini nel gennaio del 1978, non c’è in realtà molto da dire se non riscoprire, inspiegabilmente sorpresi, che i fascisti esistono.

Converrebbe aggiungere che quelli in maschera, con tutto il loro torvo repertorio simbolico e le loro coreografie, sono di gran lunga preferibili a quelli in doppiopetto che nel corso del tempo, dopo essere stati “afascisti”, hanno talvolta finito per dichiararsi, sia pure a denti stretti, antifascisti. I primi si fanno onestamente riconoscere, mettono in imbarazzo i secondi tirando in ballo la loro storia comune neanche troppo passata, e si producono in frequenti carnevalate foriere di sgraditi incidenti e baruffe in famiglia. Per seguire la truppa in camicia nera, tuttavia, servirebbe oggi, contrariamente agli anni Venti, un certo stomaco.

Ragion per cui l’appeal degli squadristi e in conseguenza il loro numero rimangono tutto sommato contenuti, anche se non sempre innocui. Molte aggressioni e attentati a sfondo razziale in diversi paesi dell’Unione europea sono riconducibili a questo tipo di raggruppamenti.

Confezionati in formato “democratico” dai postfascisti istituzionalizzati l’autoritarismo, lo strapotere dell’esecutivo, la diffidenza per la libertà di stampa, l’idea gerarchica dell’ordine sociale, il nazionalismo, l’arroganza occidentalista, la xenofobia, il militarismo, la dottrina (e la pratica) antisindacale, la purezza dei valori, la difesa dei privilegi e molti altri temi comuni al fascismo e a tutta la tradizione reazionaria risultano digeribili a un ben più grande numero di cittadini che però continueranno a indignarsi per i saluti romani e i cerimoniali in stile Ventennio.

Che dagli attivisti di via Acca Larentia possa prendere le mosse la «ricostituzione del disciolto partito fascista» (che fra l’altro, nonostante indossino le camicie nere, nemmeno molti di costoro auspicherebbero) è un’ipotesi ridicola. Ciò che ridicolo non è, è invece il fatto che in Europa siano stati fondati nel corso degli ultimi decenni una pletora di partiti fascisti, accomunati da uno stesso impianto dottrinario autoritario e xenofobo e dal fatto di non aver assunto in nessun caso il nome proibito di quelli che hanno perso la Seconda guerra mondiale.

Dalla spagnola Vox al polacco Pis, dall’Afd tedesca all’ungherese Fidesz, da Fratelli d’Italia al Rassemblement nationale, passando per olandesi, austriaci e scandinavi, imponenti formazioni inglobano, depurate delle forme più estreme e anacronisticamente stataliste e isolazioniste, idee, politiche e mentalità che affondano le radici nel terreno ideologico e pratico dell’interclassismo fascista. Per poi adattarle al contesto delle crisi che si susseguono nella contemporaneità. Manfred Weber, leader del Partito popolare europeo, da sempre sbilanciato verso la destra, può anche tuonare contro i saluti romani, per cui «non c’è posto in Europa», ma per politiche razziste e liberticide di posto ce ne è a iosa e con l’avallo del Ppe.

Un nominalismo alla rovescia, che fa delle cose la conseguenza dei nomi e dell’apologia la causa del reato affligge sempre più insistentemente la politica e l’opinione pubblica. Cosicché è il nome del fascismo (e la sua simbologia) piuttosto che la traduzione politica attuale dei suoi contenuti a suscitare le reazioni più veementi. Di un antifascismo affetto da questa sindrome e a sua volta da un carattere rituale, non si sa bene che cosa farsene.

Invece di invitare pateticamente le destre istituzionalizzate a prendere le distanze dagli umori nostalgici che le pervadono converrebbe inchiodarle al rapporto che con queste inclinazioni strutturalmente intrattengono. Per farlo servirebbe però abbandonare quell’idea della politica come leale duello governato da regole condivise, che pur essendo in tutta evidenza fuori dal mondo si conserva tenacemente nella finzione del discorso pubblico.