Israël-Palestine : un affrontement « apocalyptique » entre deux mémoires traumatisées

Mohamad Moustafa Alabsi, New University In Exile Consortium

Depuis le 7 octobre, l’opposition entre les partisans d’Israël et ceux de la Palestine prend parfois des allures « huntingtoniennes » – ou schmittiennes, selon le principe de la distinction basique ami/ennemi élaborée par Carl Schmitt.

Cette opposition, souvent caricaturale, se manifeste sans discontinuer dans les rues, sur les campus et sur les plateaux de télévision des grands pays occidentaux comme des pays arabes et musulmans, donnant le vertige aux observateurs et, surtout, aux décideurs.

La confrontation a de multiples dimensions – militaire, certes, mais aussi politique et hautement symbolique. Elle met en jeu deux représentations mémorielles profondément traumatisées : celle des Israéliens, hantés par la Shoah et les pogroms du début du XXe siècle, auxquels les massacres du 7 octobre ont souvent été assimilés ; et celle des Palestiniens, marqués par la Nakba, cette date originelle de 1948 qui a provoqué leur premier exode massif et à laquelle est comparable aujourd’hui la situation de la population de Gaza. Il est impératif de toujours tenir compte de ces visions quand on cherche à comprendre les motivations et les enjeux psychologiques des deux parties.

Le traumatisme de la mémoire juive n’a pas pris fin en 1948 : il venait seulement de commencer

Du côté palestinien, et du côté arabe et pro-palestinien en général, la perception de l’année 1948 demeure centrale. Cette année fut celle de la Nakba – littéralement la catastrophe, le premier grand exil, qui a jeté 700 000 Palestiniens sur les routes.

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Operazione “Guardiano delle Mura”, cosa sta succedendo in Palestina? Intervista a Romana Rubeo – Parte I

Fonte Pressenza.com

 

Ore critiche, specialmente nella Striscia di Gaza. L’Operazione “Guardiano delle Mura”, l’escalation militare portata avanti in questi giorni dall’esercito israeliano, sta mettendo a ferro e fuoco la Palestina. Di questo ne parliamo con Romana Rubeo, giornalista, traduttrice e redattrice di Palestine Chronicle.

Dove hanno origine questi scontri? Cosa è successo settimana scorsa?

Questa ultima escalation, in particolare, nasce dai fatti di Sheikh Jarrah, quartiere di Gerusalemme Est occupata che in questi giorni è il principale obiettivo della sistematica operazione di pulizia etnica portata avanti da Israele.

Dovendo ricostruire la mera cronaca, ventotto famiglie palestinesi che vivono in quel quartiere sono soggette a un provvedimento di sfratto in favore delle associazioni di coloni ebraici, che si sentono legittimati ad acquisire i diritti di proprietà su quelle abitazioni in virtù di un sistema di norme e provvedimenti emanati dallo Stato di Israele ma ritenuti illegittimi sotto il profilo del diritto internazionale. Gli abitanti del quartiere di Sheikh Jarrah stanno cercando in ogni modo di resistere allo sfratto, all’allontanamento forzato, a questa nakba permanente, in cui l’esproprio e il sopruso sono parte della quotidianità. Nella giornata del 2 maggio, data fissata dalla Corte Suprema per l’espulsione di almeno quattro famiglie, molti palestinesi sono accorsi nel quartiere per solidarizzare e resistere al provvedimento.

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ISRAELE E DINTORNI

 

FONTE : IL BLOG DI FRANCO CARDINI CHE RINGRAZIAMO

 

Molti mi chiedono, dopo i recentissimi fatti di Gaza, quali siano le radici storiche della tragedia: prima 21 morti e 1400 feriti circa, la settimana scorsa; e quindi, il 6 scorso, un altro “Venerdì di Sangue” con altri 7 palestinesi morti e un altro migliaio di feriti. Sassate, bombe molotov e cortine fumogene create da pneumatici bruciati per difendersi dai soldati israeliani, che sparano non già per “rispondere al fuoco” (sassi, molotov e fumo non sono “fuoco” nel senso militare del termine), ma solo per impedire ai manifestanti di avvicinarsi a un confine che, oltretutto, non è uno di quelli stabiliti e internazionalmente riconosciuti ma solo una recinzione creata per decisione e nell’interesse di uno stato e di una forza armata che rifiutano la definizione di “occupanti”. Ma il fuoco israeliano è giustificato dalla necessità di “impedire le infiltrazioni”.

E’ stato notato che le manifestazioni di questi giorni sono state monopolizzate da Hamas, che è il partito leader della “Striscia di Gaza” ma che non rappresenta la volontà di tutti i palestinesi che vi sono rinchiusi, e che ormai arrivano a circa 2 milioni. Certo, l’attuale capo di Hamas nella “Striscia”, Yahya Sinwar (56 anni, scarcerato dagli israeliani nel 2011 nel gruppo dei 1000 imprigionati che vennero “scambiati” con il soldato israeliano Gilad Shalit) è un fautore deciso della “linea dura”. I tribunali d’Israele gli avevano inflitto condanne multiple che giungevano a totalizzare ben quattro ergastoli: è lui l’anima della “Marcia del Ritorno” avviatasi prima di Pasqua e che culminerà il 15 maggio prossimo, tre giorni prima del settantesimo anniversario di quel 18 maggio 1948 che vide la fondazione dello stato d’Israele e che per i palestinesi fu la Nakba,il giorno della “sciagura”.

Pianificata, quindi, l’azione di Hamas: e prevedibile che non tutti i palestinesi di Gaza, che ne subiranno le conseguenze, l’auspichino e l’approvino. Ma queste sono le regole del gioco: il perpetuarsi di una situazione già condannata dalle Nazioni Unite (dalla celebre “risoluzione 242” in poi) ha reso inevitabile che si arrivasse a tanto. La gente di Gaza è ormai provata fino alla disperazione: e una vecchia regola politico-militare, in casi come questi, prescrive che non si debba mai condurre un avversario in condizioni d’inferiorità alla disperazione. I disperati diventano micidiali. Ma il comunicato degli organizzatori della “Marcia del Ritorno” parla chiaro: “Non abbiamo nient’altro da perdere se non la nostra vita”.

Abu Mazen, presidente dell’Authority nazionale palestinese ed erede riconosciuto della linea dell’OLP di Arafat, non ama né Hamas né il partito sciita libanese Hezbollah che l’appoggia: e non ne è riamato. Israele non ha certo bisogno di esser consigliata, sul piano della politica, eppure non dovrebbe mai dimenticare l’aurea massima latina del Divide et impera, che in passato ha magistralmente messo in pratica. Sarà che Bibi Nethanyahu è attualmente preoccupato di ben altre cose che non i palestinesi e che teme molto per il suo posto e i suoi interessi privati, per non parlare della sua immagine pesantemente compromessa: sta di fatto che negli ultimi tempi sembra aver abbassato la guardia in termini di prudenza in misura inversamente proporzionale a quanto ha alzato le mani in termini di aggressività. Non si spara su chi “si avvicina a un confine”, specie se non lo ha nemmeno ancor superato e se quello non è un confine internazionalmente legittimo: non ci si può permettere di far ciò neppure se si è difesi a oltranza da un inquilino della Casa Bianca (a sua volta piuttosto nei guai). Il risultato delle scelte sbagliate di Nethanyahu è stato che Abu Mazen, messe da parte le sue riserve su Hamas, si è rivolto accorato all’ONU, all’Unione Europea e alla Lega Araba affinché vengano fermate “le uccisioni e la repressione da parte delle forze di occupazione israeliane a fronte di una pacifica manifestazione di massa”. Prima dell’ecatombe del 6 scorso, hanno ripetuto i media internazionali, “inviti alla calma” erano arrivati da Jason Greenblatt, inviato del presidente Trump nel Vicino Oriente, dall’Unione Europea, dal presidente egiziano. “Inviti alla calma” rivolti ai manifestanti, affinché desistessero dall’avvicinarsi alle linee difese dai soldati israeliani? O ai vertici delle forze armate (e della politica) d’Israele, affinché si tenesse presente che il rispondere a una manifestazione di protesta usando le armi da fuoco e seminando la morte è qualcosa che almeno da noi italiani, dai tempi di Bava Beccaris in poi, è stata universalmente disapprovata?

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