In questa puntata: La salute richiede la pace. Come evitare un mondo climatico distopico…..

 

 

Connessioni 5

18 novembre 2023

fatti, eventi, report di ricerca e dati per capire meglio cosa succede nel campo della prevenzione e della salute negli ambienti di vita e di lavoro.

 

In questa puntata della Rubrica vi offriamo documentazione su:

– Il diritto universale alla salute richiede la pace e rifiuta la guerra
– Per evitare un futuro climatico distopico, dobbiamo prima immaginare il mondo che vogliamo
– La violence environnementale de l’économie fossile
– Regione Emilia-Romagna. Proteggersi dai rischi, nel linguaggio dei segni.
– Convegno nazionale agricoltura 2023: Taranto, 26 ottobre 2023.

Il diritto universale alla salute richiede la pace e rifiuta la guerra
E’questo il titolo del documento promosso dalla AIE Associazione Italiana di Epidemiologia alla elaborazione del quale hanno partecipato venti società scientiche che fanno riferimento al campo della salute e della sanità. E’ un primo passo importante. Nel documento si afferma: ” In qualità di società scientifiche di area sanitaria, dati i nostri obblighi professionali incentrati sulla tutela e la promozione della salute, sentiamo urgente la necessità di esprimerci pubblicamente e congiuntamente a favore della pace e contro la guerra in tutte le aree del pianeta.


Gli scontri armati hanno continuato in questi anni a martoriare molti paesi: nel 2022 si è registrato il più alto numero di conflitti armati dalla fine della seconda guerra mondiale e ora, nel 2023, questa tendenza si conferma drammaticamente in un’ulteriore spirale di violenza che coinvolge non solo Ucraina e Medio Oriente, ma anche numerosi altri luoghi, in assenza di iniziative efficaci a favore di soluzioni diplomatiche e nonviolente.”
In connessione con le valutazioni espresse nel Documento delle Società scientifiche  riteniamo utile associare le riflessioni proposte dalla scrittrice Kwolanne Felix in un articolo apparso su Znetwork e ripreso da Diario Prevenzione: ” Per evitare un futuro climatico distopico, dobbiamo prima immaginare il mondo che vogliamo “ . Nell’articolo l’autrice afferma: ” Come attivista per il clima che lotta contro le politiche lente, le influenti compagnie petrolifere e l’apatia del pubblico, mi concentro principalmente nel fermare un futuro che non voglio. Temo un futuro in cui i combustibili fossili non verranno gradualmente eliminati in tempo, il che porterà alla distruzione ecologica e alla destabilizzazione della società a causa del cambiamento climatico.
Tuttavia, trovo che individuare il futuro che vogliamo sia spesso molto più difficile nel movimento per il clima. Immaginare questo futuro climatico pieno di speranza è una pratica essenziale perché aiuta a sostenere i nostri movimenti, informa la nostra difesa e ispira l’azione….” e più oltre ”
La narrazione che circonda il nostro clima e il futuro è prevalentemente distopica. Non cercare oltre un lungo elenco di film, spettacoli, opere d’arte e libri distopici ambientati in una terra desolata ecologica del prossimo futuro. Questi cliché mediatici sono popolari e vengono mostrati in successi al botteghino come Interstellar , Blade Runner e il film “The 100”. Molti di noi stanno sperimentando un assaggio di una terrificante distopia mentre assistiamo alla devastazione derivante dall’intensificarsi dei disastri naturali e dell’inquinamento. Molte persone credono che siamo già condannati . All’interno di questa mentalità, il movimento per il clima è sfidato a creare contronarrazioni a questa aspettativa di catastrofe.”
Questo investimento nella creazione di visioni di un futuro sostenibile non solo dà potere agli attivisti climatici; è anche per milioni di persone che spesso sono scoraggiate dall’impegnarsi nell’azione per il clima. La maggior parte delle persone crede che la crisi climatica sia un problema . Ma questa conoscenza può spesso tradursi in paura, disperazione e terrore . L’ansia climatica è ai massimi storici, soprattutto tra i giovani…..”

La costruzione della capacità di rappresentare un futuro di vita possibile con il governo da parte degli umani dei delicatissimi equilibri biologici, ambientali, economici e sociali è la grande mission di scienziati, artisti, attivisti per il cambiamento culturale, per contrastare l’ansia e la disperazione di moltitudini di ragazze e ragazzi cui viene rappresentato ogni giorno per loro un non futuro con orizzonte catastrofico.

La pace come premessa per la costruzione di una contronarrazione che ridia speranza e faccia superare la paralisi derivante dall’aspettativa della catatstrofe è l’obiettivo immediato per quanti credono ancora che un “altro mondo vivibile e vitale per gli umani sia possibile “

Concludo questa puntata di Connessioni con due notizie che danno speranza. La prima : ” Regione Emilia-Romagna. Proteggersi dai rischi, nel linguaggio dei segni. La nuova collana di video prodotti in collaborazione con ENS Emilia-Romagna” Cosa fare in caso di terremoto, alluvione, incendi di bosco, e una guida al portale Allertameteo ER, ora accessibili a tutti

La seconda: Convegno nazionale agricoltura 2023: Taranto, 26 ottobre 2023. Nella pagina sono disponibili le presentazioni delle relazioni. Un lavoro importante e utile.

Letture utili

ENERGIA: UNA GIUSTA MISURA PER LA SOPRAVVIVENZA SUL PIANETA.di Mario Agostinelli

La violence environnementale de l’économie fossile

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a cura di Gino Rubini
…../ alla prossima /….

AFL.CIO – Sostenere i diritti dei lavoratori è fondamentale per il futuro dell’Ucraina

Fonte AFL.CIO che ringraziamo 

Mentre la guerra della Russia contro l’Ucraina continua, i lavoratori ucraini ei loro sindacati sono diventati una forza innegabile per la solidarietà e il sostegno della comunità in tutto il paese. Dall’inizio del conflitto, i membri dei sindacati della Confederazione dei sindacati liberi dell’Ucraina (KVPU) e della Federazione dei sindacati dell’Ucraina (FPU) si sono mobilitati in gran numero, rimangono uniti dietro gli sforzi del loro governo eletto per gestire la guerra e continuare a compiere valorosi sacrifici per difendere la nazione. Tuttavia, in cambio, il governo ucraino si sta ora muovendo per  spezzare il potere dei sindacati e privare i lavoratori di diritti cruciali che sono fondamentali per sostenere la sua democrazia.

A marzo, il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelenskyy  si è rivolto al Congresso e ha tracciato un forte collegamento tra il suo paese e il nostro, affermando che la guerra è stata una lotta per proteggere i nostri valori condivisi di “democrazia, indipendenza, libertà e cura per tutti, per ogni persona, per tutti che lavora diligentemente…” Un forte movimento sindacale è fondamentale per la lotta dell’Ucraina per rimanere una democrazia indipendente perché i diritti dei lavoratori e la democrazia sono indissolubilmente legati. Questo è stato vero per tutto il conflitto e rimarrà vero quando questa guerra finirà.

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Tagliare le spese militari, finanziare le politiche di pace

Fonte : Fondazione Regis che ringraziamo

Autore Mao Valpiana


L’appello dei Nobel, le parole del Papa, le Campagne per il disarmo: Tagliare le spese militari, finanziare le politiche di pace

Tagliare le spese militari

L’appello di 50 premi Nobel e accademici “Una semplice concreta proposta per l’umanità”, ha un grande merito: quello di aver posto al centro dell’agenda politica globale la necessità della riduzione delle spese militari. L’obiettivo è ragionevole e possibile. Un negoziato comune tra tutti gli Stati membri dell’ONU per ridurre del 2% ogni anno, per 5 anni, le spese belliche di ciascun paese; liberando così un “dividendo di pace” di 1000 miliardi di dollari entro il 2030.

Questa proposta si va ad aggiungere e rafforza altre proposte avanzate negli anni nella stessa direzione. Papa Francesco ha scritto nell’Enciclica Fratelli tutti:

“E con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri”.

E in occasione della Giornata mondiale della Pace del 1° gennaio 2022, Papa Francesco ribadisce:

“È dunque opportuno e urgente che quanti hanno responsabilità di governo elaborino politiche economiche che prevedano un’inversione del rapporto tra gli investimenti pubblici nell’educazione e i fondi destinati agli armamenti. D’altronde, il perseguimento di un reale processo di disarmo internazionale non può che arrecare grandi benefici allo sviluppo di popoli e nazioni; liberando risorse finanziarie da impiegare in maniera più appropriata per la salute, la scuola, le infrastrutture, la cura del territorio”.

La Campagna mondiale GCOMS (Global Campaign on Military Spending – campagna internazionale sulla spesa militare), promossa dall’International Peace Bureau (IPB, Premio Nobel per la Pace 1910) si pone come finalità principale  la richiesta urgente di uno spostamento di fondi (almeno il 10% annuo) dai bilanci militari verso la lotta contro la pandemia da Covid-19 e il rimedio alle crisi sociali e ambientali che colpiscono vaste aree del mondo.

Dunque, la direzione da intraprendere è condivisa, ma qual è la strategia efficace per raggiungere l’obiettivo? I premi Nobel propongono un approccio multilaterale, negoziati razionali per una riduzione comune e concomitante che mantenga l’equilibrio e la deterrenza; il beneficio di questa cooperazione deriva da un fondo globale utilizzato per affrontare i problemi comuni (riscaldamento climatico, pandemia, povertà); e da una parte di risorse lasciate a disposizione dei singoli governi per reindirizzare la ricerca militare verso applicazioni pacifiche.

È una strada realistica? C’è davvero la volontà politica di tutte le nazioni di scegliere il disarmo controllato e bilanciato? La storia degli accordi bilaterali di disarmo INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty) e START (Strategic arms reduction treaty) tra USA e URSS, negli anni ‘80, per il ritiro delle armi nucleari strategiche, dimostra che la strada del disarmo è possibile, praticabile e può dare risultati.

Dopo le delusioni per i continui rinvii e fallimenti degli accordi SALT (Strategic Arms Limitation Talks) degli anni ‘70, il rapporto cambiò per la disponibilità al dialogo tra Reagan e Gorbaciov, ma furono i passi unilaterali di Gorbaciov ad imporre un clima  di fiducia e dunque la fine della guerra fredda: Gorbaciov annunciò una moratoria unilaterale sui test di armi nucleari ed il 1° gennaio 1986 avanzò una proposta per la messa al bando di tutte le armi nucleari entro il 2000; nel dicembre 1988 fu ancora Gorbaciov ad annunciare alle Nazioni Unite un ritiro unilaterale di 50.000 soldati dall’Europa orientale e la smobilitazione di 500.000 truppe sovietiche. Nel 1990 Gorbaciov ricevette il premio Nobel per la Pace “per il suo ruolo di primo piano nel processo di pace”. Ci vuole sempre chi inizia facendo il primo passo.

Gandhi diceva che la dottrina della nonviolenza resta valida anche tra Stati e Stati: “prima del disarmo generale qualche nazione dovrà iniziare a disarmarsi; il grado della nonviolenza in quella nazione si sarà elevato così in alto da ispirare il rispetto di tutte le altre”.

Proprio per rafforzare e iniziare a praticare l’appello dei Nobel, del Papa, e delle Campagne disarmiste sostenute dall’opinione pubblica, ci vuole chi fa un primo passo. Passo che sarà seguito da passi altrui. L’Italia può dare un esempio virtuoso, senza mettere in discussione la sua politica di difesa e sicurezza garantita dall’articolo 52 della Costituzione; ma ottemperando al dettame di ripudio della guerra dell’articolo 11. Applicare una “moratoria” sulle spese aggiuntive dei programmi per nuovi sistemi d’arma; un taglio di 5/6 miliardi da spostare subito su capitoli di spesa per politiche di pace e cooperazione.

È quello che chiedono Rete Pace e Disarmo con Sbilanciamoci!, e che da anni sostiene la Campagna “Un’altra difesa è possibile” per il riconoscimento della Difesa civile non armata e nonviolenta (protezione civile, servizio civile, corpi civili di pace) da finanziare con fondi sottratti alle armi. Una proposta di Legge che istituisce il Dipartimento della Difesa civile non armata e nonviolenta è depositata in Parlamento; la sua discussione e approvazione in questa legislatura rappresenterebbe, insieme all’attuazione della moratoria per le spese di nuovi sistemi d’arma, quel “primo passo” nella giusta direzione della nostra nazione; che così potrebbe presentarsi al tavolo dell’Onu per sostenere con autorevolezza la “semplice concreta proposta per l’umanità” presentata dai premi Nobel.

Non c’è tempo da perdere. Bisogna fare presto a disarmare la guerra e finanziare la pace.

Una crescente militarizzazione: rischi in più per la pace e anche per l’ambiente

Fonte:  Fondazione Sereno Regis 

Autrice
Elena Camino


Un interessante caso di collaborazione tra politici e studiosi

È stata pubblicata il 23 febbraio 2021 la relazione finale di una ricerca che era stata commissionata da un gruppo politico (il Left Group del Parlamento Europeo) ai ricercatori di due associazioni che da molti anni sono impegnate nel denunciare – dati alla mano – i rischi e i danni ambientali causati dalle attività militari: una crescente militarizzazione produce rischi in più per la pace e anche per l’ambiente.

Non solo durante le attività belliche (bombardamenti, distruzioni di territori, avvelenamenti di sistemi biologici…), ma anche in tutte le tappe che le precedono e le seguono: dall’estrazione di materie prime, alla produzione di armamenti, alle esercitazioni, agli spostamenti di truppe, fino allo smaltimento – spesso assai inquinante – di residui bellici. 

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Export di armi italiane, segreti e silenzi di Stato

Autore
Giorgio Beretta

Fonte : Fondazione Sereno Regis 

 

Segreto di Stato. È questo il principio che per quasi 50 anni, ha regolato le esportazioni di sistemi militari dell’Italia. Sancito nel Regio decreto n. 1161 dell’11 luglio 1941 – siamo in piena epoca fascista e guerrafondaia – firmato da Mussolini, Ciano, Teruzzi e Grandi, il principio vietava categoricamente la divulgazione di notizie su movimenti, esportazioni e trasferimenti di armi e materiali militari.

Un principio che gli apparati e l’industria militare hanno sempre apprezzato. Anche per questo la legge n. 185 che il 9 luglio del 1990 ha introdotto in Italia «Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento» è sempre risultata indigesta alle aziende militari.

Come noto, il parlamento approvò la legge, dopo due legislature di intenso confronto parlamentare, grazie alla forte mobilitazione della società civile e dell’associazionismo laico e cattolico che promosse la campagna «Contro i mercanti di morte».

La 185/1990 si caratterizza per tre aspetti. Innanzitutto, richiede che le decisioni sulle esportazioni di armamenti siano «conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia» e vengano regolamentate dallo Stato «secondo i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». E su questo punto si dovrebbe aprire un ampio dibattito politico perché il governo non ha mai spiegato al parlamento come le esportazioni di due fregate Fremm e le trattative in corso per esportare all’Egitto 11 miliardi di euro di sistemi militari – facendo dell’Egitto il primo Paese acquirente di armamenti italiani – siano conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia.

In secondo luogo la legge ha introdotto una serie di specifici divieti e un sistema di controlli da parte del governo, prevedendo specifiche procedure di rilascio delle autorizzazioni prima della vendita e modalità di controllo sulla destinazione finale degli armamenti. Infine, richiede al governo di inviare ogni anno al parlamento una Relazione annuale predisposta dal Presidente del Consiglio dei Ministri che comprenda le relazioni dei vari ministeri a cui sono affidate diverse competenze in materia di esportazioni di armamenti.

La legge riporta numerosi divieti ed in particolare due che attengono direttamente la questione delle esportazioni di sistemi militari all’Egitto. Innanzitutto il divieto ad esportare armamenti «verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei ministri, da adottare previo parere delle Camere».

Ed è proprio a questo articolo che la Rete Italiana Pace e Disarmo ha fatto riferimento per evidenziare che la fornitura delle due fregate militari Fremm all’Egitto è in chiaro contrasto con la norma vigente. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, nella sua risposta al Question Time lo scorso 10 giugno ha infatti affermato che «oltre al vaglio di natura tecnico-giuridica, il governo ha ritenuto di svolgere una valutazione politica, in corso a livello di delegazioni di governo sotto la guida della presidenza del Consiglio dei ministri».

Ai sensi della legge, questa valutazione da parte del governo può essere adottata solo «previo parere delle Camere». Ma in questi mesi – l’annuncio della possibile fornitura delle due Fremm è del febbraio scorso – non risulta alcuna consultazione né parere del parlamento.

Inoltre la legge prevede il divieto ad esportare materiali d’armamento (tutti e non solo le cosiddette «armi leggere» «verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’Ue o del Consiglio d’Europa».

Nei confronti dell’Egitto, c’è una duplice chiara documentazione. Il Rapporto inviato nel maggio del 2017 dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riporta che in Egitto la tortura è «praticata sistematicamente» ed è «abituale, diffusa e deliberata in un’ampia parte del Paese».

Inoltre la Risoluzione approvata lo scorso 18 dicembre dal Parlamento europeo evidenzia numerose gravi violazioni dei diritti umani in Egitto e che «gli arresti e le detenzioni in corso rientrano in una strategia più generale di intimidazione delle organizzazioni che difendono i diritti umani».

La famiglia Regeni ha annunciato un esposto contro il governo in carica per violazione delle norme delle legge 185/1990. È bene che intervenga la magistratura. Ma è innanzitutto compito del Parlamento richiedere che il governo riferisca alla Camere circa le esportazioni di sistemi militari all’Egitto. Se non vogliamo che il «segreto di Stato» si tramuti nel «silenzio di Stato».


Giorgio Beretta fa parte dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal)


Fonte: il manifesto, EDIZIONE DEL 02.01.2021

Droni militari, l’Italia spende 20 milioni per armarli

FONTE MILEX

di LORENZO BAGNOLI

Lo ha scoperto l’Osservatorio Mil€x da documenti del ministero della Difesa. Una svolta epocale nella storia militare italiana: per i droni militari sarà possibile attaccare, non solo fare missioni di ricognizione. A questo si aggiunge il costo per rinnovare il parco droni con nuovi esemplari. Un investimento da 700 milioni di euro

L’Italia sta spendendo quasi 20 milioni di euro per armare i propri droni. Dal 2015, il Pentagono ha autorizzato il ministro della Difesa italiano ad armare i propri velivoli a controllo remoto, di produzione statunitense. Finora sembrava che il progetto di trasformarli in delle vere e proprie armi da guerra non dovesse andare in porto.

Invece, come rivela Mil€x, l’Osservatorio sulle spese militari italiane, nel suo rapporto Droni, Dossier sul APR militari italiani, sul piatto ci sono già 19,3 milioni di euro, di cui 0,5 spesi nel 2017 e 5 da spendere nel 2018. La voce, contenuta in documenti ufficiali del ministero recuperati da Mil€x, è definita stanziamento per sviluppare «capacità di ingaggio e sistema Apr Predator B». Tradotto dal gergo militare, significa che i droni italiani (Apr, aerei a pilotaggio remoto) Predator B hanno cominciato la procedura per l’armamento.

Il costo dei droni militari italiani

Finora l’Italia ha stanziato 668 milioni di euro in droni, principalmente allo scopo di acquistare mezzi da ricognizione. Duecentoundici milioni sono stati spesi all’interno del programma Nato Alliance ground surveillance (Ags), attraverso cui si sono acquistati in tutto 15 velivoli (uno costa circa 187 milioni di euro).

Altri 142 milioni di euro sono stati spesi per sei Reaper prodotti dalla statunitense General Atomics. Sono questi i famosi Predator B che l’Italia sta armando, visto che il loro scopo, oltre alla ricognizione, è l’attacco. Terza voce di spesa la partita di nove Predator A (di cui due precipitati) acquistati tra il 2004 e il 2015: 95 milioni di euro.

I droni militari americani che partono da Sigonella

«Il Parlamento dovrebbe urgentemente affrontare questo tema, poiché la detenzione di droni armati implicherebbe dal punto di vista tecnico e politico una flessibilità di impiego bellico infinitamente maggiore rispetto ai tradizionali cacciabombardieri pilotati, che comporterebbe una rivoluzione copernicana della postura militare italiana», scrive Mil€x nel rapporto.

Le vecchie missioni di ricognizione potranno infatti diventare delle missioni di attacco.

La questione droni in Italia finora è sempre passata sotto silenzio. Anche quando a settembre dello scorso anno la Repubblica ha dato la notizia di attacchi missilistici effettuati da droni americani in Libia partiti dalla base Nato di Sigonella, in Sicilia. Per alcuni si sospetta un uso belligerante, non solo per ricognizioni.

Italia: i nuovi droni militari della Piaggio Aerospace

Fin qui lo stato dell’arte, con le spese già effettuate. Il bilancio della difesa però potrebbe raddoppiare. L’ex ministro della Difesa Roberta Pinotti, a febbraio, ha presentato al Parlamento una richiesta per 20 nuovi droni militari P2HH, armabili, per sostituire il vecchio parco velivoli (Predator A e B). Li produce Piaggio Aerospace, azienda con sede ad Albenga, in Liguria, dal 2014 controllata al 100% dal fondo d’investimento Mubadala degli Emirati Arabi Uniti.

La società ha passato anni travagliati sul piano economico. La sua crisi, che ha fatto sfiorare il fallimento al comparto Aerospace, si è acuita con lo sviluppo del primo prototipo di droni Piaggio, i P1HH, uno dei quali scomparso misteriosamente nel Mediterraneo.

Lo scorso anno, il fondo Mubadala ha iniettato nell’azienda 700 milioni di euro per prendere un minimo di ossigeno. La commessa dell’Aeronautica italiana potrebbe essere la spallata per farla uscire dalla crisi.

I dubbi intorno al programma, però, sono molteplici. La commessa vale 15 anni e 766 milioni di euro: 51 milioni all’anno. Non solo: i primi prototipi si vedranno nel 2022. Per altro, il progetto rischia di sovrapporsi al più ambizioso progetto europeo Male 2025 (Medium altitude long endurance), a cui partecipano consorziate le più grandi compagnie che si occupano di sistemi di difesa in Europa, compresa l’italiana Leonardo. L’Italia ha investito nel progetto 15 milioni di euro.

Altre spese inutili per gli F35: prezzo medio 190 milioni

Il ministero della Difesa non è nuovo a investimenti discutibili per rinnovare la flotta aerea. L’esempio più clamoroso sono gli F-35: il volo inaugurale degli esemplari acquistati dalla Royal Air Force (Raf) britannica, avvenuto a giugno, è stato definito dal «imbarazzante» e «patetico» dal Times di Londra. Gli aerei sono prodotti da Lockheed Martin e assemblati in Italia da Leonardo.

Dieci di questi cacciabombardieri sono stati già consegnati, al prezzo medio di 150 milioni di euro l’uno, a cui si aggiungeranno altri 40 milioni di euro di “ammodernamento” di ogni singolo aereo, nato già vecchio. La Corte dei conti, l’estate scorsa, nella relazione sulla Partecipazione italiana al Programma Joint Strike Fighter – F35 Lightning II, il programma di sviluppo dei nuovi cacciabombardieri, ha detto:

«Il programma è oggi in ritardo di almeno cinque anni rispetto al requisito iniziale. Se è vero che lo sviluppo si avvicina al completamento, il passaggio ai lotti di produzione piena è stato rinviato più volte (i lotti di produzione ridotta, inizialmente previsti in numero di 12, sono ormai 14 e si protrarranno fino al 2021), e per riconoscere la piena capacità di combattimento sarà necessario attendere il termine della fase detta di “ammodernamento successivo”, previsto per il 2021».

Si poteva fare meglio, anche perché ai ritardi hanno fatto seguito aumenti dei costi.

Mil€x ha scoperto che al già costoso programma la ministra Pinotti ha aggiunto un’ulteriore commessa di otto F-35, arrivando a un totale di 26 nuovi aerei. L’ultimo Documento programmatico pluriennale del ministero della Difesa redatto sotto la ministra Pinotti, prevedeva un esborso di 727 milioni per quest’anno, 747 milioni nel 2019 e 2.217 milioni tra il 2020 e il 2022.

Si taglia tutto, ma mai la spesa per le armi: nel 2018 aumenta del 7%

Fonte MILEX

Articolo di addioallearmi.it del 6 aprile 2018

Tagli alla sanità, ai servizi pubblici, alle pensioni. Tagli ovunque, spesso orizzontali, ignorando le necessità dei cittadini: il tutto nel sacro impegno dei risparmi per le casse dello Stato. Ma nessuno ha pensato di concentrarsi su un capitolo ricco, che non conosce crisi: le spese militari; che nel 2018 sfioreranno (salvo eventuali ritocchi al rialzo) i 25 miliardi di euro. Né tantomeno il governo Gentiloni ha previsto specifiche riduzioni di spesa per gli armamenti. Anzi, al contrario: rispetto allo scorso anno è stato messo in conto un incremento del 7%. Una questione che si pone al prossimo governo e al nuovo Parlamento, peraltro già gabbato sulle reazione per l’export delle armi made in Italy.

L‘Osservatorio Mil€x ha sintetizzato lo studio realizzato sull’ultima legislatura, in relazione alla spesa militare complessiva.

Nei cinque bilanci dello Stato 2014-2018 di diretta responsabilità di questa legislatura c’è stata una crescita di circa il 5% delle spese militari, valutate secondo la metodologia Mil€x. Si è passati da 23,6 miliardi annui ai quasi 25 miliardi appena deliberati, con una crescita avviata due anni fa dai Governi Renzi e Gentiloni che hanno deciso una risalita dell’8,6% (quasi 2 miliardi in più) rispetto al bilancio Difesa del 2015 (l’ultimo a risentire degli effetti della spending review decisa nel 2012 dal Governo Monti e applicata dal successivo Governo Letta anche al Ministero della Difesa).

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Il nuovo Parlamento sospenda l’invio di armi che alimentano il conflitto in Yemen

fonte Pressenza.com

27.03.2018 Rete Italiana per il Disarmo

Il nuovo Parlamento sospenda l’invio di armi che alimentano il conflitto in Yemen
(Foto di Pressenza London)

A tre anni esatti dall’inizio della conflitto, richiediamo con fermezza alle istituzioni italiane, ai Paesi membri ed all’Unione Europea di sospendere l’invio di armamenti alle parti in conflitto in Yemen e di sollecitare una iniziativa di pace a guida ONU

Non possiamo più chiudere gli occhi davanti alla catastrofe umanitaria che da tre anni si sta perpetrando in Yemen anche con armi italiane. Per questo chiediamo che la prima iniziativa del Parlamento italiano sia quella di conformarsi alle risoluzioni, votate ad ampia maggioranza nel Parlamento europeo, che chiedono di promuovere un embargo di armamenti verso l’Arabia Saudita e i suoi alleati in considerazione del coinvolgimento nelle gravi violazioni del diritto umanitario in Yemen accertate dalle autorità competenti delle Nazioni Unite. Chiediamo inoltre al prossimo Governo di farsi promotore della medesima istanza in sede di Consiglio europeo e di avviare un’iniziativa multilaterale per promuovere la fine del conflitto e il processo di pace in Yemen.

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Riarmo di Stato

FONTE MILEX

Pubblicato su La Nuova Ecologia il 23 marzo 2018

Nel 2018 il ministero dello Sviluppo economico “investirà” 3,5 miliardi di euro per l’acquisto di armamenti, il 5% in più rispetto al 2017. Tra distorsioni e paradossi

Più che la guerra, l’Italia ripudia il buon senso. È sorprendente scoprire fra i dati contenuti negli stati di previsione allegati alla legge di bilancio che nel 2018 il ministero dello Sviluppo economico sganci 3,5 miliardi di euro per l’acquisto di armamenti militari (+ 5% rispetto al 2017). E ancora più sorprendente è realizzare che questo fiume di denaro è pari al 71,5% dell’intero budget dedicato alla competitività e allo sviluppo delle imprese italiane. Una quota sproporzionata di investimento per un settore che contribuisce allo 0,8% del Pil, mentre a quelle piccole e medie imprese tanto amate e difese in ogni campagna elettorale, che sul prodotto interno lordo pesano per il 50%, restano le briciole.

Non si tratta di numeri sparati a caso per fare propaganda a basso costo. A svelarli è l’Osservatorio sulle spese militari italiane nel secondo “Rapporto Mil€x”. Un progetto lanciato nel 2016 dal giornalista Enrico Piovesana e da Francesco Vignarca della Rete italiana per il disarmo. Senza questo strumento di monitoraggio indipendente sarebbe stato più difficile venire a sapere che nel suo complesso la spesa militare italiana per l’anno in corso ammonta a 25 miliardi di euro: l’1,4% del Pil, il 4% in più rispetto al 2017. Un trend di crescita avviato dal governo Renzi (+ 8,6% rispetto al 2015) che non sembra volersi arrestare. Nel 2018 cresce infatti il bilancio del ministero della Difesa (21 miliardi, + 3,4% rispetto al 2017) come continuano ad aumentare le spese per gli armamenti: 5,7 miliardi, l’88% in più rispetto a tre legislature fa. E si conferma la distorsione per cui queste spese sono possibili solo grazie ai contributi del ministero dello Sviluppo economico.

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Rapporto MIL€X 2018: spese militari italiane in aumento, soprattutto per nuove armi, ma anche per il nucleare. Il commento del Nobel per la Pace Daniel Högsta (ICAN)

FONTE  MILEX.ORG

QUI IL PDF DEL RAPPORTO MIL€X 2018

ROMA, 1 febbraio 2017 – Il Rapporto MIL€X 2018 — presentato oggi alla Sala Stampa della Camera dei Deputati alla presenza di Daniel Högsta, coordinatore della campagna ICAN (International Campaign to Abolish Nuclear Weapons) insignita del Premio Nobel per la Pace 2017 —  mostra un’ulteriore incremento della spesa militare italiana: 25 miliardi di euro nel 2018 (1,4% del PIL), un aumento del 4% rispetto al 2017 che rafforza la tendenza di crescita avviata dal governo Renzi (+8,6 % rispetto al 2015) e che riprende la dinamica incrementale delle ultime tre legislature (+25,8% dal 2006) precedente la crisi del 2008.

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Affari di guerra, riparte la corsa agli armamenti. Autore: Enrico Piovesana

Articolo pubblicato su MicroMega il 19 dicembre 2017

Il fatturato dell’industria della guerra torna a crescere grazie alla ripresa della corsa globale agli armamenti iniziata dopo l’11 Settembre ma frenata dalla crisi economica. Dopo cinque anni consecutivi di flessione, il giro d’affari dei produttori di armi è tornato a salire nel 2016 raggiungendo i 375 miliardi di dollari, quasi il due per cento in più rispetto all’anno precedente e – dato forse più indicativo – il 38 percento in più rispetto al 2002.

Lo certifica il prestigioso Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma (SIPRI), sottolinenando come ciò sia dovuto non solo all’aumento del commercio internazionale di armamenti verso le aree di tensione, ma anche alla crescita della spesa militare in armi dei Paesi produttori.

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