Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il Paese

13 dicembre 2022, Giulia Pompili e Maurizio Scarpari parlano del libro “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il Paese” di Giulia Pompili e Valerio Valentini (ed. Strade blu Mondadori). Coordina Amina Crisma.
Con lo scoppio della crisi di governo, iniziata l’11 luglio 2022, l’Italia è precipitata in una campagna elettorale per molti versi inedita….

La guerra come automatismo di de-globalizzazione

di Franco Berardi Bifo

fonte Altraparolarivista.it

 

Il nazionalismo come forma generale della de-globalizzazione

In un libro del 1946 Die Schuldfrage, Karl Jaspers, uno degli ispiratori del movimento esistenzialista, disse che dovremmo distinguere tra il nazismo come evento storico e il nazismo come corrente profonda della cultura europea, che può riemergere.

Le dinamiche sociali e culturali che hanno dato origine al nazismo nel secolo passato hanno qualcosa di simile alle dinamiche sociali contemporanee, ma il contesto storico, psichico, e soprattutto tecnico è molto differente.

Jaspers scrive in quel testo che la caratteristica per eccellenza del nazismo è il tecno-totalitarismo e sostiene che una piena manifestazione della natura del nazismo potrebbe riapparire in futuro.

Ci si può chiedere se quel futuro sia adesso, e la mia risposta è che le condizioni di una riproposizione su scala enormemente allargata del nazismo stanno emergendo dalla proliferazione di movimenti identitari, neo-reazionari, e nazionalisti che prendono forme diverse e anche tra loro conflittuali come nel caso del conflitto tra Russia e Ucraina, in cui due modelli ugualmente nazionalisti si scontrano militarmente.

Anche Timothy Snyder il quale, in Black Earth: The Holocaust as History and Warning, osserva che la l’impotenza e il terrore provocato da situazioni di emergenza di massa, come le catastrofi ecologiche o le prolungate crisi economiche sono le condizioni più inclini alla formazione di regimi totalitari.

Queste condizioni discendono dalla successione di traumi che l’umanità planetaria ha attraversato e sta attraversando: il trauma sanitario della pandemia, il trauma provocato dallo scatenarsi degli elementi nell’ambiente devastato, il trauma bellico che sta producendo effetti destabilizzanti ben al di là del territorio ucraino in cui la guerra si combatte.

Eppure, sebbene alcuni aspetti di quell’esperienza siano effettivamente riaffiorati negli ultimi anni il nazi-fascismo non riapparirà mai nella forma storica che conoscemmo nel ventesimo secolo.

Ripensiamo ai modi della soggettivazione negli anni ’20 del secolo scorso in Germania, dopo l’umiliazione e l’impoverimento imposti al Congresso di Versalles.

Umiliazione e impoverimento crearono le premesse psicologiche di una reazione aggressiva.

L’impoverimento dei lavoratori tedeschi e l’umiliazione della nazione tedesca furono la base psico-sociale su cui qualche anno più tardi Adolf Hitler costruì il consenso che gli permise di vincere elezioni democratiche.

Il senso del suo discorso può ridursi a un’esortazione: “Non pensate a voi stessi come lavoratori sconfitti e impoveriti. Pensate a voi stessi come tedeschi, come guerrieri bianchi, e vincerete”.

Come sappiamo, non vinsero. Ma distrussero l’Europa.

Dalla Russia di Putin all’India di Modi all’Italia di Meloni il potere politico ripete oggi dovunque la stessa esortazione: “Non pensate a voi stessi come lavoratori sconfitti e impoveriti, pensate invece a voi stessi come guerrieri bianchi (o induisti, o islamisti), e vincerete.

Non vinceranno, ma stanno distruggendo il mondo. Per il momento infatti non è chiaro cosa possa fermare la tempesta perfetta che si è scatenata a partire dalla diffusione del virus, ma che andava preparandosi da almeno un decennio, da quando cioè la crisi finanziaria del 2008 scardinò il sistema economico internazionale e la crisi del sistema finanziario venne interamente scaricata sui lavoratori, mettendo in moto un processo di cui oggi cominciamo a vedere gli effetti.

Negli anni ’60 Gunther Anders, ebreo tedesco emigrato e poi rientrato in Germania, osservava che l’arma nucleare costituiva una novità tecno-militare destinata a produrre un effetto di impotenza, terrore e umiliazione i cui effetti possono manifestarsi attraverso l’emergere di quello che lui chiama il Terzo Reich a venire.

Il Nazismo futuro di cui Anders parla nasce dall’impotenza degli umani di fronte all’arma assoluta, che è un prodotto della loro intelligenza ma paralizza l’intelligenza. L’impotenza degli umani di fronte a questa concrezione ostile della loro potenza genererà, dice Anders una reazione aggressiva e gregaria.

Il passaggio finale verso la precipitazione che Anders presagiva potrebbe essere la guerra che la Russia ha scatenato con l’invasione del 24 febbraio, e che gli Stati Uniti avevano lungamente preparato e perfino preannunciato con un’intervista di Hilary Clinton in cui si parla dell’Ucraina come nuova Afghanistan per la potenza russa.

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LETTERA DI 10 EX CORRISPONDENTI DI GUERRA CONTRO LA PROPAGANDA DEI NOSTRI MEDIA

 

“Ecco perché sull’Ucraina il giornalismo sbaglia. E spinge i lettori verso la corsa al riarmo”: lo sfogo degli ex inviati in una lettera aperta. “Basta con buoni e cattivi, in guerra i dubbi sono preziosi”

Undici storici corrispondenti di grandi media lanciano l’allarme sui rischi della narrazione schierata e iper-semplicistica del conflitto: “Viene accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin”. L’ex inviato del Corriere Massimo Alberizzi: “Questa non è più informazione, è propaganda. I fatti sono sommersi da un coro di opinioni”. Toni Capuozzo (ex TG5): “Sembra che sollevare dubbi significhi abbandonare gli ucraini al massacro, essere traditori, vigliacchi o disertori. Trattare così il tema vuol dire non conoscere cos’è la guerra”

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ISRAELE E DINTORNI

 

FONTE : IL BLOG DI FRANCO CARDINI CHE RINGRAZIAMO

 

Molti mi chiedono, dopo i recentissimi fatti di Gaza, quali siano le radici storiche della tragedia: prima 21 morti e 1400 feriti circa, la settimana scorsa; e quindi, il 6 scorso, un altro “Venerdì di Sangue” con altri 7 palestinesi morti e un altro migliaio di feriti. Sassate, bombe molotov e cortine fumogene create da pneumatici bruciati per difendersi dai soldati israeliani, che sparano non già per “rispondere al fuoco” (sassi, molotov e fumo non sono “fuoco” nel senso militare del termine), ma solo per impedire ai manifestanti di avvicinarsi a un confine che, oltretutto, non è uno di quelli stabiliti e internazionalmente riconosciuti ma solo una recinzione creata per decisione e nell’interesse di uno stato e di una forza armata che rifiutano la definizione di “occupanti”. Ma il fuoco israeliano è giustificato dalla necessità di “impedire le infiltrazioni”.

E’ stato notato che le manifestazioni di questi giorni sono state monopolizzate da Hamas, che è il partito leader della “Striscia di Gaza” ma che non rappresenta la volontà di tutti i palestinesi che vi sono rinchiusi, e che ormai arrivano a circa 2 milioni. Certo, l’attuale capo di Hamas nella “Striscia”, Yahya Sinwar (56 anni, scarcerato dagli israeliani nel 2011 nel gruppo dei 1000 imprigionati che vennero “scambiati” con il soldato israeliano Gilad Shalit) è un fautore deciso della “linea dura”. I tribunali d’Israele gli avevano inflitto condanne multiple che giungevano a totalizzare ben quattro ergastoli: è lui l’anima della “Marcia del Ritorno” avviatasi prima di Pasqua e che culminerà il 15 maggio prossimo, tre giorni prima del settantesimo anniversario di quel 18 maggio 1948 che vide la fondazione dello stato d’Israele e che per i palestinesi fu la Nakba,il giorno della “sciagura”.

Pianificata, quindi, l’azione di Hamas: e prevedibile che non tutti i palestinesi di Gaza, che ne subiranno le conseguenze, l’auspichino e l’approvino. Ma queste sono le regole del gioco: il perpetuarsi di una situazione già condannata dalle Nazioni Unite (dalla celebre “risoluzione 242” in poi) ha reso inevitabile che si arrivasse a tanto. La gente di Gaza è ormai provata fino alla disperazione: e una vecchia regola politico-militare, in casi come questi, prescrive che non si debba mai condurre un avversario in condizioni d’inferiorità alla disperazione. I disperati diventano micidiali. Ma il comunicato degli organizzatori della “Marcia del Ritorno” parla chiaro: “Non abbiamo nient’altro da perdere se non la nostra vita”.

Abu Mazen, presidente dell’Authority nazionale palestinese ed erede riconosciuto della linea dell’OLP di Arafat, non ama né Hamas né il partito sciita libanese Hezbollah che l’appoggia: e non ne è riamato. Israele non ha certo bisogno di esser consigliata, sul piano della politica, eppure non dovrebbe mai dimenticare l’aurea massima latina del Divide et impera, che in passato ha magistralmente messo in pratica. Sarà che Bibi Nethanyahu è attualmente preoccupato di ben altre cose che non i palestinesi e che teme molto per il suo posto e i suoi interessi privati, per non parlare della sua immagine pesantemente compromessa: sta di fatto che negli ultimi tempi sembra aver abbassato la guardia in termini di prudenza in misura inversamente proporzionale a quanto ha alzato le mani in termini di aggressività. Non si spara su chi “si avvicina a un confine”, specie se non lo ha nemmeno ancor superato e se quello non è un confine internazionalmente legittimo: non ci si può permettere di far ciò neppure se si è difesi a oltranza da un inquilino della Casa Bianca (a sua volta piuttosto nei guai). Il risultato delle scelte sbagliate di Nethanyahu è stato che Abu Mazen, messe da parte le sue riserve su Hamas, si è rivolto accorato all’ONU, all’Unione Europea e alla Lega Araba affinché vengano fermate “le uccisioni e la repressione da parte delle forze di occupazione israeliane a fronte di una pacifica manifestazione di massa”. Prima dell’ecatombe del 6 scorso, hanno ripetuto i media internazionali, “inviti alla calma” erano arrivati da Jason Greenblatt, inviato del presidente Trump nel Vicino Oriente, dall’Unione Europea, dal presidente egiziano. “Inviti alla calma” rivolti ai manifestanti, affinché desistessero dall’avvicinarsi alle linee difese dai soldati israeliani? O ai vertici delle forze armate (e della politica) d’Israele, affinché si tenesse presente che il rispondere a una manifestazione di protesta usando le armi da fuoco e seminando la morte è qualcosa che almeno da noi italiani, dai tempi di Bava Beccaris in poi, è stata universalmente disapprovata?

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