Mastodon potrebbe rendere la sfera pubblica meno tossica, ma non per tutti

 

 

Il social network open source ha guadagnato milioni di nuovi utenti in seguito all’acquisizione di Twitter. Mentre alcune delle sue caratteristiche potrebbero migliorare la qualità del discorso pubblico, le comunità svantaggiate potrebbero essere escluse.

Le società di social media hanno un difficile equilibrio. Da un lato, devono mantenere gli utenti attivi sulla loro app o sul loro sito web il più a lungo possibile per mostrare loro annunci pubblicitari. I contenuti divisivi, emotivi o che incitano all’odio funzionano meglio in tal senso. D’altra parte, devono mantenere un certo livello di sicurezza online, almeno per placare i propri inserzionisti. I social network quindi incoraggiano comportamenti aggressivi degli utenti sopprimendo contemporaneamente i contenuti più eclatanti (per timore che gli inserzionisti si lamentino), spesso utilizzando sistemi di rilevamento algoritmico pesanti.

Scelte progettuali

Questi sistemi automatizzati non hanno decisamente migliorato la qualità della sfera pubblica. Sì, gli accademici discutono ancora sul ruolo preciso della tecnologia nell’aumento della sfiducia generalizzata che pervade le società in Europa e negli Stati Uniti: dopotutto, anche i giornali di Rupert Murdoch o Axel Springer hanno alimentato paura e rabbia per vendere pubblicità decenni prima di YouTube e TikTok è stato etichettato come ” grandi radicalizzatori “. È possibile che queste piattaforme ospitino semplicemente persone già radicalizzate; che fanno poco più che rappresentare uno specchio per la società.

Tuttavia, una nuova ricerca pubblicata questo mese sottolinea che la tecnologia gioca un ruolo. Un esperimento controllato ha dimostrato che gli utenti di Facebook e Twitter che vedevano contenuti tossici avevano maggiori probabilità di pubblicare loro stessi contenuti tossici. In altre parole, la tossicità è contagiosa. Attenuare i contenuti estremisti su una piattaforma potrebbe consentire conversazioni più significative.

Un altro esperimento condotto in condizioni di laboratorio ha mostrato che le persone erano molto inclini a scoprire e moderare informazioni false e potenzialmente infiammanti. Secondo alcune misure, questo approccio collaborativo funziona meglio dei filtri algoritmici centralizzati. Mantenere il discorso civile potrebbe essere fatto meglio dando il libero arbitrio agli utenti, piuttosto che implementando algoritmi che censurano i contenuti che mettono a disagio gli inserzionisti.

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Senza Netflix è un gran sacrificio

 

Fonte  GAS SOCIAL  che ringraziamo 

“Netflix vietato in caso di penuria, scoppia la rabbia” titola TIO. Fonte di tanto disagio, le paventate misure di austerity energetica proposte dal Consiglio federale. Una levata di scudi si è avuta dalla società civile ormai schiava delle serie tv e dai soliti politici che cavalcano il disagio e la rabbia popolare. Qualcuno si è fermato a pensare cosa voglia dire? Ne dubito.

È però interessante cercare di capire dove, e in che modo, è possibile risparmiare. Quelle che sembrano misure cretine e raffazzonate, spesso non lo sono, basta cercare di capire invece di correre in giro per il cortile come galline senza testa.

Parliamo della proposta, inserita in un dettagliato elenco di altre misure proposte dal Consiglio federale, di eliminare temporaneamente i servizi di streaming. La misura parte da abbassare la risoluzione a eliminare del tutto e per un certo lasso di tempo il servizio. Oddio, detto poi tra noi, siamo andati avanti secoli senza Netflix e lo streaming non è inserito nella carta internazionale dei diritti dell’uomo.

Comunque vediamo di ragionare un attimo su una misura che a molti sembra inutile e stupida. Il consumo energetico mondiale è composto dall’insieme di industrie, anche pesanti, come quella siderurgica o manifatturiera di tutto il mondo, aggiungiamoci strutture agricole, serre, economie domestiche e tutto quanto.

Bene, il 7% di questa energia viene divorata da internet, mica poco.

Secondo una recente ricerca di GreenPeace, Internet consuma appunto ben il 7% dell’energia elettrica mondiale. In particolar modo risultano essere responsabili ripetitori, data center e strutture a supporto della Rete che generano un consumo elevato.

Altra notizia interessante, l’80% dell’energia consumata da internet, è dovuta allo streaming, dunque alla visione e allo scaricamento di video delle piattaforme preposte a questo utilizzo. A questo punto il risparmio energetico non è più così risibile.

Ma c’è di più, Il consumo dei Faang ((Facebook, Amazon, Apple, Netflix e Google), è passato in tre anni (dal 2018 al 2020) da 16,6 Megawatt/ora a 49,7, dunque più che triplicato. Sempre i Faang, se vogliamo fare i pedanti, hanno prodotto, sempre nello stesso lasso di tempo 98,7 milioni di tonnellate di CO2, più di tutta la Repubblica Ceca (92,1), con un aumento aggregato delle emissioni totali del 17% dal 2018 al 2020.

Il giudizio è lapidario, se Internet fosse una nazione, secondo il Global Carbon Project, sarebbe la quarta più inquinante al mondo, dopo Cina, Stati uniti e India.

Vediamo allora che le misure che verranno forse chieste, non sono così idiote come sembrano e sommate garantiscono l’approvvigionamento a tutta la popolazione con sacrifici minimi. Anche perché misure che a noi sembrano minime, ma moltiplicate per milioni di economie domestiche, fanno la differenza. Come per il voto, magari il mio voto personale non cambia le cose, ma quello di milioni di cittadini come me, se andiamo tutti nella stessa direzione, sì. Se però questi sacrifici preferiamo non farli va bene. Taglieremo l’elettricità per due o tre ore al giorno e continueremo a vederci netflix nelle 21 rimanenti. Meglio così o no?

LETTERA DI 10 EX CORRISPONDENTI DI GUERRA CONTRO LA PROPAGANDA DEI NOSTRI MEDIA

 

“Ecco perché sull’Ucraina il giornalismo sbaglia. E spinge i lettori verso la corsa al riarmo”: lo sfogo degli ex inviati in una lettera aperta. “Basta con buoni e cattivi, in guerra i dubbi sono preziosi”

Undici storici corrispondenti di grandi media lanciano l’allarme sui rischi della narrazione schierata e iper-semplicistica del conflitto: “Viene accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin”. L’ex inviato del Corriere Massimo Alberizzi: “Questa non è più informazione, è propaganda. I fatti sono sommersi da un coro di opinioni”. Toni Capuozzo (ex TG5): “Sembra che sollevare dubbi significhi abbandonare gli ucraini al massacro, essere traditori, vigliacchi o disertori. Trattare così il tema vuol dire non conoscere cos’è la guerra”

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Enrico Fierro e il caso Locri: “E’ stata un brutta operazione politica”

Autrice : Graziella Di Mambro

Fonte : Articolo 21.org

L’odiato Mimmo Lucano e gli odiatissimi giornalisti sono stati l’ossessione compulsiva che ha portato, con buona probabilità alle intercettazioni dell’inchiesta Xenia sul modello di integrazione di Riace e sul clamore che fece negli anni 2016-2017, quando, invece, certa vulgata nazional popolare indicava negli immigrati il più importante rischio per l’ordine pubblico e la sicurezza. Il giorno seguente lo scoop sulla seconda “colata” di intercettazioni quantomeno inutili a carico di 33 giornalisti, l’autore, Enrico Fierro, racconta l’accaduto col tono pacato del cronista che non si spaventa e non si illude e che ha seguito questa storia dall’inizio, nei dettagli, alla maniera di un certo giornalismo vecchio stile, ossia leggendo migliaia di documenti e ascoltando, paziente, ogni udienza per raccogliere ogni briciolo interessante di questa vicenda.

Che ha inizio con l’indagine su Mimmo Lucano per poi dipanarsi attorno all’attenzione mediatica per quel sindaco, il quale ha voluto solo dare corpo ad un’idea di accoglienza e integrazione.
“Premetto subito che qui non si tratta di assicurare una disparità di trattamento ai giornalisti né di escluderli dalle intercettazioni nell’ambito di qualsivoglia indagine. Tuttavia ciò che è accaduto è che sono stati ascoltati dialoghi tra giornalisti e Lucano nei quali si parlava di rapporti personali, addirittura di familiari e sono stati trascritti, dunque resi pubblici, numeri di telefono, indirizzi, commenti sulla politica. Io ho fatto con Lucano delle considerazioni politiche, cosa c’entrano con l’inchiesta’”.

Cosa c’entrano?

“Nulla assolutamente. Lo posso dire con certezza e senza pregiudizio. Io mi sono letto le trascrizioni delle udienze e posso affermare che non una sola di quelle intercettazioni trascritte ha apportato alcunché all’accertamento delle contestate responsabilità penali in questa inchiesta né è stata utile eventualmente per altre”

Dunque qual era l’obiettivo? Cosa volevano da Mimmo Lucano?

“Io penso che ciò che è accaduto vada ben al di là di una violazione pur grave della libertà di informare e dell’esercizio della professione. Siamo davanti ad un’operazione politica. Questo è. Sono state utilizzate quelle intercettazioni per un’operazione politica”.

Il processo scaturito dalle indagini sta per arrivare a conclusione. Cosa è stato veramente?

“Io l’ho seguito passo passo e, ripeto, le intercettazioni ai giornalisti non hanno apportato un solo granello di utilità. Poi bisogna dire che questo processo non lo si è potuto seguire in aula. Io ho dovuto aspettare una settimana per leggere le trascrizioni d’aula di ogni udienza e capire. Ma questa è un’altra storia”.
Una storia che riguarda sempre più processi in Italia. Ora abbiamo l’alibi del covid ma in realtà, come ha dimostrato la battaglia per l’accesso al dibattimento di ” Rinascita Scott”, c’è una generale tentazione a sottrarre ai giornalisti la possibilità di seguire anche fasi che la procedura indica espressamente come tappe pubbliche. Per tornare alla vicenda Locri però è utile soffermarsi su un ulteriore passaggio sottolineato da Enrico Fierro. Questo: “E’ difficile credere che chi intercetta e poi trascrive non si renda conto che sta buttando nel calderone elementi ultronei e che, al contempo, sta facendo una violazione grave dei diritti più elementari della giustizia. nel caso dell’indagine della Procura di Locri sono stati resi noti i numeri telefono di persone che, forse, dico forse, non volevano renderli noti. E poi c’è il rispetto per la professione giornalistica. Con quelle intercettazioni è stato conosciuto il contenuto di articoli prima che gli stessi fossero pubblicati. Una roba assurda!”

A chi interessava o interessa in Italia costruire un archivio delle vite private dei giornalisti?

“Non lo so e spero che non si tratti di una schedatura. So invece che 33 giornalisti estranei all’inchiesta si sono trovati con le loro vite dentro al brogliaccio di questa inchiesta. I numeri di telefono di queste persone sono stati resi noti senza il loro consenso e senza alcun nesso con l’inchiesta. Vedo inoltre un evidente attacco ala segretezza delle fonti. anche qui: possibile che chi fa questo non si renda conto della gravità?”

LIBERTÀ DI STAMPA O LIBERTÀ DI MENZOGNA?

Fonte Angelodorsi

Il Coronavirus sta ottundendo le facoltà cerebrali, prima ancora che attaccare i polmoni. Navighiamo in un oceano di follia. Ho scritto più volte che la prima “emergenza” in Italia è la cosiddetta informazione, che è controllata in gran parte da due gruppi finanziari, ed è assolutamente omologata culturalmente, oltre che politicamente a senso unico, e povera, spesso poverissima sul piano della mera capacità giornalistica, non di rado anche nella padronanza della lingua italiana.

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Il motivo per cui i media indipendenti sono così importanti

 

FONTE PRESSENZA.COM

#FreeAssange! Questa richiesta dovrebbe essere letta su tutti i giornali, sentita in tutte le radio e vista in tutte le televisioni, ma la maggior parte dei media mainstream non ne parla e se lo fa, di solito lo trasforma in un “denunciante”, negandogli lo status di giornalista.

Qui in Germania o in Europa, quasi nessuno saprebbe nulla di Julian Assange e del suo percorso verso l’isolamento se non fosse per i media indipendenti, che però non hanno la forza di confrontarsi con i media mainstream.

Viviamo in un’epoca di contraddizioni e sconvolgimenti. È sempre più chiaro che la politica e i media ufficiali non svolgono più i compiti loro assegnati. La politica trascura sempre più i cittadini e rappresenta sempre più apertamente gli interessi di pochi.

Il racconto prestabilito

I media mainstream- il “quarto potere” tanto spesso citato – non mettono più in discussione e non controllano più le azioni dei politici. In larga misura sono diventati una macchina di distribuzione di notizie politiche a sé stante, il cui contenuto non è quasi più informativo. Esiste un giornalismo “copia e incolla”, che utilizza sempre più spesso le stesse fonti di informazione e quindi impedisce alle persone di formarsi una loro opinione.

In generale, i media indipendenti sono indicati come “media alternativi”, ma questo termine può essere fuorviante, perché può suggerire ad alcune persone che sarebbero una sorta di controparte dei media consolidati o dominanti. Ma a mio parere non è così, perché la rete in teoria dà a tutti la possibilità di fare giornalismo, quindi anche a chi segue la narrazione predeterminata.

Liberi da vincoli, con diversi punti di vista

In generale vedo più i “media alternativi” come media indipendenti. Non appartengono a un particolare gruppo mediatico di proprietà di una famiglia o di una società. Non si finanziano con la pubblicità, né sono soggetti ai vincoli delle aziende, dove il tempo e i modi di pensare prestabiliti sono le direttive principali.

Non che essi agiscano come “guardiani della verità”. Viviamo in un mondo estremamente complesso e sfaccettato. Ciò che la maggior parte di loro fa è descrivere le cose da prospettive diverse, mostrare punti di vista diversi. Si sforzano di portare alla luce gli elementi lasciati nell’oscurità dagli altri. La pretesa della maggior parte di loro è quella di essere il più oggettivi e credibili possibile.

Posso e voglio spiegare perché attribuisco tanta importanza ai media liberi e indipendenti solo dal mio punto di vista personale. È il risultato del fatto che ogni persona ha la propria percezione del mondo.

“Noi siamo i buoni!”

Come ho detto all’inizio, la maggior parte dei media mainstream segue una certa narrazione politica. A mio parere, questo rende quasi impossibile all’individuo avere una migliore visione d’insieme. È quindi condannato a pensare e a giudicare in base a percorsi obbligati e questo ha molto poco a che fare con la maturità e l’indipendenza.

“Noi siamo i buoni” è un detto quasi inflazionato nel cabaret politico dei paesi di lingua tedesca, ma è il risultato di un giornalismo che per decenni, giorno dopo giorno, ha cercato di convincere la gente di essere l’unico giusto. Il risultato è un modo di pensare uniforme che fa ormai parte del subconscio e non riflette in alcun modo ciò che il mondo è realmente e le condizioni in esso prevalenti. Questo vale per tutti i settori della vita.

Cosa bisogna fare?

Il problema con i media indipendenti è che ognuno lavora per conto suo e raggiunge un pubblico limitato. In questo modo non si arriva alle masse, ma si vive in una nicchia. Parecchi di loro hanno certamente molte aspirazioni, ma alla fine conducono un’esistenza di nicchia.

Ciò di cui hanno urgente bisogno sono diverse cose: il sostegno dei loro lettori, ascoltatori e spettatori e soprattutto la capacità e la disponibilità a collaborare e a mettere in secondo piano le sensibilità personali e politiche. Non per raggiungere l’uniformità, no, ma per diffondere una notizia, un evento, in modo più efficace di prima, per farne un argomento di ampio dibattito, per metterlo sulla bocca di tutti e quindi per generare pressione.

Una pressione di cui Julian Assange, ad esempio, ha un disperato bisogno, per non finire a consumarsi e magari a morire nell’indegno isolamento dei “buoni”.

Piena solidarietà a Julian Assange e ai media indipendenti!

Traduzione dallo spagnolo di Anna Polo

Reati d’opinione

Autore
Fonte : La Rivista  del Mulino che ringraziamo

Di scuola si parla poco, pochissimo. Non lo si è fatto in campagna elettorale e non lo si sta facendo neppure in questo primo scorcio di legislatura. La cosiddetta “buona scuola” di Renzi, se non altro, ha avuto il merito di riaccendere l’attenzione sul nostro sistema formativo, pieno di falle e di problemi di lungo periodo.

Ma a colmare questo vuoto nel dibattito pubblico ci pensano, come sempre, i social, con la loro veemente e amplificata semplificazione, che in un attimo sa trasformarsi in falsificazione, alla faccia dei nostri dibattiti sul web. Questa volta a pagarne le conseguenze è una insegnante di un istituto tecnico palermitano.

Tutto parte alla fine di gennaio, quando sul profilo di un attivista di estrema destra, vicino a siti come “Vox” e “Primato nazionale”, compare un tweet in cui è taggato il ministro all’Istruzione Bussetti: «Salvini-Conte-Di Maio? Come il reich di Hitler, peggio dei nazisti. Succede all’Iti Vittorio Emanuele III di Palermo, dove una prof per la Giornata della memoria ha obbligato dei quattordicenni a dire che Salvini è come Hitler perché stermina i migranti. Al Miur hanno qualcosa da dire?» [corsivo nostro]. Il giorno dopo si accoda la senatrice leghista Lucia Borgonzoni, questa volta su Facebook: «Se è accaduto realmente andrebbe cacciato con ignominia un prof del genere e interdetto a vita dall’insegnamento. Già avvisato chi di dovere» [corsivo sempre nostro]. (Si noti che l’onorevole Bergonzoni, già candidata sindaca a Bologna e ancora oggi consigliera comunale, è sottosegretaria ai Beni culturali.) Subito scatta l’ispezione da parte dell’Ufficio scolastico provinciale (il cui direttore, si dà il caso, è in corsa per coprire la carica di dirigente regionale), che decreta per l’insegnante una sospensione per 15 giorni con conseguente dimezzamento dello stipendio.

I fatti risalgono al 27 gennaio scorso, quando, in occasione della Giornata della memoria, la professoressa chiede ai propri alunni di preparare un lavoro sulle leggi razziali, che sotto forma di slide verrà poi proiettato nell’aula magna dell’Istituto. In una di queste slide gli autori del power point accostano la prima pagina del “Corriere della Sera” del 1938 al selfie con cui l’attuale ministro dell’Interno mostra sorridente un cartello salutando l’approvazione del cd. «Decreto Sicurezza».

Tutto questo, sollevato come detto dagli immancabili tweet e post, fa scattare la solerte e accurata ispezione ministeriale: pure la Digos arriva a scuola. Oltre alla colpevole (nessun garantismo in questo caso da parte del potere leghista: la signora è una semplice docente di scuola superiore, mica un sottosegretario o un sindaco) vengono interrogati i ragazzi, il preside, gli insegnanti. Insomma, una roba in grande. Non è dato sapere se ci fossero anche i cani e i blindati parcheggiati fuori. Però ai diligentissimi vigilanti si pone subito un problema: il reato d’opinione non esiste. Che fare dunque? Bisogna trovarne un altro, di reato, pur di punire quell’insegnante. Così la professoressa viene sospesa per “omessa vigilanza” (delle opinioni, evidentemente).

Tutto questo per cosa? Lo ha spiegato bene (sempre su Twitter, ci perdonerete) Ermanno Ferretti. L’intento della Lega pare quello di lanciare un duplice avvertimento: il primo è «occhio, ragazzi, perché se pensate delle cose che non ci piacciono vi mandiamo la Digos in classe»; il secondo (non sono in quest’ordine, i due avvertimenti partono in contemporanea), «occhio, prof., perché se i vostri studenti pensano cose negative sul governo ce la prendiamo con voi».

Ora, non sempre è utile stare sul web. Anzi, spesso si perde un sacco di tempo. Ma in questo caso conviene perdere tre minuti e andare ad ascoltare le parole dell’insegnante colpita. Converrebbe soprattutto a chi ricopre incarichi di governo dovendosi occupare di cultura. Così facendo, si accorgerebbe che la signora, visibilmente provata dalla vicenda dopo una vita per la scuola, ha molto da insegnare non solo ai suoi ragazzi, come ha sempre fatto, ma anche e forse soprattutto a chi dalla scuola è uscito da un pezzo e ora se ne sta a palazzo a postare, twittare e sollecitare l’intervento della Digos, ogni qual volta l’opinione altrui si discosta troppo dalla “linea”. Lo dice con pacatezza ma in maniera straordinariamente chiara e didattica, l’insegnante. Insegnare significa abituare i propri allievi a ragionare, a formarsi delle opinioni fondate su più fonti. Abituarli a leggere, soprattutto (udite udite) libri e giornali, preferibilmente di orientamento diverso. Per questo, spiega sempre la prof, il lavoro per la Giornata della memoria era stato preparato in classe con incontri e discussioni, durante le quali tra i ragazzi sono emersi (evviva) anche orientamenti molto diversi. Questo deve fare chi ha in mano la formazione “dei giovani italiani e delle giovani italiane”, per dirla in un modo che possa piacere alla linea e ci eviti la censura.

Non dovremmo nemmeno essere qui a discuterne: un insegnante deve essere responsabile delle opinioni dei propri alunni? Dovremmo piuttosto essere felici, tremendamente felici, che nelle scuole italiane ci siano studenti che hanno opinioni che si sono formate grazie al lavoro e alle letture, grazie allo studio e alle discussioni, magari accese, dentro alle loro classi. Anche se le loro opinioni non ci piacciono.

Se dimentichiamo questo, se una vicenda come questa andrà a spegnersi come tutte le altre, allora vorrà dire che siamo andati davvero troppo oltre.

ControCorrente: unico motivo dei tagli, imbavagliare l’informazione

 

FONTE ARTICOLO21

Tagli! Tagli! Tagli! Tagli all’editoria! L’attuale Governo dice di aver raggiunto il suo obiettivo cercando di far credere ai cittadini che è un risparmio per le casse dello Stato. E’ tra le più grandi fakenews che esperti di mistificazione hanno impacchettato e servito come amaro regalo di Natale a 10mila persone che lavorano nelle 150 testate mirate e colpite da questa legge di bilancio già sbilanciata, a dir poco, nell’impostazione. Esultare per questo obiettivo raggiunto, invece, vuole dire danzare in modo macabro sulla pelle delle famiglie di 10mila persone. Vuol dire anche sottrarre occupazione ad un settore che garantisce pluralismo e democrazia, quello della libera editoria, appunto. Vuol dire attentare alla nostra Costituzione, in particolare all’articolo 21 sulla libertà di informazione.

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Facebook oscura Cambridge Analytica, ha usato dati per campagna Trump

Fonte Primaonline

Riccardo Luna sta indagando su chi in Italia ha usato i servizi dì Cambridge Analytica e dice di essere “vicino alla soluzione”. Intanto ha fatto interessanti ricostruzioni su vecchi e nuovi protagonisti degli studi delle
Dinamiche Comportamentali che hanno l’obiettivo di studiare il funzionamento dei comportamenti di massa e come manipolarli.
Pubblichiamo qui di seguito il pezzo di Riccardo Luna uscito sull’Agi, di cui è direttore.

Il 17 marzo  Facebook ha deciso di oscurare sulla sua piattaforma Cambridge Analytica , la società dati britannica che ha aiutato il presidente Donald Trump durante le elezioni del 2016. La decisione e’ stata presa dopo gli articoli pubblicati sul New York Times e sul Guardian che raccontano della piu grande fuga di dati nella storia di Facebook che ha permesso a  Cambridge Analytica di sviluppare tecniche che hanno costituito la base del suo lavoro sulla campagna presidenziale di Donald Trump nel 2016.

L’ARTICOLO PROSEGUE ALLA FONTE PRIMAONLINE

Tim Berners-Lee: servono regole per impedire che la Rete diventi un’arma

FONTE PRIMA COMUNICAZIONE
13/03/2018 | 10:54

 

 

 

C’è troppo potere nelle mani di Google e Facebook, il web si può trasformare in “un’arma”, serve “un intervento giuridico e normativo”. E’ questo il messaggio contenuto in una lettera aperta dal papà del World Wide Web Tim Berners Lee pubblicata dal Guardian in occasione del ventinovesimo compleanno della sua creatura.

“E’ un anno importante perché per la prima volta più della metà della popolazione mondiale è connessa” ha scritto Berners Lee, riflettendo sul fatto che “il web di qualche anno fa non è quello che i nuovi utenti trovano oggi” poiché all’inizio c’era “ricca selezione di blog e siti”, ora “compressa sotto il grande peso di poche piattaforme dominanti”.

Una concentrazione che permette a poche società “di controllare quali idee e opinioni vengono viste e condivise” e di “trasformare il web in un’arma”.

“Le società lo sanno e stanno mettendo in campo sforzi per risolvere il problema”, ha spiegato il professore del Mit, sottolineando che la soluzione non può venire però dalle stesse aziende che cercano di massimizzare i loro profitti e che i tempi sono maturi per “un intervento normativo e giuridico”.

Infine, una riflessione sulla concentrazione di potere anche nell’innovazione e nell’evoluzione delle tecnologie, poiché “le piattaforme dominanti” avendo mezzi per acquisire startup e i migliori talenti creano “barriere per i concorrenti”.

Di questo passo, ha concluso, “i prossimi 20 anni saranno molto meno innovativi degli ultimi 20”.

Palestine: Facebook must act against death threats

FONTE  IFJ

The IFJ has called on Facebook to take action to remove death threats against Palestinian journalists posted on the social media network. Palestinian journalists covering recent protests against the decision by the US government to recognize Jerusalem as the capital of Israel have been targeted by online trolls.

Writing in Hebrew one post calls says: “The journalists are everywhere, remove them from the field with a bullet in the head before you kill the terrorists.”

Another urges violence against photographers documenting the demonstrations and the violence suffered by protestors stating: “ Hey guys, one comment, get out these photographers, a bullet in the leg will deter them.”

One post calls for photographers to be shot. It reads: “ We need to shoot those photographers, good thing for our forces.”

The IFJ has urged urgent action to stop the threats.

IFJ General Secretary Anthony Bellanger said: “These threats are vile and unacceptable. They amount to incitement to commit murder. Facebook talks a lot about its social responsibility now it needs to act and remove these threats and ban those who post such violent abuse.”

The IFJ also urged the Israeli authorities to act against those making the threats.

Mr Bellanger said: “The Israeli authorities have taken action against Palestinians they accuse of inciting violence not they must show they are prepared to take action against Israeli’s calling for murder. This is not an academic question – Palestinian journalist are being shot at, arrested, threatened and beaten. As long as they take no action the Israeli authorities stand accused of being complicit in such unlawful violence”.

 

Israeli incitment on Palestinian journalists Initiates file downloadhere.  


For more information, please contact IFJ on + 32 2 235 22 16

The IFJ represents more than 600,000 journalists in 146 countries

#NetNeutrality, in gioco c’è la libertà

fonte Qualcosadisinistra

Il problema della neutralità della rete è l’idea secondo cui esisterebbe il diritto ad avere una connessione internet. In realtà non esiste. Ci sono il diritto alla vita, alla libertà e alla felicità. Ti servono dei gigabit per giocare a un videogioco? Paghi il prezzo imposto dal mercato. E lo fai, perché il gioco è fichissimo.”

Con queste parole, l’esponente del Partito repubblicano statunitense Austin Petersen ha preso le parti del capo della Federal Communications Commition (FCC), Ajit Pai, nominato da Trump con un solo obiettivo: cancellare la net neutrality. Perché il tycoon intende abrogare l’ennesima legge targata Obama? E soprattutto che cos’è la net neutrality?

La net neutrality, in italiano neutralità della rete, è la politica che devono rispettare le aziende nell’offrire i propri pacchetti ai consumatori. Secondo questo principio, gli operatori devono garantire all’utenza un servizio equo e trasparente, basato su un trattamento rigorosamente identico per tutti i siti, senza favorire certi argomenti a discapito di altri. Negli Stati Uniti questa norma è stata introdotta nel 2015 da Barack Obama quasi alla fine del suo secondo mandato, malgrado la resistenza del Congresso, composto per la maggior parte da membri del Partito repubblicano.

Il dibattito negli USA riguardo la neutralità della rete è coinciso con la diffusione di internet alla fine degli anni Novanta e l’opinione pubblica, come spesso succede in America, si è divisa in due schieramenti profondamente polarizzati. Chi è a favore sostiene che sul web debba necessariamente esserci un’imparzialità di fondo, per scongiurare un pericolosissimo controllo dei contenuti che di fatto sfocerebbe in censura.

Nessuno meglio di Tim Berners-Lee, inventore del World Wide Web, potrebbe spiegare perché è doverosa la net neutrality: “Internet prospera di mancanza di regole. Ma alcuni valori fondamentali devono essere preservati. Per esempio, l’economia dipende dalla regola che non puoi fotocopiare il denaro. La democrazia dipende dalla libertà di parola. Libertà di connessione, in qualsiasi modo e in ogni luogo, è la base sociale fondamentale di internet e ciò su cui è fondata adesso la società.

Insomma, alla radice ci sarebbero questioni piuttosto serie come la libertà di espressione, ma questo non sembrerebbe interessare ai più scettici, che hanno individuato in Donald Trump, acerrimo nemico dei media tradizionali, la loro guida. La modifica che vorrebbero apportare i repubblicani prevede una rigida regolamentazione che avvantaggia i più ricchi e si configura come un blocco per qualunque nuova azienda: senza la net neutrality, il provider può permettersi di far pagare 5 dollari aggiuntivi per il pacchetto social (quindi un potenziale libero accesso a Facebook, Twitter, LinkedIN, Instagram e via dicendo) e altri 5 per un pacchetto media, per i bisogni di musica, film e serie TV. Qualora non si volesse sottoscrivere tali offerte, ci si potrebbe ritrovare a visitare tali siti con la connessione limitata ad una velocità preimpostata, effettivamente rallentandone l’utilizzo, oppure direttamente trovarsi con l’accesso totalmente bloccato. Questo significa che, a seconda del provider, si dovrebbe pagare per l’accesso a servizi che sono gratuiti nel resto del mondo.

Il prossimo 14 dicembre il nuovo progetto di riforma passerà al vaglio del Congresso e il rischio che lo sforzo fatto da Obama nei suoi 8 anni alla Casa Bianca venga vanificato è concreto.
Il partito di Trump infatti ha la maggioranza e potrebbe agilmente scavalcare l’opposizione dei democratici. In pochissimo tempo l’America potrebbe venire travolta da una inquietante deriva autoritaria che molti, un po’ per scherzo e un po’ per preoccupazione, prevedevano dopo l’elezione di Trump. Tuttavia, anche stavolta l’ultima parola toccherà alla Corte suprema, in cui ripongono fiducia tutti gli ISP (Internet Service Provider) e che ha già tentato inutilmente di smantellare il “Muslim Ban”.

In definitiva, la neutralità della rete è indispensabile perché oggi rappresenta uno dei pochi baluardi contro il dispotismo del terzo millennio. E non saranno le esigenze neoliberiste e lobbiste a permettere che scompaia. Non nella terra dei liberi e la patria dei coraggio

fonte Qualcosadisinistra.it

Caccia alle fonti dei cronisti. Libertà di stampa in pericolo

FONTE MICROMEGA

La carica delle Procure: redazioni e case private perquisite, l’ultimo caso è Nicola Borzi del Sole24Ore: autore di un’inchiesta sui soldi dei Servizi segreti.

di Giorgio Meletti, da il Fatto quotidiano, 22 novembre 2017

Una serie di decisioni illegittime di diverse procure della Repubblica stanno di fatto abrogando il segreto professionale dei giornalisti. Basta il semplice sospetto di una minima violazione di segreto d’ufficio e scatta la perquisizione per scoprire le fonti del giornalista. È una pratica più volte censurata dalla Cassazione e ancor più energicamente condannata da norme e sentenze europee. Eppure accade sempre più spesso.

Frequenze: fermiamo il colpo di mano dell’articolo 89

 

fonte ilmanifestobologna.it

Nel disegno di legge sul bilancio (n. 2960), uno degli ultimi atti della legislatura, c’è un vero e proprio colpo di mano. L’articolo n. 89, infatti, si butta sul complicato tema delle frequenze radiotelevisive e di telecomunicazione in assenza di una seria riforma del sistema. Si utilizza il veicolo sicuro della legge finanziaria -la cui approvazione è sempre certa- per riorganizzare un sistema colpevolmente sconquassato negli ultimi trent’anni e tuttora privo di un ordine democratico.

Passi per la delega all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni a pianificare il percorso della tecnologia 5G previsto dalla Commissione europea. Se mai, si potrebbe obiettare che una simile enfasi tecnologica è figlia di un determinismo un po’ fuori tempo massimo nell’attuale stagione del capitalismo cognitivo che ci interpella se mai su contenuti e paradigmi, piuttosto che su ulteriori “gadget”, per di più gravosi per l’inquinamento elettromagnetico. E così è comprensibile che il passaggio della prelibata banda 700 MHz dalla televisione alla banda larga (rinviato peraltro al 2022 rispetto al 2020 indicato da Bruxelles) sia normato. E mettiamoci pure i proventi delle gare prevista per l’attribuzione degli spazi alle telecomunicazioni.

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“Oggi l’ignoranza è chic, non conoscere Capitali e Paesi e non usare i congiuntivi pare sinonimo di originalità”. L’ironica denuncia di Emma Bonino: “l’unico scudo contro le fake news è la conoscenza”

Fonte PrimaComunicazione che ringraziamo 

 

“Pare che oggi non conoscere le Capitali europee e del mondo, confondere i Paesi, non conoscere i congiuntivi, sia considerato chic, sinonimo di originalità. Mentre usare un linguaggio minimamente corretto profuma di antico”. Esordisce così Emma Bonino, oggi a Milano dal palco della Conferenza mondiale ‘Science for Peace’, dedicata quest’anno al tema delle post-verità.

Emma Bonino

Emma Bonino

Per Bonino l’unico scudo contro le fake news è la conoscenza. “Siamo tutti chiamati a tornare a difendere un principio basilare del sistema democratico che oggi è messo in discussione: quello del conoscere per deliberare – spiega – Se conosci solo bufale, le deliberazioni non saranno brillanti o adeguate. Oggi vediamo che si crea un corto circuito dove le bufale che circolano in Rete si rinforzano, vengono rilanciate dalla carta stampata, ed entrano nel senso comune e nella politica. Ma non la politica del buon senso, piuttosto quella del senso comune che segue soluzioni semplicistiche”.

Ed ecco perché Bonino si rivolge direttamente ai ragazzi con un invito: “Fate il vostro mestiere, studiate. E sarete più resistenti alle bufale e agli imbonitori che sfruttano la paura, uno strumento di
campagna elettorale che va fortissimo”. Quella contro le post-verità è”una battaglia civile che possiamo e dobbiamo vincere. Ciascuno di noi può essere strumento. Possiamo smettere di passare il tempo su Internet fra like e post” e leggere “un buon libro, recuperare il piacere di scrivere a mano. Se studiate, voi ragazzi sarete attori protagonisti e responsabili”. (AdnKronos)

Il governo turco mette in vendita le proprietà e le licenze di trasmissione di 8 gruppi editoriali messi sotto sequestro dopo il fallito golpe del luglio sorso

FONTE PRIMAONLINE CHE RINGRAZIAMO

Il governo turco mette all’asta le proprietà di 8 tra i gruppi editoriali posti sotto sequestro nelle settimane successive al fallito colpo di stato del luglio 2016. Stando a quanto segnala lo Stockholm Center for freedom – che riprende un comunicato del Savings Deposit Insurance Fund (TMSF), fondo di garanzia del sistema bancario del paese – la vendita riguarda i beni di Can Erzincan, Barış e Ört TV stations, comprese le loro licenze di broadcasting, ma anche Nazar, Yerel Bakış, Turgutlu Havadis, Taraf newspapers e Özgür Radio.

segue su fonte PRIMAONLINE

“Internet si è rotto”. Secondo il fondatore di Twitter la Rete “premia gli estremi”. Donald Trump? Senza la piattaforma di microblogging non sarebbe diventato presidente

“Internet non funziona più”, si è “rotto”. Lapidario il commento al ‘New York Times‘ di Evan Williams, fondatore di Twitter e di Medium (2012), lo spazio digitale pensato per contenuti di qualità.

Evan Williams, ceo e fondatore di Medium

“Pensavo che se avessimo dato a tutti la possibilità di esprimersi liberamente e scambiarsi idee e informazioni, il mondo sarebbe diventato automaticamente migliore. Mi sbagliavo”, dice Williams.

“Internet finisce per premiare gli estremi”, precisa. E “se è vero che Trump non sarebbe diventato presidente se non fosse stato su Twitter, beh sì, mi spiace”.

“Dobbiamo aggiustare la Rete: dopo 40 anni ha iniziato a corrodere se stessa e noi”, ribadisce. “Resta un’invenzione meravigliosa e miracolosa, ma ci sono insetti alle fondamenta e pipistrelli nel campanile”.

Le tv curde in Europa di nuovo a rischio oscuramento, appello ad Eutelsat da Fnsi e giornalisti francesi

Fonte Newsletter Primaonline.com

11 maggio 2017 | 13:08

Le tv curde in Europa di nuovo a rischio oscuramento, appello ad Eutelsat da Fnsi e giornalisti francesi

La Federazione nazionale della stampa italiana e i sindacati francesi dei giornalisti Snj/SnjCgt hanno inviato una lettera al direttore generale di Eutelsat, Rodolphe Belmer per esprimere la forte preoccupazione sul fatto che vengano oscurate le emittenti curde. In particolare, in Italia l’emittente Med Nuce Italia, che ha sede a Campobasso, continua ad avere problemi malgrado Eutelsat sia stata condannata dai giudici francesi a togliere l’oscuramento disposto lo scorso autunno. Ieri, 9 maggio, si è tenuta a Parigi una conferenza stampa davanti alla sede di Eutelsat.

Di seguito la lettera dei sindacati a Belmer:

Il governo turco censura persino Wikipedia, l’Enciclopedia libera di internet

FONTE PRESSENZA.COM

08.05.2017 – Redazione Italia

Il governo turco censura persino Wikipedia, l’Enciclopedia libera di internet
Logo della protesta di Wikipedia contro la censura operata dal governo turco (Foto di Wikipedia)
Il Governo turco di Erdogan che attualmente detiene illegalmente oltre 180 giornalisti nelle proprie carceri, pochi giorni fa ha bloccato in Turchia tutte le pagine di Wikipedia, l’enciclopedia libera di internet. Fra le motivazioni addotte dal Governo turco per il blocco ai danni di Wikipedia, la principale è quella in cui si sostiene che Wikipedia, con la diffusione delle proprie notizie, di fatto appoggi i terroristi che operano contro la Nazione turca. Una motivazione del tutto ridicola, per non dire esilarante, se non fosse che tutto ciò sta veramente accadendo.

La disposizione di questo blocco va ad aggiungersi alle molte altre messe in atto dal Governo turco, tutte volte a soffocare ogni forma di dissenso e di libertà minima d’informazione. Di fatto il Governo turco, che adesso appare quanto ci sia di più vicino a un vero e proprio regime, va stringendo ancora di più le maglie di una rete di controllo ormai a dir poco diventata asfissiante. Ci sorprendiamo inoltre, che purtroppo quasi nessuno dei principali media abbia dato risalto a questa importante notizia.

Pubblichiamo il testo della protesta di Wikipedia e la sua raccolta firme che appoggiamo in pieno. Rinnoviamo inoltre tutta la nostra solidarietà ai molti giornalisti che da oltre sei mesi di fatto sono prigionieri politici di un Governo che pare sia uscito dalla più buia notte del medioevo.

Sabato 29 aprile 2017 le autorità turche hanno bloccato l’accesso a Wikipedia nel Paese. Ciò ha comportato la perdita di accesso per la popolazione a una imponente quantità di informazioni storiche, culturali e scientifiche.

Noi, i sottoscritti membri del movimento Wikimedia, crediamo che tutte le persone abbiano diritto all’accesso a informazioni libere di alta qualità nella lingua di loro scelta e in un formato utilizzabile. Siamo felici di rispondere a dubbi riguardo ai nostri contenuti, ma non sono i governi o le corporazioni a stabilire i nostri contenuti. L’ultima parola su queste decisioni spetta al consenso della comunità, basato su fonti indipendenti. Sosteniamo la libertà di espressione e di accesso alle informazioni.

Alcuni mezzi di comunicazione hanno affermato, sulla base di affermazioni attribuite alle autorità turche, che i wikipediani sarebbero sostenitori del terrorismo o che abbiano creato contenuti che «supportano il terrorismo». Siamo amareggiati e sorpresi dall’insinuazione secondo cui la nostra comunità sosterrebbe il terrorismo o azioni violente di qualsivoglia genere. Questo è in contrasto con la stessa natura del nostro lavoro, che consiste nel fornire in modo neutrale i fatti e i punti di vista più importanti. Non appoggiamo programmi politici su Wikipedia. Non appoggiamo il terrorismo.

Questa la dichiarazione integrale emessa dalla Wikimedia Foundation.

Grecia, la battaglia sul debito

L’accordo tecnico raggiunto tra il govero greco e i creditori il 2 maggio porta a compimento il processo di accordo politico intrapreso dal premier Alexis Tsipras fin dal vertice di Malta

L’accordo tecnico raggiunto tra il govero greco e i creditori il 2 maggio porta a compimento il processo di accordo politico intrapreso dal premier Alexis Tsipras fin dal vertice di Malta: usando la consueta strategia di rifiutare sempre ogni concezione “tecnica” e “puramente economica” delle strategia imposta al paese, Tsipras aveva sollecitato la cancelliera Merkel e i massimi responsabili dell’UE a mettere freno al pericoloso gioco che portava avanti il FMI con la complicità del ministro tedesco delle Finanze Wolfgang Schauble. Il risultato è stato un compromesso, doloroso per Atene, ma necessario per portare avanti lo scottante problema del debito.

Si può dare per scontata la conclusione favorevole della seconda valutazione, che era in sospeso fin dalla fine di novembre, alla prossima riunione dell’Eurogruppo. Obiettivo importante per Atene, non tanto per la tranche di quasi 8 miliardi che saranno versati per il pagamento di varie scadenze del debito. L’importanza consiste nel fatto che la Grecia può ragionevolente sperare di potere oramai entrare nel programma Quantitative Easing della BCE.

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L’egemonia mediatica. Il Rapporto del TNI

FONTE SBILANCIAMOCI.INFO

Il controllo dell’informazione appartiene quasi totalmente ai grandi monopoli digitali che costruiscono un’immagine del mondo specchio dei loro interessi. L’analisi del Transnational Institute

State of Power è il rapporto annuale presentato dal Transnational Institute (TNI) che indaga il processo culturale tramite cui le grandi imprese e le élite militari rendono il loro potere apparentemente naturale e irreversibile. L’infografica Manufactured Consent mostra numeri su cui riflettere. Secondo una stima del 2012, solo 6 compagnie possiedono il 90% dei media statunitensi e solo Google e Facebook controllano il 70% dei siti di informazione. Il fenomeno è in crescita: nel 1983 erano 50 imprese a detenere il 90% dei media.

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Ecco ‘Bob’, ovvero l’eccesso di comunicazione

fonte NUOVATLANTIDE.ORG che ringraziamo

di Alfredo Morganti – 4 maggio 2017

Ho sempre pensato che, per rivolgersi adeguatamente ai cittadini-elettori, fosse necessario attuare delle politiche che rispondessero in qualche modo a domande, bisogni, disagi ed esigenze degli stessi. Non in termini sindacali, di rivendicazione, come se fosse una specie di stimolo-risposta. Ma predisponendo una strategia di interventi che puntasse allo sviluppo e alla giustizia sociale, a partire dalla vita quotidiana e dalle esigenze collettive. Sappiamo, anche, come il ‘No’ al referendum sia in buona parte frutto del voto contrario alla riforma da parte dei più giovani. E abbiamo visto come ai seggi delle primarie si fossero recati soprattutto i più anziani. Ciò, per dire che il PD ha un problema ‘giovani’ non da poco, anche paradossale per certi aspetti, visto che il suo Capo si presenta come il ‘nuovo’ e si parla soprattutto di innovazione, futuro, speranza (se ne parla solo, appunto). Detto ciò, vi aspettereste, com’è normale, delle politiche sagge, adeguate, efficaci, non propagandistiche, per recuperare il gap di consenso del partito verso i più giovani. E invece no.

Anche qui, per i renziani, si tratta solo di un ‘difetto di comunicazione’. La controffensiva sarà perciò condotta a colpi di web, e diverrà una battaglia digitale contro quelli che sembrano detenere il voto giovane, ossia i grillini. E così ‘Bob’, la nuova piattaforma web piddina, è pronta a partire. Il lancio avverrà in coincidenza con la proclamazione di Renzi segretario (sempre che si raccapezzino con i voti espressi alle primarie, e si mettano un po’ tutti d’accordo sulle cifre). La battaglia per conquistare i giovani sarà condotta a colpi di click, e avrà come nemico n. 1 Grillo. Senza perdere tempo a predisporre testi di legge e politiche ad hoc, senza la necessità di rivolgersi ai giovani in carne e ossa, Il PD ripartirà col digitale, as usual, punterà al virtuale, tenterà di bucare lo schermo del PC con le parole e le immagini di Renzi profuse a go-go, come uno sciame d’api.

Siccome non sanno che il punto non è un ‘difetto’ di comunicazione, ma al contrario un suo ‘eccesso’, i renziani provano noiosamente a ripartire nell’unico modo che conoscono, ossia coi cannoni mediali e digitali. Il tentativo è quello di intasare le fibre ottiche, non solo la TV, con tonnellate di giga byte di propaganda, saturando i cavi e, vedrete, pure la nostra pazienza. È la stessa cosa accaduta al referendum: Renzi ovunque. Uno e trino. E l’effetto sarà il medesimo: il rigetto e la nausea. I guru renziani non capiscono che, se fosse solo un problema di piattaforma web, non servirebbe un buon governo, né la politica, ma solo un server molto capace e degli smanettatori accaniti. E invece le cose non stanno così. D’altronde, se al governo sai concedere solo bonus, una buona scuola che è un casino e un jobs act che premia in termini occupazionali solo gli ultra55enni, non è che adesso bastino i frizzi e lazzi della comunicazione web per riparare tre anni di sonno e di sciocca dispersione delle risorse. Non è che la comunicazione totemistica del proprio leader possa surrogare il vuoto prodotto dall’esecutivo. Non è che la disoccupazione decresce, entrando nelle tendenze di twitter oppure ottenendo milioni di like sotto qualche post. Perciò non illudetevi (è il minimo che possa dirvi).

PS, e nemmeno è sufficiente pubblicare un libro intitolato ‘Avanti’. Sembra la parafrasi di ‘En Marche’. E a me ricorda quel detto che fa: “Va avanti tu, che a me me viè da ride”.

E’ uscito il numero 84 del Settimanale di Punto Rosso-Lavoro21

Lo potete scaricare qui:
http://www.puntorosso.it/uploads/1/7/0/3/17033228/lav21-sett-n84-s.pdf

In questo numero:

Il più grande sciopero nella storia del Brasile
a cura di Teresa Isenburg

Enrico Rossi sulle primarie: “Il Pd s’è perso la sinistra, a quel popolo che non ha più una casa dico: Vi aspettiamo”
Intervista di Gabriella Cerami

“La sinistra torni a fare la sinistra, sto con Articolo Uno”
di Jonathan Rimicci, operaio

Il giornale prima di tutto Il ricordo di Valentino Parlato.
di Luciana Castellina

Buona lettura e diffondete!

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E’ uscito il numero 2 della RIVISTA di Punto Rosso – Lavoro 21

http://www.puntorosso.it/uploads/1/7/0/3/17033228/lav21-rivista-numero2-s.pdf

Buon compleanno libertà di stampa !

fonte UNIMONDO.ORG  CHE RINGRAZIAMO 

Oggi, 3 Maggio, è la giornata mondiale per la libertà di stampa e sembra più che mai fondamentale celebrarla. Dedicando qualche riga a ricordare i problemi per la libertà dei media e dei giornalisti oggigiorno, le difficoltà per la libera espressione giornalistica sembrano essere sulla cresta dell’onda. Per citarne un paio: crescono gli attacchi fisici e verbali, e gli arresti, verso i giornalisti che seguono temi critici e cresce l’ingerenza dei governi e delle grandi multinazionali dell’informazione sulla circolazione, soprattutto digitale, delle notizie.

Di recente i maggiori media italiani si sono ricordati della situazione problematica per la libertà di stampa, a livello internazionale e domestico, in seguito al caso Del Grande- giornalista italiano arrestato (e ora rilasciato) in Turchia- e al recente report di Reporters Without Borders, che riprende l’Italia per la violenza fisica, verbale e psicologica esercitata contro i giornalisti “scomodi”. Ma andiamo con ordine.

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FCC, nuovo voto per la fine della net neutrality

FONTE PUNTOINFORMATICO.IT  CHE RINGRAZIAMO 
Il vertice della Federal Communications Commission voluto da Trump risponde alle proteste dei colossi del Web fissando una nuova scadenza. Il 18 maggio si vota per smantellare la neutralità della rete e tornare al passato
Roma – Ajit Pai, neoeletto presidente della Federal Communication Commission (FCC) voluto da Trump per imprimere una svolta alla commissione che vigila sulle telecomunicazioni, è tornato a parlare di Net Neutrality. O meglio, della fine della neutralità della rete. Il 18 maggio la FCC esprimerà il suo voto su una nuova proposta volta a “cancellare l’errore del Titolo II”, come affermato dallo stesso Pai, “per tornare al più leggero regolamento che per tanti anni ha ben servito la nostra nazione durante le presidenze Clinton e Bush”

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Per una rete di informazione nonviolenta

FONTE PRESSENZA.COM

Per una rete di informazione nonviolenta

29.04.2017 Redazione Italia

Per una rete di informazione nonviolenta
(Foto di Cesare de Stefano via Flickr)

Durante la riunione della redazione di Pressenza, pochi giorni fa, abbiamo dibattuto con vari amici sul tema di come dare risposta a un sistema mediatico (il coriddetto mainstream) che sta diventando in molti casi sempre più orientato dalla propaganda, cercando di imporre un modello basato sul nichilismo, sul profitto, la legge del più forte e, in sintesi, la violenza.

Ci siamo riletti questo materiale che avevamo elaborato tempo fa e che riprodiuciamo qui sotto e che vuol essere una specie di manifesto per costruire, con più forza, quella rete che già esiste tra media, associazioni, comitati di base, gruppi di pressione ecc ecc, diversi ma accomunati dalla volglia di cambiare il mondo con mezzi nonviolenti.

Chi è interessato a lavorare con maggior forza in questo senso ce lo faccia sapere a redazioneitalia@pressenza.com

 

DARE VOCE AD UN NUOVO MONDO

Per una rete di informazione nonviolenta

 

In quest’epoca di caos sistemico e sociale, esiste un mondo che non ha voce e che non trova spazio espressivo. Il vecchio mondo delle violenza (economica, sociale, mediatica, interpersonale) è andato via, lasciando i suoi strascichi; il nuovo mondo si esprime e cresce ma non trova ancora il suo spazio. I media tradizionali credono ancora di essere il famoso quarto potere ma sono sempre più al servizio della speculazione finanziaria e di quel modello socio-culturale costruito da una minoranza accentratrice ed affarista.
In tale scenario, allo stesso tempo, esiste una tendenza informativa e mediatica: un’altra-voce, un nuovo modello che è iniziato dalle prime radio libere, dai fogli di quartiere e da altre forme di divulgazione di prossimità e oggi, è cresciuto consolidando un nuovo concetto di informare e fare informazione, grazie all’avvento di Internet e delle Reti sociali.

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I banchieri, i fascisti e la società dei due terzi che diventa di uno soltanto di Alfredo Morganti – 26 aprile 2017

FONTE : ATLANTIDE.ORG

Pubblicato il 28 aprile 2017 | di Alfredo Morganti

I banchieri, i fascisti e la società dei due terzi che diventa di uno soltanto

di Alfredo Morganti – 26 aprile 2017

Hanno già pronto il capro espiatorio, tanto per portarsi avanti col lavoro. Nel caso, improbabile, che la Le Pen prevalga, la colpa si riverserà su Mélenchon, che non avrebbe fornito indicazioni di voto per il secondo turno delle presidenziali. Copione facilissimo, quasi banale. Titolo del film: colpa della solita vecchia sinistra. Dopo di che andate a vedere come stanno davvero le cose. Secondo il politologo Henri Vernet (Repubblica di oggi) “molti elettori di Mélenchon provengono dal Front National. Sono quegli ex comunisti che avevano virato nel tempo verso l’estrema destra e che il candidato gauchiste ha saputo sedurre”, sottraendoli di fatto a Le Pen.

La verità è esattamente l’opposto, quindi. Senza l’azione di Mélenchon oggi la destra sarebbe più forte, senza questa sottrazione di consensi a sinistra adesso guiderebbe il primo turno, con effetti psicologici rilevantissimi sulla sfida finale. Certo, i sondaggi dicono che un terzo di elettorato gauchista è pronto a sostenere Le Pen, perché non vuole banchieri (il nuovo!) al potere, ma questa è un’altra storia, o almeno sempre la stessa: in assenza di un argine credibile a sinistra, molti ceti popolari sono suggestionati dalle sirene di destra e dal programma sociale della candidata del Front National.

Qual è la lezione? Che ci sono forze politiche che svolgono compiti essenziali, come quelli di filtrare e trattenere il consenso e la ribellione antisistema che altrimenti si radicalizzerebbe a destra, e così di tenere fuori i ceti popolari dal fronte fascista o razzista, impedendo che si sviluppi una saldatura completa tra popolo e radicalismo anche violento e antidemocratico. È una funzione che in Italia svolge ancora Grillo, per dire, ma che in Francia è compito soprattutto della sinistra radicale. Una funzione ben svolta peraltro da Mélenchon, il cui risultato è stato davvero eccellente. In virtù della semplificazione indotta dal ballottaggio a due, adesso quei voti ritornano però a ‘ballare’, e riconfluiranno in parte verso la Le Pen. D’altra parte di tratta di un sistema, quello del ballottaggio personalistico, che costringe a scegliere il meno peggio oppure richiede voto ‘utile’, spingendo con ciò alla radicalizzazione a destra anche del voto che tale non è.

Più in generale la grande complessità, il grande disagio, la società del due terzi che diventa società di un terzo soltanto, invocando il maggioritario per garantire la ‘governabilità’ con una scelta secca, di spirito comunque plebiscitario, toglie di fatto rappresentanza a vasti certi popolari, li costringe a una modalità di voto che, quando la crisi morde, spinge all’astensionismo oppure al voto rabbioso, antisistema, di destra. La crisi di rappresentanza è frutto di un sistema che ‘sfronda’ il consenso, lo taglia con l’accetta, lo bipolarizza a forza, sperando che ciò basti a far vincere i ‘banchieri’, ottenendo spesso, invece, l’effetto contrario, con i violenti, gli xenofobi, i razzisti, i nazionalisti a prevalere. In un gioco delle parti, sempre più scoperto, che inorridisce.

Somalia: fermate gli attacchi contro i giornalisti e gli altri sindacalisti

Somalia: fermate gli attacchi contro i giornalisti e gli altri sindacalisti

In collaborazione con il Sindacato nazionale dei giornalisti somali (NUSOJ)

 

Il Governo federale della Somalia ha attaccato negli ultimi quattro anni il Sindacato nazionale dei giornalisti somali (NUSOJ) e la Federazione dei sindacati somali (FESTU), perché questi sindacati si sono rifiutati di farsi controllare dal governo. Il governo ha vietato le riunioni sindacali del NUSOJ a Mogadiscio, imposto membri non appartenenti al sindacato come dirigenti del FESTU e del NUSOJ, intimidito dirigenti e membri sindacali, compresi arresti, restrizioni alla libera circolazione, rifiuto di registrare i sindacati per renderli illegali, licenziato la maggior parte degli alti giudici del paese che avevano adottato decisioni a favore del sindacato nel febbraio del 2016, e negato al FESTU il diritto di rappresentare i lavoratori nelle piattaforme tripartite. La Corte suprema della Somalia e l’OIL hanno appoggiato la richiesta che il governo dichiari legittima la dirigenza del NUSOJ e del FESTU riconosciute a livello internazionale e fermi gli attacchi contro i sindacati.


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Bambini

di Alexik

missili-siriaNessun bambino dovrebbe soffrire come hanno sofferto quelli siriani !

Con queste parole Donald Trump ha esternato, il 5 aprile scorso, la sua incontenibile indignazione davanti alle immagini dei bambini di Idlib. Esternazione seguita dal rituale lancio di missili contro il mostruoso assassino, e dalla corale piaggeria degli alleati europei, estasiati dal tuonar delle cannoniere.
Dalla Merkel alla May, da Hollande all’ex pacifista Gentiloni, tutti si sono affannati a dimostrare a Trump il proprio incondizionato consenso, pronti a spergiurare che dietro tanto amore per l’infanzia non si celi alcun secondo fine e che, questa volta, la faccenda del sarin di Assad non sia un’altra montatura.

Del resto non si può certo affermare che gli USA e i loro alleati non facciano di tutto per evitare ai bambini inutili sofferenze.
Al contrario delle armi chimiche, infatti, le bombe convenzionali lanciate sul Siraq dalla Coalizione a guida americana (CJTF-OIR) sortiscono spesso l’effetto di ucciderli sul colpo, risparmiandogli l’orribile agonia.

Come nella cittadina irachena di Tal Afar (l’areoporto di Mosul), bombardata dalla Coalizione giusto il 4 aprile, il giorno prima che l’inquilino della Casa Bianca si accorasse per le stragi degli innocenti.
A Tal Afar fonti locali hanno denunciato la morte sotto le bombe di 20 civili, bambini compresi, mentre i portavoce della Coalizione recitavano la classica versione di circostanza: “Near Tal Afar, one strike engaged an ISIS tactical unit and destroyed an ISIS-held building”.1

Al Tafar1

4 aprile 2017: Tal Afar, dopo il bombardamento.(Fonte: Iraqi Spring Media Center)

Chi avesse sperato, a Mosul, che tanto interesse presidenziale per la salvaguardia degli infanti fosse il segnale di una svolta umanitaria nella politica statunitense, è certo andato incontro ad una cocente delusione: proprio il 5 aprile – più o meno in contemporanea alle dichiarazioni di Trump – nel quartiere Rifai, la famiglia del barbiere Nizar Mahdi veniva annientata da un bombardamento della Coalizione, con un bilancio di due genitori uccisi assieme ai due figli piccoli.

Stesso giorno e stessa sorte per 16 civili, tutti membri della stessa famiglia, ad Al Shafa, un altro quartiere di Mosul ovest, e per 40 civili del villaggio di Mayouf, a nordovest della città, che si erano riuniti nelle loro case in attesa di poter fuggire. Il 6 aprile è stato il turno di una madre e due bambini, uccisi in casa propria nel quartiere di Zanjili.2

Tutti avevano obbedito ai volantini, lanciati a migliaia dagli aerei, che invitavano gli abitanti di Mosul ovest e dintorni a rimanere chiusi in casa, allontanandosi unicamente dai centri di comando del Daesh. ‘Solo quelli‘ – si annunciava – ‘sarebbero stati bombardati3Per questo intere famiglie sono morte tutte insieme nella distruzione delle loro case.

14 aprile 2017. Mosul, bombardamento del quartiere di Mahatta. (Foto: Jérémy André)

14 aprile 2017. Mosul, bombardamento del quartiere di Mahatta. (Foto: Jérémy André)

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#Io sto con Gabriele. Libertà per il giornalista arrestato in Turchia

di Anna Polo

fonte PRESSENZA.COM

Organizzato in due giorni dal gruppo “Io sto con la sposa”, spostato all’ultimo momento da Piazza Scala a Largo Cairoli, il presidio milanese per la liberazione del documentarista Gabriele del Grande, attualmente in isolamento nel centro di identificazione ed espulsione di Mugla, in Turchia, ha attirato centinaia di persone.

Cartelli colorati posati per terra, striscioni e tanti fogli che riproducono le fattezze della gente che Gabriele ha incontrato nei suoi viaggi e di cui ha raccontato la storia, trasformando le vittime in eroi, esaltandone la bellezza, la forza e la determinazione.

Uno degli organizzatori, amico di Gabriele, ripercorre i giorni seguiti all’arresto al confine con la Siria, la raccomandazione di “tenere un profilo basso” e di “aspettare Pasqua e poi il referendum in Turchia”, la scoperta che Gabriele non sapeva niente dell’interessamento del console italiano, che non è ancora riuscito a incontrarlo e gli interrogatori senza avvocato e senza un capo d’accusa preciso. A quel punto, racconta,  abbiamo deciso di smetterla con il profilo basso e lanciato una mobilitazione che si è diffusa in tutta l’Italia. Cita l’appello per la liberazione di Gabriele, da sottoscrivere scrivendo alla mail iostocongabrielelibero@gmail.com e la visita prevista per domani del console italiano e di un avvocato – un primo successo, ottenuto grazie alla pressione.

Parla poi la sorella della compagna di Gabriele, Alexandra, ringraziando tutti, a nome della famiglia, per la presenza e la solidarietà. Segue l’invito a sollevare i fogli con i visi disegnati e l’hashtag #Iostocongabriele e la zona pedonale si trasforma in una moltitudine di braccia alzate.

Intervengono quindi i rappresentanti delle associazioni che hanno aderito al presidio, tra cui Razzismo brutta storia, la rete Milano senza Frontiere, da anni impegnata nella denuncia delle migliaia di morti nel Mediterraneo e Amnesty International, che ricorda le gravissime violazioni della libertà di stampa in Turchia, con centinaia di giornalisti in carcere. Gli amici di Gabriele si alternano al microfono nella lettura dei suoi scritti, lucide e umane denunce delle ingiustizie di cui è stato testimone nel corso del suo instancabile lavoro di documentazione, delle leggi sbagliate che impediscono di viaggiare in aereo, con un visto e che sono responsabili di migliaia di morti ai confini europei. E’ tempo di disobbedire, di ribellarsi, di dichiarare che nessun essere umano è illegale, concludono.

Poesie e testimonianze di siriani e curdi e poi la Banda degli Ottoni, per un finale musicale che piacerebbe molto a Gabriele. In attesa di rivederlo libero, al più presto possibile.

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Chomsky: “Stati Uniti la più grande minaccia per la pace nel mondo, non l’Iran”

Fonte : Nuovatlantide.org

di Cristina Amoroso – 7 aprile 2017

Il mondo è concorde. Non è l’Iran la più grande minaccia per la pace nel mondo, ma gli Stati Uniti. Da tempo lo sostiene Noam Chomsky, il dissidente politico di fama mondiale, linguista, autore di un centinaio di libri, professore emerito presso il Massachusetts Institute of Technology, dove ha insegnato per più di mezzo secolo. Nel corso dei primi 75 giorni dell’Amministrazione Trump, la Casa Bianca ha imboccato più passaggi per aumentare la possibilità di una guerra degli Stati Uniti con l’Iran. Trump ha incluso il Paese del Golfo in entrambi i divieti di viaggio per i Paesi musulmani. Come candidato alla presidenza, Trump ha minacciato di smantellare l’accordo nucleare con l’Iran.

A settembre del 2015, in un discorso alla New School di New York, Noam Chomsky, spiegando il motivo per cui egli riteneva gli Stati Uniti la più grande minaccia alla pace nel mondo, parlava degli Usa come di “uno Stato canaglia, indifferente al diritto e alle convenzioni internazionali, con il diritto a ricorrere alla violenza a volontà”.  In questi giorni in uno show televisivo, Democracy Now, condotto dal giornalista Juan González, Chomsky ha ripreso il tema dei rapporti statunitensi con l’Iran, sulla questione: “Perché gli Stati Uniti insistono su come impostare le potenziali cause di guerra con l’Iran?”.

E’ una vecchia questione che va avanti da molti anni. Proprio nel corso degli anni di Obama, l’Iran è stato considerato come la più grande minaccia alla pace nel mondo. “Tutte le opzioni sono aperte”, frase di Obama, che significa, se vogliamo usare le armi nucleari, siamo in grado, a causa di questo terribile pericolo per la pace. I motivi di preoccupazione vengono articolati molto chiaramente e ripetutamente da alti funzionari e dai commentatori negli Stati Uniti.

Ma esiste un mondo là fuori che ha le sue opinioni, che sono facilmente rintracciabili da fonti standard, come la principale agenzia di sondaggi statunitense; la Gallup che raccoglie sondaggi regolari di opinioni internazionali. Alla domanda: quale Paese pensi sia la più grave minaccia per la pace nel mondo? La risposta è inequivocabile: gli Stati Uniti con un margine enorme, rispetto agli altri Paesi. Molto distanziato il Pakistan, gonfiato sicuramente dal voto indiano. Ancora più distanziato l’Iran, appena accennato. Questa è una di quelle cose che non vanno dette, infatti i risultati che si trovano nella principale agenzia di sondaggi statunitense, non vengono riportati in quella che chiamiamo stampa libera.

Allora, perché l’Iran viene considerato la più grande minaccia alla pace nel mondo?

La risposta ci viene – afferma Chomsky – da una fonte autorevole di un paio di anni fa, la comunità di intelligence che fornisce valutazioni periodiche al Congresso sulla situazione strategica globale. Al centro del loro rapporto, naturalmente, c’è sempre l’Iran con relazioni abbastanza coerenti. Riferiscono che Teheran ha spese militari molto basse, anche per gli standard della regione, molto più basse dell’Arabia Saudita, di Israele e di altri Paesi. La sua strategia è di difesa. Vogliono scoraggiare gli attacchi abbastanza a lungo, perché siano trattati dalla diplomazia. La conclusione dell’intelligence, che è di un paio di anni fa, é la seguente: “Se si stanno sviluppando armi nucleari, che noi non conosciamo, sarebbero parte della loro strategia di dissuasione”.

Ora, quale è il motivo per cui gli Stati Uniti e Israele sono ancora più preoccupati per un deterrente?

Chi è preoccupato per un deterrente? Coloro che vogliono usare la forza. Coloro che vogliono essere liberi di usare la forza sono profondamente preoccupati per un potenziale deterrente. Quindi, “Sì, l’Iran è la più grande minaccia alla pace nel mondo, potrebbe scoraggiare il nostro uso della forza”, conclude Chomsky.

di Cristina Amoroso

 

Dalle fake news alla fake tech

Lelio Demichelis

fakenews-1Da sempre il potere vive di fake news e di post-verità, anche se un tempo si chiamavano in altro modo. Scriveva Thomas Hobbes: «vero e falso sono attributi delle parole, non delle cose». Ovvero, ciò che è vero è contenuto all’interno dello stesso discorso linguistico adottato dal potere per definire i fenomeni della realtà, che possono essere modificati, trasformati, aggirati, nascosti, mascherati. Cioè, non è vero ciò che è vero ma ciò che si dice (e si fa credere) essere vero . In questo modo, Hobbes rovescia il principio di Platone – nel mito della caverna – per il quale invece: «Vero è il discorso che dice le cose che sono come sono; quello che le dice come non sono, è falso». Entrambi usano il concetto di discorso. Ma in modi radicalmente opposti. Perché è evidente che quello usato da Hobbes sconfina nella manipolazione, o nell’ideologia e nella religione, certamente nel totalitarismo (forma moderna di stato assoluto), e oggi appunto nelle fake news e nella post-verità, che resta verità (anche se non lo è) fino a quando non si dimostra che è una falsità. Michel Foucault li definiva meccanismi di veridizione, procedimenti discorsivi utili appunto a trasformare in vero anche ciò che in realtà vero non è ma è utile a legittimare un determinato potere, come oggi quello della Silicon Valley (in ciò che è e in ciò che rappresenta – nel senso di mettere in scena se stessa). Anche la pubblicità è una forma di fake truth, utile appunto a legittimare il capitalismo (il potere).

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Donald Trump firma la legge che abolisce la privacy sul web introdotta da Obama –

Il presidente americano Donald Trump ha firmato la legge approvata dal Congresso degli Stati Uniti che azzera le tutele della privacy su internet. La normativa cancella così le misure di protezione dei dati degli utenti del web, adottata dal suo predecessore Barack Obama. I provider ora non saranno più tenuti a chiedere il permesso degli utenti prima di poter vendere le loro informazioni alle agenzie pubblicitarie, per esempio lo storico delle ricerche e la geolocalizzazione.

SEGUE SU FONTE PRIMA COMUNICAZIONE

Per una sociologia della bufala

FONTE ALFABETA2 che ringraziamo

Fabrizio Tonello

Se si cerca in rete alla voce “Hillary Clinton arrested” compaiono 439.000 occorrenze, per la maggior parte legate a un video dell’ottobre scorso presente su YouTube nel quale una voce molto professionale scandisce quello che si presenta come un comunicato della polizia di New York che avrebbe annunciato l’imminente fermo della candidata democratica perché coinvolta in un giro di pedofilia e tratta di esseri umani. Una rete di criminali la cui esistenza sarebbe stata rivelata dalle famose email di Hillary scambiate con i suoi collaboratori usando un indirizzo privato e non quello ufficiale assegnatole dal Dipartimento di Stato.

Naturalmente questa è solo una delle mille storie fantastiche circolate nei mesi precedenti alle elezioni dell’8 novembre, tra cui la bufala che Papa Francesco aveva dato il suo sostegno a Trump (un milione di condivisioni su Facebook) o quella che Obama voleva vietare il giuramento di fedeltà alla bandiera americana (due milioni tra commenti e condivisioni). Da questo a trarre la conclusione che i russi avevano influenzato le elezioni presidenziali americane a vantaggio di Donald Trump non c’era che un passo, allegramente varcato dai grandi media americani ed europei. Scandalo e orrore, seguiti da editoriali a valanga sulla “democrazia inghiottita dalle fake news”.

Il problema di questo storytelling è che assomiglia un po’ troppo a un caso di panico morale, come definito a suo tempo dal sociologo Stanley Cohen, per essere credibile. La caratteristica delle ondate di panico morale, infatti, è un’esagerazione della gravità della questione portata all’attenzione dell’opinione pubblica, come quando nel 1964 i giornali inglesi crearono il mito dei giovani come nemico pubblico sfruttando le risse di poche decine di motociclisti annoiati e turbolenti nelle fredde stazioni balneari del sud dell’Inghilterra.

I rockers e i mods ovviamente non stavano minacciando di dare l’assalto al Parlamento di Westminster, ma Cohen comprese che l’isteria giornalistica era un fenomeno più profondo di quanto non potesse sembrare a prima vista. Il panico morale si scatena quando “una condizione, episodio, persona o gruppo di persone viene definito come una minaccia ai valori e agli interessi della società; la loro natura viene presentata in modo stilizzato e stereotipato dai mass media; il pulpito morale viene affollato da direttori di giornali, vescovi, politici e altri benpensanti; esperti socialmente riconosciuti pronunciano le loro diagnosi e le loro soluzioni; si ricorre a vari modi di affrontare la situazione; la condizione poi scompare, o degenera e diviene più visibile. Talvolta l’oggetto del panico è assai nuovo mentre in altri momenti si tratta di qualcosa che esisteva da tempo, ma improvvisamente sale alla ribalta”.

In altre parole, la percezione della minaccia si trasforma nella scelta di capri espiatori che vengono resi responsabili di problemi ben più grandi di loro, com’è il caso oggi con le bufale in rete, rese responsabili della vittoria di Donald Trump. Che le fake news siano una spiegazione assai comoda lo si capisce leggendo il rapporto ufficiale delle varie agenzie di intelligence americane, dove sostanzialmente si ammette che non c’è stata alcuna interferenza materiale dei russi nelle operazioni elettorali e quindi tutto si riduce alla propaganda anti-Clinton di media e politici legati al Cremlino.

Soprattutto, ciò che il rapporto non spiega (e gli editoriali dei giornali liberal ignorano) è per quale meccanismo la confusione creata dalle menzogne in rete avrebbe danneggiato Clinton più di Trump. Certo, quest’ultimo era a sua volta un produttore instancabile di frottole cosmiche ma allora sarebbe più esatto dire che le false notizie erano propaganda dei repubblicani (spesso ripresa da media “seri” come Fox News e Wall Street Journal) e non complotti di Putin. Com’è ovvio, tutte le presunte notizie legate alle email di Clinton, ai suoi scandali, crimini e misfatti, venivano da siti o individui legati all’area dei suprematisti bianchi, in particolare a quello Steve Bannon che Trump si è affrettato ad assumere prima come direttore della campagna elettorale e ora come consigliere speciale della presidenza.

I difensori più sofisticati della teoria che le fake news sono una minaccia per la democrazia puntano il dito sulla confusione e sull’impossibilità, per il cittadino, di formarsi un’opinione corretta dei candidati e delle politiche se tutto viene ridotto al livello di pettegolezzi scandalistici. In questa forma la tesi ha una sua plausibilità ma si dimentica che il problema è tutt’altro che nuovo: come scriveva 50 anni fa Hannah Arendt, “nessuno ha mai dubitato del fatto che verità e politica siano in rapporti piuttosto cattivi l’una con l’altra e nessuno, che io sappia, ha mai annoverato la sincerità tra le virtù politiche. Le menzogne sono sempre state considerate dei necessari e legittimi strumenti non solo del mestiere del politico o del demagogo, ma anche di quello dello statista”. E la Arendt continuava speigando che, per sua natura, la facoltà umana del linguaggio consente di comunicare infiniti “stati del mondo” che possono essere o no corrispondere alla realtà (non entriamo qui nell’antico dibattito filosofico su cosa sia la “verità”, discussione che – da Platone a Gianni Vattimo e Richard Rorty – ci porterebbe lontano).

In Gran Bretagna e negli Stati Uniti, le false notizie sui politici e le celebrità difficilmente possono essere considerate un fenomeno del 2016 visto che, per fare un solo esempio, da decenni esistono, e fanno lauti profitti, i cosiddetti supermarket tabloids, che si chiamano così appunto perché vengono venduti alle casse dei supermercati e non nelle edicole. Esiste addirittura un vecchio, esilarante, romanzo di Donald Westlake intitolato Fidati di me (nell’originale Trust me on this) ambientato nella redazione di uno di questi settimanali.

I “giornali seri” hanno sempre fatto finta di ignorarli ma della loro influenza si parla almeno da vent’anni: il famoso caso Lewinsky, che condusse al procedimento di impeachment in cui alla fine Bill Clinton fu assolto nacque da un sito di gossip, il Matt Drudge Report, e poi invase l’intero sistema dei media. Già allora gli stessi grandi giornali avevano scelto di competere sul mercato dei pettegolezzi e la velocità con cui comparivano le notizie on line aveva rimodellato l’ecosistema, unificando di colpo il mercato dell’informazione/intrattenimento e precipitando siti web, quotidiani nazionali, quotidiani locali, settimanali, radio e televisione in un unico calderone informativo. Tutti insieme, in furiosa competizione gli uni con gli altri per rivelare di che colore era il vestito indossato dalla stagista nell’ufficio ovale e se davvero conservava una macchia con materiale biologico dell’imprudente Bill.

Se internet ha cambiato le regole del gioco, questo non è certo avvenuto di colpo: la comunicazione diretta sotto forma di blog e siti improvvisati era in grado di saltare la mediazione dei giornalisti già vent’anni fa. La novità del 2016 è ovviamente il fatto che con Facebook e Twitter tutto è più facile e più rapido. Ma perché le notizie diventano “virali”? Forse converrebbe chiedersi perché molti credano a una notizia come quella dell’imminente arresto di Hillary, invece di precipitarsi a cercare lo zampino di Putin, o degli hacker rumeni.

Un vecchio signore tedesco con la barba che scriveva cose noiosissime nell’Ottocento affermò tra l’altro che “non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”. Si potrebbe obiettare che le conclusioni a cui portava questa impostazione non sempre si sono rivelate corrette, ma limitiamoci al caso americano: i maschi bianchi senza educazione universitaria che vivono nelle zone rurali che hanno votato per Trump sono quelli lasciati indietro dalla ripresa economica negli anni di Obama. Sopravvivono di lavoro precario, o dei magri sussidi della Social Security.

Secondo un recente studio dell’economista Alan Krueger sono oltre 7 milioni gli americani maschi tra i 25 e i 54 anni che non hanno lavoro e non lo cercano perché scoraggiati, quindi non sono contati fra i disoccupati. Il tasso ufficiale di disoccupazione, attorno al 5%, maschera un forte calo del tasso di partecipazione al mercato del lavoro, che nel 2007 era il 66,4% e adesso è il 62,9%, tre punti e mezzo in meno, dieci milioni di persone. C’è da stupirsi che il loro risentimento verso Washington e verso la coppia Clinton che aprì le porte alla globalizzazione sia legato all’insicurezza economica? È il risentimento che apre la porta alle fake news, non le cospirazioni di Putin.

L’antropologa Katharine Cramer, autrice di un lungo lavoro sul campo con la working class del Wisconsin, aveva registrato un forte grado di ostilità verso Hillary Clinton molto prima della campagna elettorale del 2016. Le notizie sui suoi discorsi superpagati a Wall Street, o sulle attività all’estero della fondazione Clinton non hanno fatto che rafforzare l’impressione di una “crooked Hillary”, qualcuno che aveva mille cose da nascondere.

Le conseguenze politiche del risentimento verso le élites sono state amplificate dalle debolezze strutturali del giornalismo americano. La prima è la sua ossessione per le dichiarazioni dei politici, tanto più pubblicizzate, analizzate, commentate, quanto più sono clamorose. “Trump è dannatamente buono per gli indici di ascolto” diceva nel febbraio scorso Leslie Moonves, il presidente della rete televisiva CBS. Da uomo di spettacolo, Trump aveva capito perfettamente che ogni giorno occorreva dare alle televisioni ciò che chiedevano, e rincarava la dose. Quelle che ai giornalisti apparivano proposte insensate (far pagare al Messico il muro da costruire sul confine) erano in realtà abili provocazioni per mantenere alta l’attenzione e catturare anche lo spettatore distratto o marginale.

Internet, da almeno due decenni, ha unificato il mercato giornalistico precipitando prestigiosi quotidiani nazionali e modesti quotidiani locali, storici settimanali e oscuri blog, insieme a radio, televisioni e quant’altro in un unico calderone informativo; tutti insieme, in furiosa competizione gli uni con gli altri, a caccia di clic. Il cosiddetto giornalismo di qualità ha modificato i suoi parametri di riferimento e i suoi criteri di scelta delle notizie cercando di mantenersi a galla e di sopravvivere al calo delle vendite o degli indici di ascolto.

Secondo uno specialista di monitoraggio dei programmi televisivi, Andrew Tyndall, citato da Nicholas Kristof sul New York Times del primo gennaio, nei telegiornali della sera del 2016 il tempo dedicato alla povertà, al cambiamento climatico o alla dipendenza da stupefacenti è stato esattamente di zero minuti. I grandi media sono stati letteralmente ipnotizzati da Trump, dalle sue accuse, dalle sue buffonate, dalle sue minacce; mentre l’approfondimento, o anche il solo discutere di issues, le questioni di fondo, veniva dimenticato.

Il secondo problema è che il modello economico dell’industria editoriale da tempo è in crisi. I media sono imprese private che, in una società capitalistica, esistono in quanto fanno profitti e i giornalisti, prima di essere paladini dell’informazione, sono umili salariati che si occupano di ciò che l’editore e il direttore decidono. Se la proprietà vuole dare credito alle bugie di George W. Bush sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, con conseguenze disastrose per gli Stati Uniti e per il mondo, non saranno né il giovane cronista né il prestigioso editorialista a rovesciare la situazione. Il giornalismo mainstream – in America come in Italia – vive in un rapporto incestuoso con il potere politico per ragioni di efficienza industriale, non per servilismo o cattiveria: semplicemente non si possono fare giornali come Washington Post e New York Times (e nemmeno Repubblica o Corriere) se le fonti governative non collaborano. Lo ha ben capito l’Huffington Post che, dopo aver attaccato Trump per mesi e mesi, dopo la sua elezione ha cambiato bruscamente rotta.

Questa situazione è all’origine della terza debolezza del giornalismo americano: l’impopolarità di giornali e giornalisti. Quando Trump twitta contro i “media disonesti” va a toccare una corda sensibile dell’opinione pubblica, che già vent’anni fa si diceva convinta che i quotidiani “drammatizzano alcune storie solo per vendere di più” (85% degli intervistati) e che “i giornalisti inventano in tutto o in parte ciò che scrivono” (66%). La diffidenza verso la grande stampa ha radici antiche nell’America rurale, quella ignorata dai cronisti, e il successo dei siti alternativi, compresi quelli che sfornano bugie a raffica, è la conseguenza di un risentimento verso i giornalisti, percepiti (non del tutto a torto) come parte dell’establishment.

Ora tutti si chiedono cosa fare, come impedire che le campagne elettorali diventino di nuovo un festival di esagerazioni e menzogne. Purtroppo non ci sono soluzioni semplici, tanto più in una società politicamente divisa e antagonista come quella americana: non saranno i ritocchi agli algoritmi di Facebook o la chiusura di una manciata di account Twitter a risolvere il problema. Chi vuole credere che Obama è nato in Kenya o che Hillary Clinton protegge un’organizzazione di pedofili continuerà a crederci, soprattutto se i rispettabili Fox News e Wall Street Journal di Rupert Murdoch continueranno a lanciare il sasso e nascondere la mano. Forse è la sinistra che dovrebbe smettere di alimentare il panico morale attorno alle fake news e reimparare a comunicare. Una difficoltà che nasce non dalla scarsità di piattaforme ma dalla povertà della sua visione del mondo.

L’ho letto su internet, quindi è vero …

Notizie false e inventate, campagne demenziali che spaventano i genitori che, impauriti,  sottraggono i figli alle vaccinazioni, imbroglioni che promettono cure miracolose per malattie gravissime che hanno poche speranze di guarigione, bullismo e violenza tramite i social network..
Da alcuni mesi sta crescendo un allarme sociale verso i rischi presenti nel cyberspazio che pare orientato verso un solo obiettivo: aumentare i controlli in rete, introdurre sanzioni, ecc

Per la verità non ci sarebbe bisogno di particolari norme poichè le leggi per colpire chi diffonde notizie false e allarmistiche o per contrastare campagne demenziali esistono già nel codice penale. Sarebbe necessaria una maggiore capacità d’investigazione e d’intervento degli organi di polizia  per neutralizzare molte delle nefandezze che circolano in rete.

Ciò che sconcerta invece è la totale mancanza di riflessione sul fatto che molti, troppi cittadini che frequentano la rete siano così indifesi culturalmente da bersi le panzane e le bufale che vengono loro propinate da certi siti che si sono specializzati a fare audience in questo modo. Purtroppo le persone credono in quello che vogliono sentirsi raccontare e si bevono con disinvoltura panzane mostruose.
Come si può contrastare questo inquietante inquinamento della rete costituito da notizie fasulle, panzane e bufale, campagne che fomentano odio e violenza verso le persone diverse per genere, preferenze sessuali, religione o etnia ?

E’ necessario che i siti istituzionali delle Organizzazioni Sanitarie pubbliche (ASL REGIONI) , ad esempio, escano dal torpore burocratico e facciano campagne di verità scientifica per smontare le bufale sulle vaccinazioni. I media tradizionali, radio televisione, quotidiani on line possono dare un grande contributo nello smascherare i siti che pubblicano bufale e a smontare le falsità che vengono diffuse in rete. Basta con i piagnistei sul fatto che la rete ” è piena di cattivi e di malvagi” , la rete è un campo di battaglia sociale ove occorre combattere per contrastare truffatori e manipolatori con l’arma della precisione scientifica, della chiarezza e della tempestività.

In rete vi sono centinaia di siti di associazioni che invece svolgono un ruolo d’informazione corretta sui grandi temi della salute, dei diritti che vanno valorizzati e indicati come riferimenti affidabili…

Infine vogliamo dire che vi è una responsabilità primaria dei cittadini ad informarsi con attenzione e cura , ad essere vigili nell’accedere alle fonti informative, ad apprendere a riconoscere le fonti affidabili da quelle tossiche. Questo compito non è delegabile a terzi, occorre che cresca una cultura dell’uso della rete più avveduto e colto che riduca il numero dei creduloni che si bevono le panzane perchè “l’ho letto su internet”.

editor

Comunicazione strategica o pastrocchio per giustificare una politica europea sbagliata verso la Federazione Russa ?

 
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Mercoledì 23 novembre l’Europarlamento ha adottato la risoluzione intitolata “Comunicazioni strategiche della UE come contrasto della propaganda di terze parti”, in cui si traccia un parallelo tra le attività dei media russi e quelle dei terroristi del Daesh. A sostegno del documento hanno votato 304 deputati, i no sono stati 179, mentre si sono astenuti in 208.

Comunicazione strategica o pastrocchio per giustificare una politica sbagliata verso la Federazione Russa ? Nel documento di maggioranza si confondono e si mettono sullo stesso piano la Federazione Russa e il Daesh . Si richiedono norme statuali a riduzione della libertà d’espressione : le opinioni divergenti dal pensierino unico potranno essere definite “armi propagandistiche” e censurate.

Il documento sulla ” Comunicazione strategica della UE ” approvato dalla maggioranza rappresenta una pericolosa tendenza verso  forme di riduzione della libertà d’espressione. editor

 

 

14 ottobre 2016

PE 582.060v03-00 A8-0290/2016
Relazione sulla comunicazione strategica dell’UE per contrastare la propaganda nei suoi confronti da parte di terzi

(2016/2030(INI))

Commissione per gli affari esteri
Relatore: Anna Elżbieta Fotyga
PROPOSTA DI RISOLUZIONE DEL PARLAMENTO EUROPEO
PARERE DI MINORANZA
PARERE della commissione per la cultura e l’istruzione
ESITO DELLA VOTAZIONE FINALEIN SEDE DI COMMISSIONE COMPETENTE PER IL MERITO

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La riforma Renzi – Boschi è operazione di distrazione di massa

Intervista di Giulio Cavalli a Anna Falcone – 16 novembre 2016

«Questa riforma è ben diversa dalla propaganda che stiamo ascoltando» dice. E aggiunge: «Siamo di fronte a una preoccupante lesione del diritto dei cittadini di votare informati».

Anna Falcone, avvocato cassazionista e vice presidente del Comitato del No è uno dei volti “nuovi” di questa campagna referendaria. Impegnata sul fronte del referendum è attivissima negli interventi e nelle partecipazioni a dibattiti (televisivi e non).  Abbiamo voluto porle alcune domande sulle ultime polemiche di questi giorni.

La campagna referendaria si sta scaldando: scoppiano le polemiche contro la personalizzazione del referendum da parte del premier Renzi e l’ultima in ordine di tempo è la questione della lettera agli italiani all’estero che il premier ha inviato per perorare la causa del no. Come vede la situazione attuale?

Questo è l’effetto immediato e diretto di un’anomalia: il fatto che questa riforma costituzionale sia stata proposta dal governo. E questo è veramente all’origine di tutte queste disfunzioni: un esecutivo (di cui Renzi è responsabile) che si permette non di revisionare la Costituzione (così come previsto dall’articolo 138) ma addirittura di scriverla stravolgendola e toccando l’equilibrio di poteri e il loro principio di separazione. La Costituzione così cambia natura: le Costituzioni nascono proprio per limitare il potere esecutivo dandogli delle regole condivise da tutti per garantire che il potere esecutivo non venga attuato in maniera arbitraria ma in rispetto della sovranità popolare.

Ritenete quindi che il Governo abbia forzato la mano?

Avendo stravolto questa origine per cui le Costituzioni le scrivono i popoli e non i governi e se devono essere modificate così profondamente serve un’assemblea costituente o quantomeno un Parlamento eletto dal popolo con questo mandato (e non certo con una maggioranza eletta da una legge incostituzionale come questa). Essendo partiti da qui siamo arrivati all’anomalia per cui questo stesso governo (che dovrebbe preoccuparsi del diritto degli italiani di partecipare consapevolmente a una consultazione referendaria così importante) si occupa della propaganda. Noi stiamo affrontando questa stagione referendaria senza un soggetto garante dei diritti alla corretta informazione su entrambi i fronti.

Ma l’AGCOM non dovrebbe servire proprio a questo?

L’AGCOM non può sopperire. Ha già denunciato uno squilibrio a favore del sì ma non ha il dovere di garantire la corretta informazione essendo solo un organo di controllo.

E il Presidente della Repubblica?

Il Presidente della repubblica potrebbe intervenire ma è un potere neutro. Può intervenire nel processo legislativo (rimandando alle Camere una legge che non funziona) oppure potere di monito. Ma purtroppo il Presidente della Repubblica si è già rivelato particolarmente timido in queste vicende referendarie.

Del resto anche l’argomento non è di facile comprensione…

Sì, l’argomento è ostico ma purtroppo noi ci ritroviamo di fronte a una campagna, quella del sì, che si fonda su argomenti menzogneri. Riuscire a avere la par condicio solo nell’ultima parte della campagna referendaria (senza parità di mezzi) pone un problema di un’oggettiva sproporzione di mezzi, di visibilità e c’è un abuso di posizioni. Il Presidente del Consiglio dovrebbe preoccuparsi di garantire una corretta informazione: all’estero andava mandata una scheda con delle sintetiche ragioni del sì e del no. Inviare una lettera firmata solo “Matteo Renzi” è un modo per indirizzare il voto. Questo referendum sembra sempre di più una semplice ratifica di decisioni già prese.

Dice Renzi che i principi della Costituzione (la prima parte) non vengono toccati.

La seconda parte sono le braccia e le gambe: se le tagli di fatto rendi impossibile la piena attuazione dei principi della prima parte. Attenzione: noi diciamo da tempo che la Costituzione è modificabile ma bisogna cercare di migliorare la Costituzione e il collegamento tra la prima e la seconda parte. Noi lamentiamo la mancata attuazione di alcuni articoli fondamentali. Molte modifiche (come la riforma del titolo V e l’introduzione del pareggio di bilancio) sono servite a travisare il senso dei principi fondamentali e di alcuni diritti garantiti.

Tipo?

Penso al diritto alla salute: l’articolo 32 tutela il diritto alla salute come diritto universale. In questa riforma si dice che finalmente viene inserita una norma che garantirà a tutti i cittadini italiani lo stesso livello di cura. Noi partiamo da un’anomalia dell’ultima modifica del titolo V che aveva costituito diversi sistemi sanitari quante sono le regioni e che aveva portato a una mancanza di omogeneità. Essendo la salute un diritto economicamente condizionato le ragioni più povere ovviamente non riescono a garantirlo come altri. Con questa riforma si è duplicata la norma già prevista dall’articolo 117 2 comma lettera M che prevedeva già i LEA e i LEP (livelli essenziali di assistenza e prestazioni) secondo cui spettava allo Stato stabilire i principi essenziali di tutela alla salute ma se non costituzionalizzi una garanzia concreta, se non riempi di contenuti queste norme ma indichi solo una competenza vuota diventa l’ennesima norma di rinvio. Non c’è nessuna garanzia. Quando parlano di “farmaci antitumorali” si dimenticano di dire che hanno mantenuto in capo alle regioni le competenze di programmazione e organizzazione, proprio quelle fortemente condizionate dalle risorse economiche delle regioni. Tutta questa riforma è un’operazione di distrazione di massa disseminata di specchietti per le allodole che non garantisce efficienza e che mira semplicemente a un accentramento di poteri in campo al governo.

Dicono che in realtà il popolo però avrà più strumenti come iniziative di legge popolare o referendum.

Si parla di obbligo di calendarizzazione ma basterebbe guardare nella riforma per accorgersi che non c’è scritto da nessuna parte. Anzi, il rinvio della disciplina è vero i regolamenti parlamentari. Peccato che i regolamenti parlamentari siano approvati a maggioranza assoluta dal Parlamento e quindi noi ad ogni governo potremmo vedere cambiare questi meccanismi. Così come per il referendum propositivo e altro. Gli obbiettivi che il governo propaganda vanno verificati. Tutti.

Ora Renzi sembra avere preso una nuova piega “anticasta”. Togliere le bandiere dell’Unione Europea nei suoi ultimi video che significato ha?

È un tentativo di sfruttare a suo vantaggio la vicenda americana ma qui le situazioni non sono assimilabili. La lezione piuttosto è che la mancata partecipazione dei cittadini alla vita politica produca nei cittadini la voglia di un voto che sia schiaffo. Renzi ha poco da sorridere, non vuole capire che questa riforma da molta meno partecipazione (come il diritto di voto ai senatori, solo per fare un esempio). E poi c’è il modo: se il problema era la riduzione dei costi della politica sarebbe bastato diminuire il numero dei deputati. Qui si parla si un risparmio dello 0,10%.

Che aria tira sua questa campagna referendaria?

Mi preoccupa la rabbia. Mi fa molto sperare vedere come questa campagna sia stata capace di riportare all’impegno attivo tante persone che si erano allontanate, tanti giovani e tanti volontari.

continua su: http://www.fanpage.it/parla-anna-falcone-tutta-questa-riforma-e-un-operazione-di-distrazione-di-massa/

http://www.fanpage.it/

La « réapparition » de disparus argentins rouvre le débat sur les droits humains

fonte EQUALTIMES.ORG

by Mariano D. Lafontaine

En Argentine, les disparitions forcées de personnes pendant la dernière dictature (1976-1983) reviennent au cœur du débat politique à mesure que certains, au sein même du gouvernement, remettent en cause le nombre de personnes disparues, dénoncent les référents pour les droits humains et cherchent à améliorer la situation des anciens oppresseurs.

<p>The Mothers of Plaza de Mayo, in front of the Government House, demand rights for the people of the past and present, referring to the ‘'disappeared'' and the current victims of sharply rising unemployment.</p>
The Mothers of Plaza de Mayo, in front of the Government House, demand rights for the people of the past and present, referring to the ‘’disappeared’’ and the current victims of sharply rising unemployment.(Mariano D. Lafontaine)

Déjà en 2014, Mauricio Macri, aujourd’hui président, annonçait qu’il en finirait avec les « détournements des droits humains ». Les organisations visées mettent en garde contre des propos négationnistes.

En janvier passé, Darío Lopérfido, à l’époque ministre de la Culture de la capitale fédérale (où règne le « macrisme ») affirmait que les organisations de défense des droits humains « gonflent » le nombre de personnes disparues – estimé à 30.000. Pourquoi ? « Le chiffre de 30.000 a été convenu autour d’une table pour obtenir des subventions », a-t-il affirmé.

Le grand tumulte qu’a engendré sa déclaration polémique et les pressions qui s’en suivirent ont eu raison de son portefeuille, mais Darío Lopérfido dirige toujours le théâtre public Colón.

Quelques semaines plus tard, le président argentin a sondé l’opinion publique en prononçant un discours dans la même verve. « Je ne sais absolument pas [s’il y en a eu 30.000]. C’est un débat dans lequel je ne vais pas entrer, s’il s’agit de 9000 ou de 30.000 personnes, s’il s’agit de celles indiquées sur un mur ou s’il y en a beaucoup plus », a-t-il déclaré à BuzzFeed Latinoamérica. Il a aussi qualifié les années de plomb de « guerre sale », une expression inventée par les oppresseurs pour justifier le terrorisme d’état, même si ses porte-parole ont ensuite nuancé ses propos.

Marcos Peña, son chef de cabinet, a ajouté : « Le nombre de 30.000 personnes a une valeur symbolique […]. La seule liste officielle est celle de la CONADEP (Commission nationale sur les disparitions de personnes) qui en dénombre moins. » Dans les années 1980, cette liste comptait 8961 disparitions dénoncées. Quelques anciens référents pour les droits humains – aujourd’hui proches du gouvernement – l’ont validée. Toutefois, au niveau des registres officiels, jusqu’en 2003, le secrétariat des droits humains comptabilisait 13.000 plaintes.

Les militants se sont offusqués. Estela de Carlotto, de l’association Grands-mères de la Place de mai (Abuelas de Plaza de Mayo, en espagnol) a défendu le chiffre de 30.000 personnes. « Nous enregistrons encore des plaintes […]. Certaines familles ont été décimées et personne ne l’a fait [déposer plainte]. » Pour Nora Cortiñas, responsable de l’organisation Mères de la Place de mai – Ligne fondatrice (Madres de Plaza de Mayo Línea Fundadora, en espagnol), « le président ne s’est jamais soucié des droits humains ». Et d’ironiser : « Et même, il a fait mieux que Lopérfido ».

En 1978, cinq ans avant la fin de la dictature et des disparitions, les services secrets chiliens ont obtenu des registres militaires argentins consignant 22.000 disparitions. Pour le spécialiste des droits humains, Marcos Tolentino, il ne semble pas insensé qu’en 1983, le chiffre atteigne 30.000 personnes, voire plus.


Les droits humains du 21e siècle

Depuis son arrivée au pouvoir en décembre dernier, le gouvernement de Macri, déclare accorder la priorité aux droits humains du 21e siècle (accès à l’éducation, à la santé et à l’emploi, entre autres). En même temps, des plaintes ont été déposées contre des militants liés au précédent gouvernement de l’ancienne présidente Cristina Fernandez de Kirchner.

En janvier, Milagro Sala, une militante sociale, autochtone et pro-Kirchner, a été arrêtée. Son cas a été soulevé aux Nations Unies et à l’Organisation des États américains (OEA) Amnesty International a dénoncé « une tentative évidente de criminaliser l’exercice du droit de manifestation » et a exigé sa libération.

Une autre partisane notoire de Kirchner, Hebe de Bonafini, présidente de l’association Mères de la Place de mai (Madres de Plaza de Mayo, en espagnol), a été citée à comparaître dans une affaire de corruption.

Hebe de Bonafini, 87 ans, a comparé le gouvernement à la « dictature de Mussolini » et a été traitée de « folle » par Macri. Elle refusé de comparaître devant les tribunaux invoquant une opération médiatico-judiciaire avant sa marche hebdomadaire pour les disparus – la deux millième marche.

La tentative d’intrusion dans les locaux de l’association et d’arrestation – en faisant entrer en scène des troupes d’élite, des canons à eau et des hélicoptères – n’a pas abouti, les manifestants ayant veillé à protéger la militante.

Pour l’intellectuel Dante Palma, cet épisode était un « test » pour mesurer l’opinion publique, qui, dans le cas de Milagro Sala, s’est montrée nettement moins catégorique. Il va jusqu’à dire que l’objectif final de ce « test social » serait l’ancienne présidente Kirchner (et plus concrètement le niveau d’acceptation sociale de son éventuelle arrestation), qui fait actuellement l’objet d’une enquête pour de prétendus faits de corruption.

Dans le même temps, le fait que des génocidaires condamnés puissent purger leur peine en étant assignés à domicile fait polémique. Le gouvernement assure qu’il s’agit d’une question de droits humains.

Les organisations estiment que seuls des problèmes de santé qui ne peuvent être traités dans les établissements pénitentiaires donnent lieu à ce genre de décisions et critiquent la position officielle de ne pas faire appel des décisions de justice. Selon le chef de cabinet, « on ne faisait pas appel non plus » du temps de Kirchner, « seulement dans les cas emblématiques ».

Au même titre qu’il y a eu des prisonniers et des morts sans jugement, des corps sans sépulture, des enfants volés et privés de leur identité, certains craignent d’arriver à un génocide sans chiffre dont on suspecterait ceux qui le dénoncent.

D’après Marcos Tolentino, « on introduit le doute sans preuve, dévalorisant le tout. En mettant en cause le nombre de personnes disparues et en dénigrant les responsables des organisations de défense des droits humains, on finit par remettre en question les consensus conclus après 40 années de lutte contre l’oubli. »


Cet article a été traduit de l’espagnol.

fonte EQUALTIMES.ORG

Brasil vive ‘processo de violência contra a democracia’, diz Lula

fonte Redebrasilatual.com-br  che ringraziamo

Ex-presidente é entrevistado pelo cineasta Oliver Stone e relata as “combinações perfeitas” que levaram ao golpe contra Dilma Rousseff e a criminalização do PT
por Fernando Morais publicado 12/11/2016 14:55
NocauteTV / reprodução

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Lula, entrevistado por Oliver Stone e Nocaute: ‘terão que ir pra rua disputar comigo’

Nocaute – Em visita ao Brasil para o lançamento de seu filme “Snowden”, o cineasta norte-americano Oliver Stone, ganhador de três Oscar, visitou o ex-presidente Lula, com quem almoçou e a quem entrevistou com exclusividade para o Nocaute.

O próprio Lula inicia a conversa, lembrando a Oliver de um encontro anterior que teve com o cineasta, na Venezuela, quando então a América Latina tinha em Lula, Néstor Kirchner e Hugo Chávez o “o trio que tentava organizar” o continente e que seria desfeito em pouco tempo à frente, especialmente após a morte dos líderes da Argentina e Venezuela, respectivamente.

Na primeira parte da entrevista, Stone ouve de Lula sobre o momento político brasileiro, como se construiu a deposição de Dilma Rousseff e a campanha de criminalização do PT, visando sobretudo a inviabilização de sua candidatura em 2018.

Leia trechos:

Lula: Quando nós dois nos encontramos em Caracas, não, em Maracaibo, era um momento de muito otimismo na América Latina. Nós acreditávamos que estávamos construindo uma estrutura política mais prolongada. Mas aí veio a morte do Chávez, a morte do Kirchner, a minha saída da Presidência. E aí o trio que tentava organizar a América do Sul não existia mais. Foi uma pena. Uma pena. E eu sei que você tinha muita esperança, muita expectativa, mas precisamos começar tudo outra vez. Eu queria lhe dar os parabéns pelo novo filme, espero que tenha muito sucesso, como os outros. Bem vindo ao Brasil.

Obrigado. (…) Eu gostaria muito de ver o senhor ser presidente novamente.

Olha, temos uma guerra aqui no Brasil. No Brasil aconteceu um processo de violência contra a democracia. Há todo um trabalho de construção de uma teoria mentirosa para justificar o afastamento da Dilma e a criminalização do PT.

Eu fico pensando: não teria sentido eles darem o golpe parlamentar que deram e dois anos depois me devolverem a Presidência!

Eu acho que, neste momento, eles trabalham com a ideia de tentar evitar que eu tenha qualquer possibilidade de participar das eleições de 2018. E como eles não podem evitar a decisão do povo, eles estão tentando via Poder Judiciário.

Há uma quantidade enorme de mentiras, as coisas mais absurdas, quem nem uma criança de parque infantil admitiria. E há uma combinação perfeita da imprensa, da Policia Federal e do Ministério Público que constroem, cada um a seu tempo, as mentiras. Só para você ter ideia, de março a agosto o principal canal de televisão aqui do Brasil, no seu principal jornal, teve 14 horas de matéria negativa contra mim. Em cinco meses.

A Rede Globo?

E eu não sei como é que vai terminar, porque eu tenho desafiado eles a provar que algum empresário tenha me dado dinheiro. Eu vou até pedir ajuda pra CIA, para ver se conseguem descobrir uma conta minha no exterior (risos).

Agora, por falta de prova, eles dizem o seguinte: não peçam provas, porque o Lula criou um partido, esse partido é uma organização criminosa, o Lula indicou os ministros para roubar, portanto Lula é o chefe. Eu não tenho provas, eles dizem. Nós não temos provas, mas temos convicção.

Então o que deixa eles preocupados é que quando eles fazem pesquisa de opinião pública eu apareço em primeiro lugar para 2018. Então eu não sei como é que vai ficar. Por enquanto, paciência.

O senhor tem grandes parceiros com quem pode contar, que lhe deem apoio?

Nós entramos com um processo nas Nações Unidas, em Genebra, temos um movimento sindical internacional fazendo campanhas de denúncias, e vamos trabalhar agora os processos juridicamente.

Assista a segunda parte: “Se quiserem me derrotar vão ter que ir pra rua disputar comigo”:

Participaram da entrevista Maximilien Arvelaiz e Gala Dahlet

Il digitale, i controlli a distanza e… la democrazia!

Il digitale, i controlli a distanza e… la democrazia!
C’è un filo rosso che lega la contro-riforma costituzionale con i controlli a distanza che coinvolgono i lavoratori anche nei momenti liberi. di Riccardo De Angelis 22/10/2016

Fonte  LACITTAFUTURA.IT

 


L’autunno è arrivato sull’onda del dibattito relativo all’impatto dell’era digitale e robotica nel mondo del lavoro, con le ormai abituali previsioni di riduzione di milioni di posti di lavoro. Tralasciando ora la questione che la riduzione non è legata all’innovazione ma alle scelte di sfruttamento che il capitale adotta, vogliamo concentrarci invece sulle capacità di controllo della produzione e dei “produttori” che il digitale consente in assenza di una adeguata regolamentazione o meglio ancora concezione dell’organizzazione del lavoro.

Dopo le modifiche operate di fatto sull’Art.4 dello Statuto dei lavoratori (L. 300/70) dal Jobs Act e al portone aperto dall’accordo del 2011 tra Confindustria e Sindacati, ratificato da una norma inserita dall’ultima Finanziaria di Berlusconi dello stesso anno, le aziende private e pubbliche stanno operando un affondo deciso per conquistare questo baluardo della rigidità sindacale. Il divieto di controllo a distanza, già eluso negli anni precedenti con diversi accordi aziendali che con la scusa della sicurezza cedevano quote di questo diritto alla riservatezza, subisce un destino in controtendenza rispetto a quanto stabilito dalle nuove normative sulla privacy che avrebbero potuto blindare tale divieto anche dentro i luoghi di lavoro. Come è facile capire, la politica della sicurezza imperante, ha fatto invece cedere il passo al “diritto” dei lavoratori e lavoratrici di poter essere liberamente spiati durante l’orario di lavoro.

Se è vero che i precedenti accordi venivano molto spesso trincerati dietro la postilla per cui le informazioni raccolte tramite i sistemi di controllo non potevano essere in alcun modo utilizzate per provvedimenti disciplinari, è altrettanto vero che si introduceva il monitoraggio costante e ripetuto dei comportamenti abituali dei lavoratori, potendo in ogni caso definire meglio i profili di attivisti, agitatori, o contestatori di diverso ordine e grado.

Oggi, invece, il contesto normativo legato anche alle molteplici attività digitali ha creato i presupposti per un appetito più ampio per il datore di lavoro. La battaglia, che nel ciclo di lotta di conquista era contro l’aumento della produttività a scapito di salute e occupazione, si è trasferita nell’era contemporanea (già pregna di lotte di retroguardia) nella battaglia contro la produttività individuale a favore della più volte reiterata condivisione dei sindacati per la produttività collettiva. Quindi cessa di avere una qualsivoglia capacità di resistenza nel momento in cui il datore di lavoro può misurare costantemente e sistematicamente l’attività di ogni suo singolo dipendente nel momento stesso che sta operando. Ciò permette di esercitare una pressione concreta e psicologica sul singolo, tanto più con un modello salariale sempre più legata alla produttività, che avrà ripercussioni psico-fisiche ben note già da 40 anni.

Ma se tutto ciò non fosse abbastanza, in queste settimane la voracità di Confindustria e dei suoi più agguerriti assaltatori non si esaurisce negli strumenti coercitivi legati al semplice aumento della produttività individuale ma al controllo stesso del singolo lavoratore, con particolare attenzione al profilo che può innescare la contestazione anche in quelli sopiti.

Il cambio normativo sollecitato per contrastare le inevitabili e oggettive resistenze che l’appiattimento dei salari sta determinando ha bisogno di un “salto di qualità” nella capacità di isolare e rendere inoffensive quelle avanguardie che non si arrendono e continuano a seminare conflitto o semplicemente a svelare la natura antiumana del capitalismo in ogni loro contesto.

Questa affermazione che forse molti troveranno abnorme, si rafforza nei ragionamenti e nelle richieste ingiustificate di aziende “pubbliche” o private che non si accontentano di controllare l’attività di produzione di ogni singolo dipendente, ma sempre più ne vogliono controllare la sfera personale, di relazioni, di pensieri che grazie alla sempre più coinvolgente digitalizzazione della comunicazione passa attraverso strumenti promiscui come le mail, i social, il web ecc ecc. Gli algoritmi che permettono a un Facebook qualsiasi di proporci beni di consumo in base alle ricerche o ai “like” inseriti in esso, devono diventare l’abituale controllo giornaliero del datore di lavoro nei confronti del lavoratore.

Cosi, se l’Università di Chieti installa dei software di controllo individuale per conoscere preferenze, discussioni, ricerche e letture on line dei tecnici-amministrativi e dei docenti con la scusa della sicurezza, per fortuna (ribadiamo pura fortuna!) il Garante della privacy, a seguito dell’inchiesta istituita su sollecitazione dei dipendenti, ha vietato tale utilizzo perché il software raccoglieva dati sensibili in nessun modo utili alla sicurezza o all’interesse dell’Università.

Almaviva, invece, preferisce chiudere 2 sedi (Roma e Napoli) dove guarda caso l’accordo sul controllo a distanza era stato rigettato dalle assemblee in maniera netta, preferendo mettere per strada 2000 persone circa. Ree non solo di non acconsentire all’abbattimento del costo del lavoro ma che pretendono “impunemente” di lavorare senza essere trattati come si fa in un campo di concentramento. Perciò la capacità di “rieducazione” di tale gruppo di lavoratori è talmente scarsa che Almaviva non ritiene opportuno cercare strade alternative alla chiusura delle sedi ribelli e lasciare in piedi la sola sede dichiaratasi più pronta a farsi stuprare la dignità.

Telecom Italia, dal canto suo, nella trattativa per il rinnovo del contratto integrativo richiede non solo il controllo nei luoghi produttivi dove operano circa 50mila dipendenti, ma anche di tutti gli strumenti messi a disposizione dalla stessa azienda che non vengono considerati legati all’attività lavorativa come web, mail, social, ecc- Ora, ammesso che non siano legati all’attività lavorativa, ci chiediamo perché l’azienda spende soldi per mettere a disposizione tali strumenti, e ancora qual è il bramoso interesse per conoscere usi e costumi di ogni singolo dipendente se ciò non è strettamente connesso all’attività lavorativa?

La verità è che la cospicua giurisprudenza considera tali strumenti per loro natura promiscui in quanto utili alla comunicazione di ognuno di noi che, come noto, non è univoca ma afferente alla sfera di relazioni che abbiamo e che per la maggior parte degli esseri umani spazia da quella lavorativa a quella affettiva fino ad arrivare oggi ad ambiti quali l’e-commerce. Ancora il 15 settembre di quest’anno il Garante per la protezione dei dati personali nel pronunciarsi sull’ateneo di Chieti ha specificato quali siano gli strumenti per i quali è possibile trovare un’intesa sindacale per il controllo a distanza e quali, invece, siano fuori dalla portata di questi accordi in quanto riguardanti diritti GARANTITI costituzionalmente. Il Garante della privacy esclude quindi il monitoraggio costante e sistematico di mail, instant messagging, registrazione di indirizzi IP e dati personali, ma questo non pare fermare l’appetito padronale.

Un sistema di annientamento personale che, certificato dalla legge, mina la tenuta democratica del paese. Parliamo del controllo totale di una persona che ha la sola sfortuna di lavorare sotto padrone! Di una società in cui il datore di lavoro, per il fatto stesso che “ti concede” di lavorare per lui, ha diritto di sapere ogni cosa dei propri dipendenti e quindi, volenti o nolenti, di costruire il proprio giudizio su una serie di questioni che esulano dall’ambito lavorativo. Si potrebbe obiettare che tali strumenti basta non usarli ma l’era digitale ormai impone l’utilizzo quasi giornaliero di strumenti come quelli citati, ed ove anche fosse possibile l’auto-coercizione del proprio pensiero, ciò risulta abbastanza spaventoso.

Non è un caso che il Garante si esprima in contrasto con tali utilizzi non solo rispetto alle norme sulla privacy ma anche in riferimento agli aspetti costituzionali relativi al divieto di discriminazione delle persone in base al sesso, razza, religione, ideologia . E non è un caso che personaggi come Briatore, Squinzi e simili affianchino il governo Renzi nell’azione di destrutturazione della carta costituzionale ultimo relitto di una legislazione costruita nel conflitto e nella mediazione di classe, a favore un nuovo sistema di regole totalmente sbilanciato per il Capitale e i fruitori dei suoi privilegi.

22/10/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

Fonte  LACITTAFUTURA.IT

LIBERTA’ D’INFORMAZIONE A RISCHIO NEGLI USA : FARE IL FILMAKER DOCUMENTARISTA NEGLI USA PUO’ COSTARE MOLTO CARO..

Due giornaliste che riprendevano con la videocamera manifestazioni di protesta contro la costruzione di un oleodotto nel Nord Dakota sono state arrestate e imputate per reati che possono portare ad una condanna per 20 o trent’anni di prigione. Non è una bufala, è una notizia riportata dal quotidiano inglese Guardian. Altro che salvaguardie per chi fa informazione garantite dal primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, le polizie e i giudici locali si comportano come i loro colleghi degli “Stati delle banane”.

Documentary film-makers face decades in prison for taping oil pipeline protests (fonte Guardian.uk )

Documentary Filmmaker Faces Up to 45 Years in Prison for Covering Pipeline Protest (fonte trofire.com )

Documentary Filmmaker Faces Up to 45 Years in Prison for Covering Pipeline Protest