Il disincanto degli studenti di Marco Lodoli


Fonte DoppioZero

Per alcuni decenni la scuola è servita anche ad avvicinare le classi sociali: nelle aule convergevano interessi e aspettative, si respirava la stessa cultura, si creavano possibilità per tutti. In fondo al viale si immaginava un mondo senza crudeli differenze, senza meschinità e ingiustizie. La conoscenza era garanzia di crescita intellettuale, e anche sociale ed economica. Chi studiava si sarebbe affermato, o quantomeno avrebbe fatto un passo in avanti rispetto ai padri. Tante volte abbiamo sentito quelle storie un po’ retoriche ma autentiche: il padre tranviere che piangeva e rideva il giorno della laurea in medicina del suo figliolo, la madre che aveva faticato tanto per tirare su quattro figli, che ora sono tutti dottori. Oggi le cose sono cambiate radicalmente.

Chi viaggia in prima classe non permette nemmeno che al treno sia agganciata la seconda o la terza: vuole viaggiare solo con i suoi simili, con i meritevoli, gli eccellenti, i vincenti. «A me professò sto discorso del merito mi fa rodere. La meritocrazia, la meritocrazia… ma che significa? E chi non merita? E noi altri che stamo indietro, noi che non je la famo, noi non contiamo niente?». Questo mi dice Antonia e neanche mi guarda quando parla, guarda fuori, verso i palazzoni di questo quartiere di periferia, verso quei prati dove ancora le pecore pascolano tra gli acquedotti romani e il cemento. Qui  la divina provvidenza del merito non passa, non illumina, non salva quasi nessuno. Guardo la classe: Michela ha confessato che non può fare i disegni di moda perché a casa non ha un tavolo, nemmeno quello da pranzo. Mangia con la madre e la sorella seduta sul letto, con il vassoio sulle ginocchia, in una casa che è letteralmente un buco.

Leggi tutto

CODICI IDENTIFICATIVI SUBITO Chiediamo misure di identificazione per gli agenti impegnati in operazioni di ordine pubblico

Condividiamo la Campagna di Amnesty 

CODICI IDENTIFICATIVI SUBITO

Chiediamo di prevedere misure di identificazione per gli agenti impegnati in operazioni di ordine pubblico.

Vent’anni dopo il G8 di Genova del 2001, molti dei responsabili delle gravi violazioni dei diritti umani commesse in quell’occasione sono sfuggiti alla giustizia, restando di fatto impuniti.

In parte, il motivo è legato all’impossibilità di identificare gli esecutori materiali da parte dell’autorità giudiziaria.

Negli anni successivi, altri casi di persone che hanno subito un uso sproporzionato della forza durante manifestazioni o assemblee pubbliche, chiamano in causa la responsabilità di appartenenti alle forze di polizia.

Per porre fine alle violazioni dei diritti umani che vedono un coinvolgimento delle forze di polizia e riaffermare il ruolo centrale di queste nella protezione dei diritti umani, è essenziale che le lacune esistenti vengano al più presto colmate.

Tra queste ci sono i codici o numeri identificativi individuali, elemento importante di accountability; il fatto che i singoli agenti e funzionari siano identificabili è un messaggio importante di trasparenza che mostrerebbe la volontà delle forze di polizia di rispondere delle proprie azioni e allo stesso tempo accrescerebbe la fiducia dei cittadini.

La richiesta è quella di esporre un codice identificativo alfanumerico sulle divise e sui caschi per gli agenti e i funzionari di polizia (senza distinzione di ordine e grado) impegnati in operazioni di ordine pubblico.

Ciò avrebbe un duplice effetto di trasparenza: verso i cittadini, che saprebbero chi hanno di fronte, e a garanzia di tutti gli agenti delle forze dell’ordine che svolgono correttamente il loro servizio.

PER ADERIRE A QUESTO APPELLO VAI ALLA PAGINA DI AMNESTY 

 

Il pericoloso virus di autoritarismo e carrierismo nella giustizia che infligge calvari a persone innocenti di Lorenzo Diana

FONTE ARTICOLO21

Da una vita di lotta alla camorra ad indagato innocente, la storia di come un “semplice” indagine avviso di garanzia mi abbia cambiato la vita in un istante ed esposto a cinque anni e mezzo di gogna mediatica.

Solo pochi giorni fa il GIP Marco Giordano, su richiesta del pm Catello Maresca della procura di Napoli, ha archiviato l’ultima delle due indagini aperte sul mio conto.
Quella relativa ad un presunto abuso d’ufficio nella nomina di un avvocato, che, da presidente del CAAN, il Centro Agroalimentare di Napoli (il mercato), avevo dovuto nominare per la difesa nel giudizio contro la società Cesap, appartenente ad un noto camorrista tuttora detenuto.

Leggi tutto

Riforme costituzionali tese relazioni governo-legislativo in Cile

Santiago del Cile, 18 nov. (Prensa Latina) La Commissione Costituzionale del Senato del Cile invierà oggi alla plenaria una riforma costituzionale per un secondo ritiro dei fondi pensione che mantiene sempre più tesi i rapporti con il governo.

Il giorno prima quella Commissione, che analizza la proposta già approvata a forte maggioranza alla Camera dei deputati, ha ascoltato il parere di rappresentanti di importanti organizzazioni dei lavoratori che chiedevano che l’iniziativa fosse approvata in tempi brevi e senza “scritte in piccolo”.

Al termine di quella seduta, il senatore socialista Alfonso de Urresti, presidente di quel gruppo, ha detto che questo mercoledì proseguirà il dibattito fino a quando la proposta non sarà completamente spedita, la cui approvazione il governo cerca di impedire con ogni mezzo.

Leggi tutto

Cile, «tolleranza zero» e soda caustica contro i manifestanti

 

Pubblicato da Il Manifesto.it  il 24 dicembre 2019. Ringraziamo Il Manifesto

Autrice   Claudia Fanti

La rivolta contro Piñera. Virale il video del giovane schiacciato tra due blindati. «Mostro dell’Interno» sotto accusa. E al Congresso passa la trappola del «processo costituente» a misura di destra

La scena, ripresa in un video che ha fatto subito il giro del web, è tra le più brutali viste in oltre due mesi di proteste: un mezzo blindato che insegue un giovane e lo schiaccia, provocandogli una frattura al bacino, contro un altro blindato, prima di allontanarsi inseguito da migliaia di manifestanti inferociti.

È L’EFFETTO della «tolleranza zero» promessa dall’intendente della regione metropolitana Felipe Guevara nel caso di manifestazioni non autorizzate, come quella che si è svolta venerdì in Plaza de la Dignidad, come è stata ribattezzata Plaza Italia, il cuore della rivolta contro il governo Piñera. «Mio figlio Oscar – ha scritto su Twitter la madre, Marta Cortez – è stato brutalmente, intenzionalmente investito e schiacciato da due veicoli anti-sommossa. È vivo per miracolo. Questa barbarie avallata dal “mostro dell’Interno” e dallo Stato cileno deve finire».

Una barbarie di cui è emerso nei giorni scorsi un nuovo inquietante dettaglio: nell’acqua lanciata dagli idranti dei carabineros durante le proteste è stata rintracciata, secondo uno studio diffuso dal Movimiento Salud en Resistencia, la presenza di gas urticante e di soda caustica. E mentre nella piazza militarizzata alcune migliaia di manifestanti subivano la repressione di sempre, il Congresso, dando il via libera al «processo costituente», faceva nuove, e inutili, concessioni in vista del plebiscito del 26 aprile, quando il popolo cileno dovrà non solo esprimersi a favore o contro l’elaborazione di una nuova Carta costituzionale, ma anche scegliere l’organismo incaricato di redigerla: una Convenzione mista costituzionale (composta al 50% da rappresentanti eletti e per l’altra metà dagli attuali parlamentari) o una Convenzione costituzionale (interamente votata dal popolo).

COSÌ, NELLO SFORZO DI RENDERE più credibile quella che resta una colossale trappola – il criterio della maggioranza dei due terzi per l’approvazione di ogni singolo articolo della nuova Costituzione assicura alla destra un solido potere di veto -, i parlamentari hanno infine introdotto la parità di genere e le quote per i popoli originari e per i candidati indipendenti (eccessivamente penalizzati dall’attuale sistema elettorale) che erano state inizialmente escluse. Ma se l’obiettivo è quello ben noto di mantenere lo status quo e di porre fine alle proteste, il tentativo di gettare briciole alle forze scese in piazza pare stia dando già qualche frutto: per quanto lo scontento resti inalterato, con la tregua di fatto decisa dalla Mesa de Unidad Social le mobilitazioni sono venute man mano perdendo forza.

GRANDE È STATA invece l’affluenza alla consultazione non vincolante organizzata da 226 (su 345) municipi del paese sul tema della Costituzione: il 91% dei due milioni di cittadini che hanno partecipato alla votazione si è pronunciato a favore di una nuova Carta, di cui il 78% ha optato per la Convenzione costituzionale interamente votata dal popolo. Tra le principali priorità sociali indicate dagli elettori, l’aumento delle pensioni (con il conseguente innalzamento delle condizioni di vita degli anziani) è risultato al primo posto, seguito dal miglioramento della qualità della salute pubblica, dall’accesso a una buona educazione, dalla riduzione della disuguaglianza del reddito e dalla lotta all’impunità.

Addio libertà: prof sospesa perché i suoi studenti hanno paragonato le leggi razziali al dl Salvini

 

Fonte : Repubblica

=======================

la nota di editor

Questa vicenda fa rabbrividire. La caccia ossessiva e la repressione di qualsiasi forma di divergenza dal minuscolo  Salvini pensiero è ora pratica quotidiana. Dai vigili del fuoco che con le scale esterne vengono mandati a staccare striscioni che non danno il benvenuto al ministro a tempo perso,  alla penalizzazione di una docente per un video prodotto da ragazzini quattordicenni. Questo video, le eventuali affermazioni esagerate potevano essere oggetto di discussione pacata e occasione per un libero confronto educativo. Sarebbe stata una occasione di crescita per tutti. Anche per la zelante ispettrice ministeriale e per l’ossequente Ufficio Provinciale… Per quanto attiene alle dichiarazioni della sottosegretaria alla cultura , la bolognese Borgonzoni, una signora che , si dice,  non ami la lettura dei classici, no comment… Un augurio di cuore che questa vicenda si ridimensioni e venga revocata questa sanzione borbonica che ci rammenta tempi bui.

La notte più buia eterna non è…

editor

=========================

FONTE GLOBALIST

 

Rosa Maria Dell’Aria è stata sospesa per due settimane perché non avrebbe vigilato sul lavoro dei suoi studenti 14enni che in un video hanno paragonato le leggi razziali al decreto sicurezza

Caso Zucca: il capo della Polizia tira fuori una grossa bugia

fonte pressenza.com

Autore Alberto Cacopardi 
Oggi, 21 marzo 2018, equinozio di primavera, il capo della Polizia della Repubblica Italiana ha pronunciato una flagrante menzogna davanti alla stampa, ai media e a tutto il popolo italiano.
Franco Gabrielli stava manifestando la sua alta indignazione per le parole del sostituto procuratore generale di Genova Enrico Zucca, già pubblico ministero al processo per le torture della scuola Diaz, il quale, davanti alla madre di Giulio Regeni, aveva osato sostenere che è difficile pretendere che l’Egitto ci consegni i suoi torturatori, quando noi teniamo i nostri torturatori ai vertici della polizia.
Zucca si riferiva al fatto che diversi responsabili di quei tristi e indimenticabili episodi, pur essendo stati riconosciuti colpevoli e condannati per i loro misfatti, sono stati reintegrati nelle loro funzioni e addirittura promossi a posizioni di alto livello nella Polizia di Stato, non appena scaduti i termini dell’interdizione dai pubblici uffici conseguente alle condanne penali.

Modena, la Camera Penale vuole mettere sotto osservazione il lavoro dei giornalisti. Fnsi e Odg: «Iniziativa inquietante»

 

«Apprendiamo con grande sconcerto e preoccupazione dell’intenzione di istituire un osservatorio per monitorare l’attività dei media locali. E non è la prima volta che sindacato e Ordine sono costretti a occuparsi di intimidazioni, esplicite o velate, fatte a chi si occupa di informare i cittadini sul processo ‘Aemilia’», commentano i vertici regionali e nazionali degli enti di categoria.
 

«Apprendiamo con grande sconcerto e preoccupazione dell’iniziativa intrapresa dalla Camera Penale di Modena di istituire un osservatorio per monitorare l’attività dei media locali sui temi di cronaca e politica giudiziaria sostenendo che l’analogo Osservatorio nazionale dell’Unione delle Camere Penali, dopo un’approfondita indagine, è giunto alla conclusione che spesso l’informazione ‘diventa strumento dell’accusa per ottenere consensi e così inevitabilmente condizionare l’opinione pubblica e di conseguenza il giudicante’». Lo affermano, in una nota congiunta, la presidente dell’Aser, Serena Bersani, il segretario generale della Fnsi, Raffaele Lorusso, il presidente dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia Romagna, Giovanni Rossi e il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Verna.«La Camera Penale di Modena – spiegano – fa esplicitamente riferimento al processo ‘Aemilia’, in corso da oltre un anno a Reggio Emilia, che per la prima volta ha alzato il velo sulle infiltrazioni mafiose in Emilia Romagna, per decenni sottovalutate. E lo fa proprio in concomitanza con un’udienza dello stesso processo in cui un pentito ha rivelato che, tra i progetti degli ‘ndranghetisti in Emilia, c’era anche quello di uccidere un giornalista scomodo. Notizia che pare non aver toccato in maniera altrettanto significativa la sensibilità degli avvocati».

Leggi tutto

Attacco a Gheddafi: serve un dibattito parlamentare ….

La redazione di Onde Corte ritiene importante rendere pubblici e diffondere Comunicati e Documenti interessanti anche quando non ne condivide  pienamente o parzialmente i contenuti.

FONTE INDIPENDENZA E COSTITUZIONE

Comunicato stampa

Attacco a Gheddafi: serve un dibattito parlamentare per mettere sotto processo Napolitano e Berlusconi in quanto non hanno tutelato l’interesse nazionali e hanno violato la Costituzione.

La lettera aperta ai Parlamentari: “Di chi è la colpa dell’invasione? ” nella quale Indipendenza e Costituzione, Riscossa Italia, Risorgimento Socilialista chiedevano un dibattito sulla mancata opposizione e la partecipazione all’attacco poi alla Libia è stata ripresa da alcuni esponenti politici ed ha aperto la discussione.

Le dichiarazioni contraddittorie di Berlusconi, Napolitano ed altri ministri dell’epoca avvalla la necessità di fare chiarezza a livello istituzionale. È ora che questo Parlamento abbia un sussulto di dignità e di verità. Infatti, come tutti possono ben vedere, la colpa di quanto accade: il carico di dolore e di morti, i soldi spesi ed i fallimenti di Mare nostrum, Frontex, Sophia nascono proprio dalla distruzione della Libia perpetrata da Francia, Inghilterra, Usa, Italia. Le stesse confuse scelte di questi giorni sono testimonianza di quegli errori.

Leggi tutto

Barca: “Renzi ha fallito. Il cambiamento passa per la società civile”

 FONTE MICROMEGA

Dopo aver tentato senza successo di riformare il Pd, l’ex ministro si è focalizzato sulla cittadinanza attiva: “Bisogna recuperare spazi di confronto e di democrazia nella società. Reclamarli, al limite occuparli perché è necessario l’antagonismo anche duro”. E questo weekend sarà a L’Aquila per il Festival della Partecipazione: “Solo dal basso può rinascere qualcosa ma i tempi saranno lunghi”. Pisapia? “Un progetto perdente”.

intervista a Fabrizio Barca di Giacomo Russo Spena

E’ ancora iscritto al Pd ma il suo impegno politico è altrove. “E’ la mia contraddizione personale” ammette, ridacchiando, Fabrizio Barca il quale, da mesi, trascorre il suo tempo nel capire, ed organizzare, le ragioni dell’associazionismo diffuso nel Paese. Sì, perché dopo aver fallito nel tentativo di riformare il Pd partendo dai circoli e dalla base del partito – tentativo spazzato via da Renzi e i suoi adepti – Barca intravede, adesso, nella cittadinanza attiva l’unico motore per un cambiamento possibile: “Nella società civile esiste quel giusto mix tra teoria e prassi. E da lì che può rinascere qualcosa”. Non a caso, questo weekend sarà a L’Aquila per il Festival della Partecipazione – promosso e organizzato dal 6 al 9 luglio da ActionAid, Cittadinanzattiva e Slow Food Italia – dove terrà una lectio magistralis su “Disuguaglianze: cittadini organizzati, partiti, Stato”.

Leggi tutto

Renzi e la metafora del cuculo ….

“Il cuculo non fa il nido. Non ne ha bisogno, dato che approfitta di quello degli altri. La femmina dopo aver scelto una covata, preferendo quelle dei passeracei, butta fuori un uovo e vi depone il suo, seguendo un perfetto copione. E’ un esempio di parassitismo assassino, dal momento che anche il cuculo appena nato, per non avere concorrenti, butta fuori dal nido i fratellastri, figli della madre adottiva che lo ha inconsapevolmente ospitato.” ( fonte )

La metafora del cuculo è sovrapponibile a quanto è successo nel PD, dalla fondazione del Lingotto in poi.
Posso testimoniare che in tempi non sospetti, ben prima della resistibile ascesa del Renzi, già si avvertiva nell’aria la reciproca antipatia tra provenienti dalle fila del vecchio Pci e i nuovi margheritini… Per cultura sacrificale i provenienti più vecchi dal Pci invitavano alla pazienza, a fare trascorrere i tempi necessari per la “fusione” di due culture che si erano combattute per anni…
Il “cuculo” Renzi e il suo cerchio magico erano già all’opera per disseminare di uova i “nidi” della Toscana fino al “nido” centrale del PD.

Leggi tutto

E’ uscito il numero 89 del Settimanale di Punto Rosso-Lavoro21

Lo potete scaricare qui:
http://www.puntorosso.it/uploads/1/7/0/3/17033228/lav21-sett-n89-s.pdf

In questo numero:

Il programma e una democrazia partecipata per riunire la sinistra
di Enrico Rossi

Il rischiatutto di Pisapia e la saggezza pragmatica
di Roberto Mapelli

Fare i conti col paese dell’ingiustizia
di Ciccio De Sellero

Buona lettura e diffondete!

***

“Tortura, stravolta la legge”. Intervista a Stefano Anastasia

FONTE MICROMEGA CHE RINGRAZIAMO

“Continueremo ad essere richiamati dall’Onu”. Il presidente onorario di Antigonegiudica inefficace la legge appena votata in Senato: “La formulazione del reato è inadeguata e contraddittoria rispetto agli standard internazionali, alla prescrizione costituzionale, alle domande di giustizia delle vittime e alle attese dell’opinione pubblica”. Decisive le pressioni delle forze di polizia: “Sono una riserva di consenso essenziale per partiti e movimenti che si contendono voti principalmente in nome della sicurezza”.

intervista a Stefano Anastasia di Giacomo Russo Spena

“L’approvazione di una legge contro la tortura non può che essere una buona notizia ma…”. E i ma sembrano tanti e di una certa rilevanza. Almeno a sentire Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio e dell’Umbria, nonché  presidente onorario dell’associazione Antigone. Negli anni sono state organizzate decine di iniziative pubbliche e raccolte migliaia di firme insieme ad altre associazioni ed organismi per quella che è sempre stata considerata una battaglia di civiltà: l’introduzione di una legge sulla tortura nel nostro sistema giudiziario. Adesso restano i mugugni: “Se questa legge dovesse essere approvata definitivamente – afferma Anastasia – continueremmo a essere richiamati dalle Nazioni Unite per l’inadeguatezza della previsione legislativa”.

Dopo 28 anni, siamo vicini ad una legge che introduce il reato di tortura nel nostro codice penale. Che ne pensa?

Non solo sono passati 28 anni dalla ratifica della Convenzione Onu con cui l’Italia si è obbligata a introdurre il reato di tortura nel proprio ordinamento, ma non dobbiamo dimenticare che quest’anno festeggiamo il settantesimo anniversario della Costituzione repubblicana che, all’art. 13, comma 4, stabilisce che “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. Si tratta dell’unico obbligo di punire previsto dalla Costituzione, evidentemente motivato dalla storia e dalla sensibilità dei costituenti, che di violenze fisiche e morali sulle persone sottoposte a privazione della libertà ne sapevano – spesso – per esperienza diretta. Ciò detto, e riconosciuta l’importanza del passaggio parlamentare, dobbiamo però dirci che la formulazione del reato è inadeguata e contraddittoria rispetto agli standard internazionali, alla prescrizione costituzionale, alle domande di giustizia delle vittime e alle attese dell’opinione pubblica.

Quali sono i punti più controversi della legge appena approvata al Senato e che ora passerà a Montecitorio?

Il primo punto di critica non può che essere quella specie di peccato originale da cui è partito impropriamente il dibattito parlamentare: la definizione della tortura come reato comune, eseguibile da chiunque, e non come reato proprio, imputabile esclusivamente al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio. E’ vero che dal punto di vista tecnico il reato comune copre più fatti di quanti non ne copra il reato proprio, e potrebbe essere idoneo a perseguire anche privati che torturassero per qualsivoglia ragione altri cittadini, ma la rottura simbolica rispetto alla Convenzione delle Nazioni unite e al comune senso di giustizia è evidente: la preoccupazione degli organismi internazionali come della opinione pubblica più avvertita è di fugare finanche il pericolo che pubblici ufficiali o incaricati di pubblici servizi abusino della propria funzione per scopi illegittimi e contrari ai fondamenti dello Stato di diritto costituzionale, non certo di perseguire privati cittadini già ampiamente perseguibili a legislazione vigente.

Un testo stravolto a Palazzo Madama, tra l’altro…

Rotto l’argine simbolico, sono arrivati gli scivolamenti successivi. Su tutti, la pluralità delle condotte necessarie a realizzare il reato di tortura e la qualificazione del trauma psichico con la pelosa aggettivazione di “verificabile”, come se in giudizio non dovesse essere accertata ogni cosa. Fino alla surreale previsione che non sia punibile il fatto commesso nell’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti: che significa? Che il nostro ordinamento ammette pratiche di tortura? Se fosse così, andrebbero immediatamente espunte da leggi e prassi perché costituzionalmente illegittime. Se non è così, come penso, che bisogno c’è di prevedere questa causa di non punibilità?

Mi sta dicendo che secondo lei il Senato ha approvato una legge sulla tortura internazionalmente impresentabile, in cui la definizione del reato è in evidente contrasto con quanto imposto dalla Convenzione internazionale contro la tortura?

Sì, penso che sia proprio così. Penso che dopo decenni di richiami delle Nazioni unite sulla mancanza del reato di tortura nel nostro ordinamento, se questa legge dovesse essere approvata definitivamente, continueremmo a essere richiamati, da allora in poi per l’inadeguatezza della previsione legislativa.

Però, come sulla legge sulle unioni civili, è comunque un passo di civiltà. Non trova? Meglio un compromesso di nulla, o no?

A mezza bocca si ammette che il problema esiste, ma con l’altra metà lo si nega. Con tutti i suoi limiti, la legge sulle unioni civili ha consentito a centinaia di coppie omosessuali di essere riconosciute dallo Stato e di acquisire diritti. Quanto riuscirà questa proposta, se diventerà legge, a punire e a prevenire le violenze fisiche o morali sulle persone private della libertà lo vedremo.

Sta passando un concetto per cui una legge di questo tipo legherebbe le mani alle forze dell’ordine, impedendo di garantire sicurezza ai cittadini …

La sicurezza dei cittadini non si garantisce lasciando mano libera a comportamenti violenti nei confronti delle persone fermate, arrestate o detenute. E non è solo questione di principio, è questione eminentemente concreta: se per garantire la sicurezza ammettiamo pratiche violente di polizia, riduciamo proprio la sicurezza dei cittadini, esposti a ogni abuso da parte delle forze dell’ordine. Si tratta di argomenti inaccettabili, che dovrebbero essere contestati e respinti proprio dagli appartenenti alle forze dell’ordine e dalle loro rappresentanze professionali e istituzionali: in questo modo la già discutibile, e troppo facilmente assolutoria, retorica della mela marcia lascia spazio a una sorta di chiamata in correità della stessa istituzione di polizia e di tutti gli appartenenti alle forze dell’ordine, cosa che – se fossi uno di loro – non accetterei mai.

Quindi un’occasione mancata. E secondo lei c’è speranza di migliorare il testo alla Camera?

Temo di no: la legislatura sta scivolando verso la fine e, come tutte le legislature morenti, dà il peggio di sé, lasciando spazio solo a iniziative propagandistiche. Viceversa, per correggere questa legge servirebbe onestà intellettuale e il coraggio necessario a combattere atteggiamenti retrivi che si annidano nelle forze dell’ordine e che fanno leva su discutibili sentimenti popolari. Ma nella campagna elettorale di fatto già in corso queste qualità morali appaiono quantomeno accantonate.

Se pensiamo al codice penale militare di guerra o alla Magna Carta inglese, in entrambi e in pochissime righe il concetto di tortura e maltrattamento è molto chiaro. Perché da noi invece nel dibattito sul reato di tortura si cerca di introdurre compromessi e mediazioni? Chi ha paura di introdurre una legge così di civiltà?

“Chi parla male, pensa male”, diceva Michele Apicella, l’alter ego di Nanni Moretti in Palombella Rossa. Le contorsioni linguistiche del Parlamento sono un effetto diretto della mancanza di volontà di riconoscere la tortura per quello che è, di prevenirla e di punirla quando dovesse essere illegittimamente praticata. Qualche tempo fa Luigi Manconi – primo firmatario della proposta, originariamente ispirata alla Convenzione Onu, che ora coerentemente disconosce e non approva – scrisse della paura che il ceto politico ha delle forze di polizia, temendone l’autonomia e l’insubordinazione. Non so se è proprio così, certo è che le forze di polizia – in quanto responsabili della pubblica sicurezza – costituiscono una riserva di consenso essenziale per partiti e movimenti che si contendono voti principalmente in nome della sicurezza.

Il procuratore generale ha riconosciuto che il caso Cucchi è stato un caso di tortura. Ma ci sono anche le morti di Uva, Aldrovandi e tante altre. Le famiglie, oggi, quanto sono state abbandonate, e prese in giro, dallo Stato?

Ogni caso è un caso a sé e faremmo torto ai non pochi investigatori, pubblici ministeri e giudici che hanno fatto il possibile e l’impossibile per arrivare a un giudizio di responsabilità sui fatti sottoposti alla loro attenzione se dicessimo che lo Stato ha abbandonato o preso in giro tutti. Non è così, ma dobbiamo anche essere consapevoli che indagare e giudicare le responsabilità di appartenenti alle forze di polizia è terribilmente difficile anche per la vicinanza oggettiva che c’è tra gli uni e gli altri, tra investigatori, magistrati e indagati. Dobbiamo esserne consapevoli e dobbiamo ricordarcene. Oggi e quando la legge (qualsiasi legge) sarà approvata resterà il problema di farla applicare, vincendo le resistenze culturali e le vere e proprie connivenze che possono annidarsi anche negli apparati dello Stato.

(19 maggio 2017)

E’ uscito il numero 83 del Settimanale di Punto Rosso-Lavoro21

Lo potete scaricare qui:
http://www.puntorosso.it/uploads/1/7/0/3/17033228/lav21-sett-n83-s.pdf

In questo numero:

Portella delle ginestre
di Ignazio Buttitta

“Il governo trovi le risorse perché Alitalia continui a volare”.
Pressing di Articolo 1 su Gentiloni e Calenda

“Una sinistra dall’identità forte è in grado di contenere le spinte a destra”
Intervista a Massimo D’Alema

Sciopero generale in Brasile
a cura di Teresa Isenburg

Turchia. La vostra Resistenza ispira la nostra lotta contro la dittatura
Di Hişyar Özsoy

Buona lettura e diffondete!

***

E’ uscito il numero 2 della RIVISTA di Punto Rosso – Lavoro 21

http://www.puntorosso.it/uploads/1/7/0/3/17033228/lav21-rivista-numero2-s.pdf

************************************

SUL NUOVO SITO DI PUNTO ROSSO

QUALI DIRITTI PER IL LAVORO IN EUROPA?
Milano, sabato 22 aprile – ore 10-16 – Casa della Cultura

Puoi vedere il convegno e le interviste ai relatori:
http://www.puntorosso.it/convegni.html

E’ uscito il numero 82 del Settimanale di Punto Rosso-Lavoro21

E’ uscito il numero 82 del Settimanale di Punto Rosso-Lavoro21

Lo potete scaricare qui:
http://www.puntorosso.it/uploads/1/7/0/3/17033228/lav21-sett-n82-s.pdf

In questo numero:

Giorni di festa ma non per tutti. L’illusione del commercio senza limiti
di Enrico Rossi

Pensioni in Brasile
a cura di Teresa Isenburg

“Il mondo al tempo dei quanti”. Perché il futuro non è più quello di una volta
Recensione del libro di Mario Agostinelli e Debora Rizzuto di Luigi Mosca,
direttore laboratorio Fisica delle Particelle di Modane (France)

LA “LEGGE-MINNITI”: DIRITTI NEGATI PER I MIGRANTI

fonte AVVENIRE.IT  che ringraziamo

 

13/04/2017  La Camera ieri ha approvato il decreto: “Ingiustizia è fatta”. Da ieri non tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Ecco perché

Ieri la Camera dei Deputati ha sancito che non siamo tutti uguali davanti alla legge. Gli italiani sono una cosa, gli stranieri migranti un’altra. Loro, gli immigrati, evidentemente figli di un dio minore, non hanno diritto a ricorrere in appello, qualora non venga accolta la domanda per il riconoscimento dello status di rifugiati o di protezione umanitaria. Il ministro Minniti ha chiarito che l’articolo 3 della Costituzione vale solo per gli italiani. Ma non solo, secondo l’Asgi (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione), anche l’articolo 111 (il diritto a un giusto processo) e l’articolo 24 (il diritto di difesa). Idem per l’articolo 6 della Convenzione europea sui diritti umani (che prevede il diritto al contraddittorio): infatti, il richiedente asilo perde il diritto a essere sentito in Tribunale. Spetta al giudice valutare se sarà necessario o meno ascoltarne le ragioni. Se questi diritti venissero negati a qualunque cittadino italiano si parlerebbe di “giustizia ingiusta” e di “giustizia negata”. E invece 240 parlamentari, che hanno votato il decreto, non hanno avuto nulla da ridire (176 i contrari, 12 gli astenuti).

Ha prontamente reagito l’organizzazione non governativa Intersos: «Con l’approvazione del decreto Minniti e le nuove norme sull’esame delle richieste d’asilo, che eliminano la possibilità di ricorrere in appello in caso di diniego, si comprimono pesantemente i diritti dei rifugiati presenti nel nostro Paese. Fino ad oggi oltre la metà dei giudizi di diniego espressi da parte delle prefetture, venivano ribaltati in appello. Da oggi questa possibilità viene cancellata».

 

«Si tratta di un grave passo indietro», prosegue Intersos, «purtroppo in scia con una serie di decisioni, dall’accordo con la Libia al decreto sulla sicurezza nelle città, che vanno nella direzione della restrizione dei diritti e dell’esasperazione del tema della sicurezza, a scapito delle politiche dell’accoglienza e dell’integrazione».

Qui e in copertina: il ministro dell'Interno Marco Minniti.

Qui e in copertina: il ministro dell’Interno Marco Minniti.

Il provvedimento viene messo sotto la luce dello “snellimento delle procedure” per renderle più rapide. Ma “snellire” conculcando un diritto(quello a opporre appello contro una decisione che, appunto, otteneva ragione in oltre la metà dei casi) non è un passo avanti, è una riduzione dei diritti, quindi di democrazia.

 

Non c’è solo questo. Il decreto che oggi diventa legge contiene anche una camaleontica trasformazione (ma solo nel nome) dei famigerati Cie: d’ora in poi non saranno più “Centri di identificazione e di espulsione”, ma Cpr, ossia “Centri di permanenza per il rimpatrio”. Gli immigrati, d’ora in poi, non avranno nulla di cui preoccuparsi, perché tali nuove prigioni – assicura il decreto – dovranno essere «di capienza limitata (100-150 posti al massimo)» e dovranno garantire «condizioni di trattenimento che assicurino l’assoluto rispetto della dignità della persona». Difficile immaginare come, vista l’esperienza di questi anni.

Giusto per completare il (fosco) quadro di questa norma, si parla anche dell’identificazione dei migranti: lo straniero che giunge «in modo irregolare» in Italia viene condotto «per le esigenze di soccorso e di prima assistenza» presso appositi «punti di crisi». Ma qui cosa accade? Insieme al soccorso e all’assistenza viene fatto il «rilevamento foto dattiloscopico e segnaletico», ossia la schedatura. Se il migrante si rifiuta di sottoporvisi, secondo la nuova legge si «configura il rischio di fuga» e quindi viene internato nei Centri di permanenza per il rimpatrio. Un altro articolo che fa a pugni col diritto e col principio per cui “la legge è uguale per tutti”.

Questi gli aspetti più rilevanti del “decreto-Minniti”. A quando, invece, una seria politica dell’immigrazione?

L’ammissione della tortura: il governo risarcisce sei detenuti di Bolzaneto

da PRESSENZA.COM

06.04.2017 Riccardo Noury

L’ammissione della tortura: il governo risarcisce sei detenuti di Bolzaneto
(Foto di Ares Ferrari)

La Corte Europea dei Diritti Umani ha accettato la proposta dell’Italia di risarcire con 45.000 euro ciascuno sei delle oltre 60 persone che, dopo aver subito torture nel centro di detenzione genovese di Bolzaneto nel 2001, si erano rivolte alla giustizia europea. Con la scelta del patteggiamento, la Corte ha accettato la “risoluzione amichevole” di quei casi.

A orientare l’accettazione della Corte è stato l’impegno del governo italiano che ha accompagnato la proposta di risarcimento. Il governo italiano ha “riconosciuto i casi di maltrattamenti simili a quelli subiti dagli interessati a Bolzaneto come anche l’assenza di leggi adeguate. E si impegna a adottare tutte le misure necessarie a garantire in futuro il rispetto di quanto stabilito dalla Convenzione europea dei diritti umani, compreso l’obbligo di condurre un’indagine efficace e l’esistenza di sanzioni penali per punire i maltrattamenti e gli atti di tortura”.

Manca un’indicazione temporale. Suona anche strano che il governo italiano prenda un impegno con la Corte europea mentre in Parlamento continua a non venir calendarizzata la discussione sul reato di tortura, il cui testo è fermo al Senato dopo l’approvazione della Camera. E resta il fatto che, a 16 anni di distanza dalle torture del G8 di Genova, solo un torturato su 10 dei ricorrenti alla Corte di Strasburgo ha accettato il risarcimento.

Dunque, quella di oggi è una buona notizia solo a metà.

E’ uscito il numero 80 del Settimanale di Punto Rosso-Lavoro21

E’ uscito il numero 80 del Settimanale di Punto Rosso-Lavoro21

Lo potete scaricare qui:
http://www.puntorosso.it/uploads/1/7/0/3/17033228/lav21-sett-n80-s.pdf

In questo numero:

Il Pd di Renzi ricorda Brecht: “Il popolo non è d’accordo, nominiamo un nuovo popolo”
di Pietro Folena

Dati sull’occupazione: continuano a prenderci per il culo
di Enrico Rossi

L’impatto della crisi sulla disuguaglianza salariale in Italia
di Michele Raitano

Sul Venezuela, guardando le cose dal basso
di Gennaro Carotenuto

Presidenziali Ecuador, ha vinto Lenín Moreno
di Gianni Beretta

Buona lettura e diffondete!

***

E’ uscito il numero 2 della RIVISTA di Punto Rosso – Lavoro 21

http://www.puntorosso.it/uploads/1/7/0/3/17033228/lav21-rivista-numero2-s.pdf

Se avete un voucher acquistato possiamo utilizzarlo per il Ministro Madia e per l’on Ichino ?

Fonte CONTROLACRISI.ORG

Innumerevoli restano i motivi per i quali i padroni continuano a piangere sulla eliminazione del voucher con i giornali e le riviste dei poteri economici dominanti a decantare ancora oggi le lodi del buono. Se al voucher subentrerà il contratto a chiamata è previsto un buon 50% di spese aggiuntive per le aziende
Il Voucher, come il lavoro gratuito, sono le vere novità deli ultimi anni, l’economia della promessa ha favorito il diffondersi di forme alienanti di sfruttamento a costo zero, il voucher poi aveva portato a galla una economia le cui attività sono per lo piu’ sommerse. Il voucher non era lo strumento di regolarizzazione del lavoro nero ma il risultato di un compromesso sociale: abbassare ai minimi termini il costo del lavoro e allo stesso tempo vendere una immagine di legalità fittizia per altro perché a gran parte dei buoni corrispondevano ore aggiuntive al nero.

Il voucher, come l’apprendistato e il lavoro gratuito, erano orai parte integrante del sistema aziendale, lo strumento aveva preso la mano del legislatore stesso per cui il buono da uso selettivo era passato a strumento generalizzato con cui sostituire innumerevoli contratti di lavoro Da una parte è innegabile che il voucher abbia aiutato regolarizzare alcuni rapporti saltuari solitamente in nero, ma lo ha fatto solo in minima parte perché un buono da 10 euro serviva in tanti casi a giustificare una giornata lavorativa con gran parte del compenso di quella giornata pagato in nero.

Non sappiamo cosa intenda fare il Ministro Poletti quando parla di nuove forme di regolamentazione del lavoro accessorio e occasionale da costruire con il sindacato, il voucher potrebbe tornare dalla finestra visto che il lavoro a chiamata (o intermittente), un rapporto di lavoro subordinato, ha dei costi per le aziende decisamente piu’ alti che molte aziende hanno già definito insostenibile e puo’ riguardare solo lavoratori giovani laddove invece i beneficiari del voucher erano di tutte le età.

Il Voucher era quindi assai piu’ conveniente, il lavoro a chiamata costa di piu’ e presenta alcuni paletti normativi difficili da aggirare come il limite delle 400 giornate nell’arco di 3 anni solari (tranne per i settori dello spettacolo, del turismo e dei pubblici esercizi), per non parlare poi delle indennità maturate dai lavoratori a chiamata per la loro disponibilità.

Pietro Ichino sul Corriere della Sera del 25 Marzo scrive in favore del voucher, di quel lavoro marginale da non mettere a rischio.
paventando l’ipotesi che senza il buono non saranno piu’ assunti le figure sociali deboli, i disoccupati di lunga durata, gli emarginati, gli ex detenuti impiegati in catering a rotazione .A parte il fatto che bisognerebbe guardare alle retribuzioni del lavoro in carcere che ha come modello gli Usa dove una giornata di 8 ore viene pagata solo pochi dollari, sarebbe bene guardare agli ultimi ogni giorno a partire dalle decisioni assunte in Parlamento che non discute sul reddito sociale.

In ogni caso le cooperative sociali possono fare ricorso al lavoro intermittente per i lavoratori discontinui oltre a dei part time di poche ore che con il contratto nazionale da loro applicato hanno un costo irrisorio.

Avevamo letto di tutto e di piu’ per giustificare il ricorso al voucher, ci mancava solo passare come nemici dell’inserimento sociale e lavorativo degli ex detenuti, quindi respingiamo al mittente le invettive dell’on Ichino il cui scopo era forse quello di scatenare in noi un senso di colpa (facendo leva sulla disinformazione in merito alle tipologie del lavoro purtroppo esistenti) .

Ma parlare di voucher significa anche mettere sotto accusa la pubblica amministrazione che ha utilizzato tanto e male il voucher determinando situazioni di dumping salariale. Un ente locale o una azienda sanitaria non hanno certo bisogno di ricorrere al lavoro occasionale, esistono gli appalti, i global service, i rapporti di lavoro a tempo indeterminato e determinato, le assunzioni con rapporto fiduciario che permettono ai sindaci di stipendiare personale di fiducia a chiamata diretta e senza alcuna selezione.

il costo di un esecutore tecnico o amministrativo negli enti locali è di circa 14 euro lorde all’ora laddove un buono pagato dieci euro rappresentava un vantaggio economico;il valore del voucher coincideva spesso con il pagamento di una ora di lavoro e in questo modo il costo veniva ridotto ai minimi termini, si abbassava ai minimi termini il costo per le aziende e in un colpo solo si annullava ogni riferimento ai contratti nazionali, agli inquadramenti, alla natura della prestazione erogata per stabilire un prezzo unico per qualunque tipologia lavorativa, il costo appunto del voucher

E in questo modo il voucher ha determinato il deprezzamento del costo del lavoro che poi resta il vero motivo per cui nel pubblico e nel privato si è fatto tanto ricorso al buono ma con una evidente forzatura, quella di sostituire al lavoro subordinato una prestazione ben diversa e a costi decisamente irrisori.

Fino a poche settimane fa, da quando si è scoperto che 7 comuni erano tra i principali utilizzatori del voucher, era sfuggito a tutti che il voucher era diventato uno strumento di dumping salariale per tutto il mondo del lavoro, non solo per le prestazioni di basso profilo nel lavoro privato ma alla occorrenza anche nel pubblico impiego e per ruoli cognitivi.

In tutta questa triste vicenda la Ministra Madia non ha aperto bocca nascondendosi dietro alla prossima stabilizzazione dei precari con 3 anni di anzianità nella Pa, sarebbe bene aprire un confronto per allargare le maglie della stabilizzazione andando a capire quanti e quali rapporti di lavoro ci sono nel pubblico.

E nel frattempo non sarebbe male corrispondere non lo stipendio da ministro alla Madia ma pagarla con il voucher tanto per ricordarle

Sinistra italiana allo sbando totale

di Loris Campetti
Dentro il trolley, niente di nuovo. Il viaggiatore può incollarci gli adesivi più improbabili – la foto di Gramsci o la parola “compagno” o il “noi” al posto dell’”io”– ma dentro c’è sempre e solo un toscano arrogante, corpo estraneo alla tradizione democratica italiana, persino a quella poliedrica democristiana.

Matteo Renzi è ripartito con il suo trolley dal Lingotto, ex fabbrica, miracolo architettonico cantato da Le Corbusier, con la pista di prova sopra il tetto e la scala elicoidale, per più di mezzo secolo cuore della sofferenza e del riscatto operaio. Ma il Lingotto del rottamatore di valori e speranze è un altro, quello nato dopo la sua chiusura, ipermercato di merce, cultura e postmodernità, a cento metri da Eataly del suo sodale Farinetti, “maître à penser”, astro un po’ sfocato nella stagione di Masterchef. È il Lingotto-non-luogo il punto di ripartenza di un politico sconfitto che non ci sta a gettare la spugna mentre eccelle nel gettare in discarica idee, persone e democrazia.
Renzi figlio ha in mente l’uno-due, la vittoria alle primarie a tre del Pd e poi quella alle elezioni che quasi nessuno vuole più anticipare, da Gentiloni a Mattarella, da Berlusconi a molte anime del Pd. Uno-due per riprendere le due posizioni di comando che la sberla presa al referendum l’aveva costretto a lasciare. Ma Renzi non è Cincinnato e a tutto pensa tranne a darsi all’agricoltura. Renzi figlio si illudeva di liberarsi dai “gufi” con la fuoriuscita di Bersani, D’Alema, Speranza, Errani, Epifani e altri leader che si sono chiamati Dp, il palindromo del Pd, salvo poi aggiungere davanti una M proprio per non sembrare un palindromo o, peggio, la vecchia Democrazia proletaria. Invece deve fare i conti con altri oppositori, pezzi di “sinistra” interna guidati dal ministro Orlando, cavalli pazzi come il presidente della Puglia Emiliano, quello che “me ne vado, anzi resto e sbaraglio Renzi”. Non c’è pace in quel che rimane del Pd. Capire quali contenuti divida il Pd dal Mdp richiede impegno: tutti e due giurano fedeltà al governo, si scontrano più sul metodo e sulle regole interne che sulle politiche per il lavoro, fisco, ambiente, immigrazione. Un po’ più liberista chi resta di chi se ne va. Più favorevole a un’apertura a sinistra il Mdp, che pure continuerà a votare con Alfano. E di nuova legge elettorale, per la quale era stato varato il governo Gentiloni, chi ne parla più? Poi c’è l’ex sindaco Pisapia che, allontanato l’abbraccio (mortale) con Renzi si propone come mediatore e chiede come Orlando aperture a sinistra. Poi c’è Sinistra italiana che dopo aver perso un po’ di pezzi in fuga verso Renzi si interroga sul rapporto con i fuoriusciti dal Pd, ma polemizza sul sostegno al governo.
Anche Renzi padre, Tiziano per l’anagrafe e la procura, si è dovuto dimettere. Lui la sberla l’ha ricevuta non dai cittadini come il figlio ma dalla magistratura, imputato in una loffia vicenda di appalti e traffico di influenze che ha portato in galera l’imprenditore Romeo e indagato, oltre a lui stesso, Luca Lotti, ministro-portaborse di Matteo. Secondo i giudici erano in combutta tra di loro e con il gotha dei carabinieri e del Consip, la società che si occupa di tutti gli acquisti della pubblica amministrazione. Così Renzi padre si è dovuto dimettere da segretario del Pd di Rignano, ridente centro toscano e retrovia della famiglia. Per riprendersi dallo choc è tornato dalla sua amata madonna di Medjugorje: perché mai, tra le tante madonne a disposizione, avrà scelto proprio quella i cui miracoli sono contestati persino dal Vaticano, mentre nessuno mette più in dubbio i legami dei frati che la accudiscono con le peggiori correnti ustascia durante la guerra in Bosnia, traffici d’armi inclusi? Tommaso R. non si limita ai viaggi individuali, organizza pellegrinaggi. Ma questa è un’altra storia. O no?
Nei sondaggi l’implosione politica, morale e umana del Pd non premia quel che di confuso si muove a sinistra di Renzi. I ceti sociali abbandonati a sé stessi non sognano più uscite collettive dalla crisi, tentano di aggiustarsi, ognun per sé. Perciò, nonostante i suoi disastri amministrativi, a vendemmiare consensi è Grillo, vissuto come una scopa: que se vayan todos. O peggio, Salvini con il suo odio razzista in difesa del quale si è compattato l’establishment: lo si lasci parlare, ha diritto a berciare contro “negri” e napoletani “che puzzano” fomentando ultrà padani che negli stadi invocano il Vesuvio per spazzar via, con Insigne e Mertens l’intera comunità partenopea. Povero Salvini, contestato dai centri sociali strumentalizzati dal sindaco De Magistris. Renzi dal Lingotto, dopo aver deriso chi canta Bandiera rossa, si è scatenato contro uno dei migliori sindaci italiani. Il nemico non è il razzismo ma la maleducazione napoletana.

Pubblicato il 

16.03.17 ..

Bruno Giorgini: Quaranta anni fa. Il 77

fonte INCHIESTAONLINE

Il quarantennale del ’77 non è proprio scansabile. Almeno se si vive a Bologna. Per un verso l’establishment politico istituzionale, o nomenclatura, teme un revival magari sul’onda delle iniziative politiche del cua, il collettivo autonomo universitario che fa parecchio tribolare i poteri costituiti, per l’altro i collettivi universitari e centri sociali comunque definiti che di sriffa o di sraffa in quel movimento pretendono di innestarsi. Mentre coloro che lo agirono da protagonisti moltiplicano gli eventi della memoria dei giorni che furono, cercando di evitare il “reducismo” e/o la retorica da “ex combattenti”.

Avviene così che la mattina dell’11 marzo, quando orsono quarantanni Francesco Lorusso studente già militante di Lotta Continua morì fucilato da un carabiniere, e da allora ogni anno i suoi compagni si ritrovano, il cua minacciando sfracelli, non siano presenti nè rappresentanti delle istituzioni politiche elettive, diciamo il Comune, e neppure dell’Università, diciamo il Rettore e/o qualche suo delegato. Non gli par vero a sindaco e rettore di evitare così l’imbarazzo di una presenza sotto la lapide che ricorda l’omicidio di Francesco : «I compagni di Francesco Lorusso qui assassinato dalla ferocia armata di regime l’11 marzo 1977 sanno che la sua idea di uguaglianza di libertà di amore sopravviverà ad ogni crimine. Francesco è vivo e lotta insieme a noi.».

Già, una lapide mai sottoscritta e/o riconosciuta nella sua verità dalle istituzioni politiche tanto quanto accademiche. Sono venuti quando proprio non potevano farne a meno, ma sempre quatti quatti rasente i muri, perchè mai assunsero gli eventi del’77 e l’assassinio di Lorusso nella loro inequivocabile realtà. Ovvero per paradosso l’intransigente volontà militante del cua che dice: Lorusso è nostro, nostra memoria che sindaco e rettore non possono condividere, mette al riparo proprio i poteri costituiti, li conforta nella loro assenza e mancanza, e in un certo qual senso offre giustificazione alla loro vigliaccheria e incapacità di fare i conti con quanto accadde quaranta anni fa. O peggio: offre il dito dietro cui nascondere la loro complicità più o meno dispiegata di allora con i fucilatori in divisa.

Per non dire dell’osceno funerale cileno di Francesco, confinato ai margini della città tra elicotteri e schiere di armati che il sindaco Zangheri accettò, e che purtroppo il movimento subì, funerale che sembra ormai scancellato dalla memoria di questa nostra città rincagnata e ottusa, dimentica della generosità. Nel mentre la vulgata racconta  di un movimento del ’77 irremediabilmente violento fin dal suo dna, quasi esplosione di barbarie nella civile e democratica Bologna, che poverina dovette soffrire l’affronto delle sue celebri vetrine frantumate a colpi di pietra. Ma se si rimette sui piedi quel movimento ecco apparire il disegno di una realtà ben diversa. Sul piano generale si può dire che quel movimento era composto di giovani donne  e uomini che aspiravano e volevano essere liberi e uguali. Niente di più e niente di meno. Nonchè volevano autogestire ampi spazi culturali, scientifici, materiali all’interno dell’università e in proiezione anche in città. Con diverso linguaggio: tentavano di definire e praticare un diritto di cittadinanaza “comunista” a Bologna. Ma non in modo utopico e/o totalmente anarchico. Anzi il movimento andò costituendosi attorno a strutture organizzate e di pensiero precise. Innanzitutto A/traverso, il giornale animato essenzialmente da Bifo con in parallelo l’invenzione di Radio Alice, la comunicazione via etere libera e libertaria. Per dirla in termini dotti, A/traverso e Radio Alice costruiscono una vera e propria praxis linguistica rivoluzionaria (Gramsci) su cui non mi soffermo, ma che, se si vuole, è significata dalla diffusione nel movimento di un robusto testo psicofilosofico come l’Antiedipo di Deleuze e Guattari nonchè dalle poesie e dalla poetica di Majakovskij, compreso il suo suicidio – si pensi al ’68 quando buona parte dei militanti agitava, se non leggeva, il libretto rosso di Mao, compendio di approssimate massime di derivazione marxista leninista, e si misurerà la differenza. Qui la Repubblica in un numero del suo settimanale culturale Robinson, in parte dedicato al movimento del ’77, supera se stessa in quanto a mistificazione, non solo riproponendo il feticcio di un’ala creativa del movimento (gli indiani metropolitani cosidetti) contrapposta a un’ala militante pura e dura, ma riuscendo a parlare di A/traverso senza mai citare Bifo!

Quindi incontriamo il collettivo Jacquerie inventato tra gli altri da Diego Benecchi, il riferimento alle rivolte che precedettero la rivoluzione francese è esplicito e voluto. Jacquerie che si qualifica tra l’altro per la pratica delle autoriduzioni nei ristoranti di lusso, non nelle mense universitarie e/o aziendali. Perchè il diritto non attiene semplicemente la sopravvivenza biologica mangiando un cibo povero per i poveri a poco prezzo, ma invece quello di godersi un pasto ricco e buono, a un prezzo possibile per tasche normali, un prezzo autodefinito e che si ottiene con l’autorganizzazione che diventa autoriduzione. Un terzo nucleo costituente il movimento del ‘77 è il collettivo dei lavoratori precari dell’università, dove si individua il precariato intellettuale non come una patologia transeunte del sistema di studi, insegnamento, formazione e ricerca, ma come un asse portante di lungo periodo della produzione e diffusione del sapere universitario. E dove si pone il problema fondamentale della riappropriazione e uso sociale da parte dei cittadini tutti dell’intelligenza scientifica prodotta nelle aule e nei laboratori, problema ancora aperto; anzi oggi più urgente che mai se si vuole sperare di contrastare in qualche modo efficace il cambiamento climatico globale in corso.

Poi c’erano le assemblee di facoltà, lettere, fisica, giurisprudenza eccetera che discutevano,deliberavano, agivano di giorno e di notte, i cortei notturni essendo un’altra delle caratteristiche di quel fantastico febbraio del 1977 nella zona universitaria “liberata”.  Infine gli spezzoni dei vari gruppi extraparlamentari e della cosidetta all’epoca sinistra rivoluzionaria. Lotta Continua si era sciolta nel congresso del settembre 1976, Potere Operaio si stava trasformando nell’Autonomia Operaia, il Manifesto vivacchiava stentatamente, epperò legami politici rimanevano e alcune strutture continuavano più o meno per inerzia a esistere, in particolare i servizi d’ordine. Tutto questo e altro ancora non precisamente definibile, per esempio la partecipazione di giovani proletari provenienti dalle periferie, confluiva nel movimento. Un movimento a ampio spettro che ebbe ben presto anche i suoi cantori, uno su tutti Claudio Lolli con quella splendida ballata che è “Ho visto anche degli zingari felici” scritta nel 1976, anticipando se non annunciando il ’77. Un movimento denso di gioia, empatia dei corpi, intelligenze in sinergia, dove si respiravano libertà, eguaglianza, fantasia. Un movimento tutt’altro che violento, certo occupando l’università dove al massimo echeggiavano i cori di scemo scemo all’indirizzo dei giovin burocrati della SUC, la sezione universitaria del PCI, scesi in campo a difendere il compromesso storico e la politica dei sacrifici.

Finchè non arrivò la repressione brutale dello stato sub specie di una colonna di carabinieri che aprì il fuoco contro un piccolo gruppo di manifestanti praticamente a freddo, uccidendo Francesco. Il primo morto in manifestazioni di piazza che si ebbe a Bologna, ovvero un evento eccezionale. Un atto congruente con la strategia della tensione ben nota messa in campo dalle forze più reazionarie del nostro paese. Col concorso di Comunione e Liberazione che stava tenendo una sua riunione all’università da cui furono cacciati in malo modo alcuni compagni del movimento, e tutto ebbe inizio: azione e reazione con l’arrivo delle forze di polizia, che fin qui non avevano trovato pretesti per attaccare il movimento. Forze di polizia che subito apparvero indipendenti da qualunque possibile mediazione – Gori allora capo della Digos, in seguito morto per un incidente stradale da alcuni giudicato non limpido, lo disse in modo esplicito a alcuni manifestanti: tira una brutta aria, fate attenzione, facendo capire che ormai loro, i poliziotti del dialogo, erano esautorati dalla gestione della piazza. Stando al Resto del Carlino di qualche anno fa il capo di Gladio Cossiga avrebbe dichiarato: “Bisogna infiltrare gli studenti con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine, mettano a ferro e fuoco la città (…). Dopodiche forti del consenso popolare (…) le forze dell’ordine (sic! Ndr) non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano”. Sembra la descrizione di ciò che successe al G8 di Genova nel 2001,  di cui le repressioni del movimento del ’77 furono in un certo qual senso i prolegomeni quando Kossiga era soltanto (?!) ministro degli interni.

Comunque sia la morte di Lorusso fu seguita da un corteo con migliaia di persone che aveva di mira la DC individuata come mandante politico morale dell’omicidio, corteo che si scontrò più volte con la polizia, fracassando soprattutto le famose vetrine dello scandalo, vuoi mai che avessero a soffrirne il sacro commercio e mercato. Il giorno dopo poi gli studenti difesero la zona universitaria dall’assalto delle forze di polizia, mentre la notte del 13 marzo verso le quattro intervenivano i blindati dei carabinieri a occupare il quartiere universitario ormai vuoto. Il movimento è sconfitto, la fase dei liberi e uguali chiusa, l’ordine regna di nuovo a Berlino, pardon a Bologna. Un ordine plumbeo ma si sa , non si può avere tutto dalla vita. Soprattutto i carri armati scancellano i colori e calpestano la gioia di vivere e di conoscere.
Fu eccessiva la violenza dei cortei del movimento? Intanto nessuno praticò o propose il precetto biblico che prescrive occhio per occhio e dente per dente. Quindi furono distrutte cose e colpiti dei simboli, ma non ci furono attacchi nè tantomeno attentati contro le persone, neppure gli “sbirri”. Poi ciascuno può dare il suo giudizio, ma per favore senza scandalo e alti lai contro “i violenti”, e senza dimenticarsi en passant dell’omicidio brutale di Francesco, omicidio cui la città nel suo insieme e le sue istituzioni non risposero, anzi il PCI inventò di sana pianta la teoria del complotto ordito da Radio Alice succursale della CIA, un delirio in senso proprio. Certamente qualcuno fu indotto da ciò che accadde in quei giorni a pensare fosse giunto il momento di costruire in Italia un partito armato di massa, e qualcun altro invece credette fosse l’ora di un partito armato d’avanguardia, ma  a Bologna molto pochi, e non per merito dei partiti o del Comune.

In fine perchè quaranta anni dopo alcune centinaia di persone ormai coi capelli bianchi ancora si incontrano in via Mascarella laddove Francesco fu ucciso. Non sono reduci e nemmeno ex combattenti. Soltanto donne  e uomini che così affermano la loro esistenza e appartenenza a quel movimento del ’77, certificando con la loro presenza e amicizia l’ingiustizia della morte di Lorusso, che pesa sull’intera città ieri come oggi. Molte cose sono cambiate anche drasticamente ma quella morte, quell’omicidio impunito sta lì, inamovibile, piantato nel cuore stesso di questa città che da allora non fu più la stessa perchè vive con un cadavere al suo interno.

Hanno pagato caro, ma non hanno ancora pagato tutto

di Sandro Moiso

4-leader-sconfitti-no Si erano giocati tutto, convinti di vincere.
Hanno stravolto i vertici delle TV di Stato per impedire qualsiasi infiltrazione di dubbi sulla bontà della loro proposta politica ed economica. Hanno contribuito a cambiare anche i direttori di testate giornalistiche della Destra per accaparrarsene i favori. Hanno mentito, falsificato i dati economici e della Storia. Hanno portato in palma di mano camorristi e mafiosi e i progetti delle grandi opere inutili che più stavano loro a cuore.

Hanno insultato, denunciato, perseguitato, minacciato, coperto di infamia chiunque manifestasse il desiderio o anche solo l’idea di opporsi al loro progetto concentrazionario. Hanno promesso contratti pubblici che non contengono null’altro se non ulteriori fregature per i lavoratori. Hanno promesso denaro che non avrebbero mai avuto il coraggio di sequestrare davvero e in quantità adeguata per bonificare territori devastati da un’industrializzazione priva di regole.

Hanno preso per il culo milioni di giovani, lavoratori, disoccupati, inoccupati, pensionati sull’orlo del baratro con promesse inutili, ridicole e d offensive. Hanno riportato in auge i fasti mussoliniani e cercato di ridare fiato alle leggi promulgate tra il 1923 e il 1926.1 Hanno chiamato immaturi gli elettori che non la pensavano come loro. Hanno dichiarato che in alcuni casi è preferibile l’autoritarismo ad una democrazia che non giunga a realizzare i progetti della finanza internazionale e dei suoi lacchè.

>>> segue alla fonte CARMILLAONLINE

Speciale verso il referendum – Il nuovo senato, ovvero il bundesrat “de’ noantri”

fonte ManifestoBologna

di Piergiovanni Alleva

Nel corso di questa esasperata campagna elettorale, il sostenitore del “sì” non hanno mai davvero chiarito in cosa consista la riforma costituzionale, tanto rumorosamente propagandata, né quali siano i suoi supposti mirabolanti benefici, che dovrebbero “mettere le ali” alla nostra depressa situazione socio-economica.

Non si può davvero trattare di qualche risparmio finanziario sulle spese di funzionamento del Senato e di tempo sulla durata degli iter legislativi, perché altrimenti sarebbe stato semplicemente logico abolire il Senato invece che mantenerlo in vita, riducendolo ad una sorta di nano deforme ma comunque costoso.

Occorre, allora “esaminare dal di dentro” la riforma per comprenderne essenza e meccanismi e constatare come essa si risolva nel consueto inganno, già sperimentato con il Job’s Act tra una apparenza neutra o positiva e un contenuto reale pessimo e pericoloso. Il vero è, detto in breve, che la riforma costituzionale del governo Renzi consiste, essenzialmente in una cattiva imitazione del sistema bicamerale tedesco, con la trasformazione del nostro Senato in qualcosa all’apparenza molto simile alla seconda camera del parlamento tedesco, detta “Bundesrat”.

Il Bundesrat – come si sa – rappresenta i “Länder” (Regioni – Stato) e affianca la Camera dei deputati, detta Bundestag che rappresenta invece la nazione.

Il “nuovo Senato” ha infatti molte somiglianze formali con il Bundesrat, a cominciare dal fatto che i suoi membri non sono eletti direttamente dal popolo bensì provengono dai governi o assemblee regionali, ma la sostanza dell’operazione risulta, alla fine, ben diversa da una semplice importazione di un istituto da un ordinamento straniero ed è invece perfettamente coerente con un fine, tipicamente renziano, di accentramento dei poteri.

Sottolinieamo, per spiegare i termini della questione, che nella Repubblica Federale tedesca i Länder godono di ampia autonomia normativa su molte materie, anche in concorrenza con lo Stato Federale, e che il Bundesrat svolge in favore dei Länder una funzione di garanzia mediante la sua partecipazione alla formazione delle leggi nazionali, proprio allo scopo che queste non possano ledere gli interessi e i diritti degli stessi Länder. Non per nulla i membri (69 in tutto) del Bundesrat sono anzitutto membri dei Giverni dei Länder che li delegano.

Il Bundesrat svolge la sua funzione di garanzia nell’ambito della legislazione nazionale in due modi: esiste un nutrito elenco di leggi che tipicamente toccano gli interessi dei Länder, le quali devono essere approvate anche dal Bundesrat per poter essere emanate. È importante ricordare che hanno rappresentato, anno per anno, più della metà di tutte le leggi nazionali.

Ma anche per le altre leggi, diverse da quelle esplicitamente bicamerali il Bundesrat ha dei poteri reali perché, se ritiene che una legge possa avere una incidenza negativa sull’interesse dei Länder, può interporre un veto sospensivo all’emanazione della legge, ed è un veto che la Camera dei Deputati o Bundesrag può superare ma solo con maggioranza qualificata.

Qual è stata invece, la strategia del Governo Renzi nella operazione di importazione “finta” del Bundesrat?? Qui è fondamentale cogliere il nesso tra l’art. 117 del progetto di riforma che ridefinisce i rapporti Stato Regioni e l’art. 70 che definisce i residui poteri legislativi del nuovo Senato.

Il fatto è che da un lato l’art. 117 ha posto in essere una violenta operazione di accentramento, che riduce al minimo l’autonomia regionale, perché diventano di esclusiva competenza statale i 3/4 delle materie che oggi sono di competenza concorrente. Dall’altro lato, poi, a livello della legislazione nazionale il nuovo Senato non può svolgere le funzioni di garanzia svolte in Germania dal Bundesrat perché non ha sufficienti poteri.

Sono assai poche le materie in cui ha il potere di legiferare alla pari della Camera e per ironia riguardano assai più l’interesse nazionale (riforme costituzionali, referendum rapporti con l’Europa ) che quelli dei territori. Per le altre leggi “monocamerali” cioè decise solo dalla camera dei deputati, il Senato non può emettere alcun veto sospensivo ma solo proporre delle modifiche sulla quale la Camera può pronunciarsi negativamente a maggioranza semplice dei votanti.

In definitiva, il Senato ad onta della sua proclamata qualità di rappresentanza delle istanze territoriali, può solo emettere flebili lamenti in difesa di queste (ovvero dei “mugugni”) ma non può partecipare davvero alla produzione legislativa a tutela dei loro interessi.

Risultando alla fine simile ad un soldatino male in arnese messo a guardia, con un fuciletto caricato a salve, di un bidone vuoto o, per meglio dire svuotato. Il Bundesrat è ben diverso e molto meglio armato a tutela di un sistema fiorente di autonomia e, dunque, per questo e non per quello è giusto impiegare risorse.

È naturale infine chiedersi però perché il Governo insista tanto nel tentativo di imitazione con trasformazione del Senato in un falso Bundesrat visto che da ciò non può logicamente derivare alcun beneficio né al Pil né all’occupazione?

C’è una sola risposta: non importa, per così dire, al Governo Renzi ciò che si disegna, ma ciò che si cancella, e ciò che si cancella è qui un pezzo di sovranità popolare, cioè l’elettività del Senato, umiliando nel contempo anche l’autonomia regionale, altra sede di esercizio democratico.

La progressione del Governo è impressionante, via le Province elettive, via il Senato elettivo, riduzione all’irrilevanza delle regioni e loro consigli perché resti solo la camera dei deputati tuttavia drogata e truccata da un premio di maggioranza che a ben guardare da luogo ad una sorta di postulato antidemocratico.

Infatti, stante la situazione di reale tripartitismo o quadripartitismo nella società nessun partito riceverà più del 30% dei voti ma quello che in relativo né avrà di più, otterrà i 55% dei seggi ottenendo così di poter comandare al 70% dei cittadini elettori che si sono divisi tra gli atri partiti. Come chiamare allora, se non “anti-democrazia” un sistema nel quale la minoranza comanda istituzionalmente contro la maggioranza?

L’AVVENTURISMO DI UN LEADER E DEL SUO GRUPPO DIRIGENTE ….

Referendum, nuovo affondo del Financial Times: “Con il No a rischio fino a 8 banche italiane”
Secondo il Financial Times gli otto istituti a rischio sono Monte dei Paschi di Siena, la Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Carige, Banca Etruria, CariChieti, Banca delle Marche e CariFerrara.
Una campagna referendaria per il SI basata sulla intimidazione e sulle bufale: il crollo del sistema bancario italiano sarebbe l’immediata conseguenza della vittoria del NO. Le otto banche citate da FT erano decotte e disastrate ben prima del referendum.

Non c’è pudore nei propagandisti PD per il SI ad illustrare scenari catastrofici nel caso vincesse il NO: SPREAD a 500 e più, invasioni di locuste ed epidemie di peste bubbonica sarebbero il gramo futuro che attenderebbe gli italiani dopo il 4 dicembre.

Una campagna che ha attecchito: dal professore universitario pensionato che rinuncia ai propri strumenti raffinati d’interpretazione dei testi classici e si beve le bufale catastrofiche dei fans di Renzi, al vecchio militante che ha ritrovato un momento di soddisfazione del suo desiderio di essere considerato, finalmente, nel gruppo dei vincenti, dopo una vita di magoni, rinunce e frustrazioni…

Minacce e ricatti questa è la cifra della comunicazione PD in materia di referendum costituzionale: una subcultura che viene da lontano è quella della denigrazione dell’avversario, il tentativo continuo di delegittimare chi milita per il NO . Accozzaglia è il termine usato con delicatezza e diplomazia da Renzi verso coloro che avversano il suo progetto di riforma. E’ vero, Renzi e gli appartenenti al suo cerchio magico hanno una paura out of control di perdere,di essere disarcionati dopo avere costruito loro il percorso e la potenziale e pericolosa trappola del referendum confermativo.

Se prendessimo per buoni gli scenari tragici prospettati dai propagandisti del SI qualora vincesse il NO,  dovremmo dire che il loro leader, Renzi, è il principale responsabile della situazione di pericolo per la stabilità del nostro paese prodotta dalla consultazione referendaria.
Dovremmo dire che Renzi è un avventurista che coi suoi strappi e forzature sta mettendo a rischio il futuro del paese.
Era proprio necessario procedere alla cosidetta riforma costituzionale, dividendo gli italiani, bloccando il paese per tanti mesi in una campagna referendaria sempre più lontana dai problemi veri che si dovrebbero affrontare con urgenza”?. Un mare di chiacchere litigiose ha sostituito un esame di realtà sulle priorità ben note che sono relegate da tempo in secondo piano: ripresa economica, investimenti per un allargamento della base produttiva, occupazione giovanile, gestione del territorio e ambiente .

La ripresa di un discorso vero di riforma costituzionale passa attraverso il voto al NO: domenica 4 dicembre con il NO si può rottamare una proposta sbagliata di modifiche della costituzione e creare le condizioni per un confronto serio e unitario nel merito di ciò che di questa Carta occorre custodire e di quanto può essere modificato con parsimonia e saggezza.

Parsimonia e saggezza, virtù che non paiono illuminare nè Renzi nè il suo clan.

La Costituzione non si baratta.

Diffondiamo questo contributo di  Arrigo Quattrini che ringraziamo (o.c)

Le costituzioni non si barattano. Perché il frutto di un baratto non può essere di per sé una carta costituzionale, contraddizione in termini, ma prima in substantia. Nella Costituente del 1946/47 vi furono scontri e discussioni anche aspre, mediazioni compromessi e concessioni reciproche, ma sempre sul piano più alto delle idee e degli ideali, sorretti da lungimiranze oggi impensabili, che mai perdevano di vista il bene comune. Le discussioni erano tese a convincere o a farsi persuadere, ma non ebbero mai ad oggetto un qualsivoglia baratto.

Le costituzioni non si barattano. Neppure – o tanto meno – la nostra, anche se ha quel grande difetto di essere stata attuata solo in parte, spesso in ritardo, talora in malo modo. E proprio per questo resta di una straordinaria attualità e vitalità; come scriveva il mio concittadino Roberto Roversi aderendo al no di dieci anni fa: “dopo sessant’anni, nei quali è stata il nostro baluardo democratico, questa splendida Costituzione può – solo con attentissima cautela e sotto gli occhi di tutti – essere integrata o aggiornata di poco, per questi tempi avidi e maldestri”. Roversi è scomparso, ma scriverebbe identiche parole oggi.

Le costituzioni non si barattano. La possibile vittoria del NO al referendum non potrà essere un trauma per nessuno. Abbiamo già fatto l’’abitudine a traumi diversi da diverse direzioni. Dalla ri-elezione a-costituzionale del presidente Napolitano all’’elezione-nomina del Parlamento in carica con funzione costituente, senza che i cittadini ne fossero prima avvertiti apertis verbis. Dalla sentenza 1/2014 della Corte Costituzionale che ha delegittimato la regola elettorale detta allora “porcata” (poi porcellum) da chi la fece, fino all’’esclamativo “Enrico stai sereno” del “Giovanotto che parla a macchinetta” (Gustavo Zagrebelsky ndr), che da segretario Pd si prese anche la presidenza del consiglio. E poi l’’elezione del Presidente della Repubblica: da giudice della Corte Costituzionale lo stimato prof. Mattarella aveva concorso a dichiarare praticamente e largamente illegittimo questo Parlamento, che – di fatto in proroga – 15 mesi dopo Lo ha eletto alla massima carica dello Stato… E’ il Parlamento che abbiamo in questi tempi in cui siamo ormai disponibili o forse costretti a metabolizzare di tutto in vari modi, e sembra che a tutti prema soprattutto avere una memoria corta e far di tutto per accorciarla e meglio ancora rimuoverla.

Se fosse uno statista Renzi non vorrebbe stravolgere la Carta : certo non è una mosca bianca, viene da una storia che ha trattato la Costituzione nelle occasioni resesi necessarie e nelle celebrazioni rituali ricorrenti, ma poco di più hanno fatto, anche “le sinistre” d’i ogni tipo e tempo repubblicano. Mai l’ ’hanno assunta e proposta come valore fondamentale, educativo e formativo, almeno del loro popolo e del loro elettorato in certi momenti molto ampio.

Una costituzione non si baratta, men che meno con una legge elettorale. Essa è sempre di rilevanza costituzionale, non può attagliarsi su misura alla maggioranza in carica o in pectore, dev’essere il più condivisa possibile e soprattutto erga omnes proprio come recita e vorrebbe l’’art. 3 della Carta, articolo ancora in attesa di piena e sostanziale attuazione. Una legge elettorale almeno dignitosa deve essere sempre e in ogni caso per un tempo lungo certo più di una legislatura.

Quanto al voto referendario, privato ormai d’ogni valenza per la sopravvivenza del Governo quindi del presente Parlamento in proroga, bisogna votare No per troppe ragioni e sapere che per esempio l’’abolizione del Senato si sarebbe potuta ottenere – come si potrà dopo il No se ci sarà volontà politica – in 4/5 mesi. Si legga quell’art.70, che passerebbe da una frase breve e chiara a due cartelle di periodi infarciti di ben 15 (!) rimandi ad articoli commi periodi, come capita nella peggiore tradizione nostrana, da cui però si son sempre salvate le precedenti revisioni o modifiche costituzionali.

Alla libertà di coscienza che pervade lo spirito complessivo della nostra Carta, oggi in tanti sembrano preferire la “prudente” variabile della disciplina-di-gruppo-partito/vorrei-ma-non-posso/ci-sto-ancora-pensando/so-come-voterò-ma-non-lo-dirò-mai/è-schifosa-ma-finirò-col-votarla/scelgo-un-pacato-sì. Di quel grande costituente e parlamentare che fu Piero Calamandrei non si ricordano idee e ideali, ma soltanto la giacchetta sdrucita che tutti vorrebbero tirare dalla loro parte.

Vien da pensare un cattivissimo andreottiano pensiero:  l’Esecutivo s’è tanto impegnato nel tentar di cambiare la Carta, forse proprio in realtà per non fare le conclamate riforme ?

(a.q.) 27.11.2016

 

Tiziano Rinaldini: Costituzione, democrazia, sindacato

fonte : inchiestaonline.it

Diffondiamo dal numero da poco uscito a stampa di “Alternative per il socialismo”

Nello scontro aperto sul voto referendario è forte il rischio di ricondurlo e ridurlo ad una dimensione di interesse politico contingente con  un consenso ricercato a prescindere dal significato più profondo dell’operazione istituzionale  che si cerca di attuare e del suo rapporto con le vicende sociali in corso. Si può perdere così l’occasione di valutare questo passaggio dal punto di vista e nel quadro della  più generale questione della crisi della democrazia  e della politica e coglierne così l’importanza e la pericolosità ben oltre gli stessi singoli punti di modifica costituzionale.

È questo che consente di motivare nel profondo la ragione per cui è importante che prevalga il NO.

L’effetto di una sconfitta, come vedremo, sarebbe accanto all’indebolimento strutturale del valore della carta costituzionale, l’indebolimento della  possibilità e capacità di contrasto ad ulteriori inquietanti sviluppi della crisi democratica in corso e l’aumento della difficoltà da superare per  tentare risalite. Per questo questa mia nota non si sofferma tanto sulle particolari e specifiche modifiche di articoli della Costituzione, su cui sono note e diffuse fondate obiezioni a partire dalla supposta semplificazione e riduzione dei costi ( che comunque non sono di per sé valori costituzionali).

Mi limito soltanto a citare il fatto che si chiede un SI o un NO  su titoli che rinviano a pagine e pagine di riscrittura di articoli della Costituzione che nessuno dei votanti avrà modo di leggere e capire davvero, e la cui interpretazione comunque richiederebbe competenze specialistiche.

È tra l’altro sin da ora evidente che si apriranno infiniti contenziosi. Ciò su cui intendo qui concentrarmi è la ragione centrale più che sufficiente per motivare la necessità di respingere la proposta del governo. A questo scopo elenco in sequenza alcuni punti (di innegabile riscontro di realtà) che introducono la ragione centrale.

1. Parto dalla constatazione che siamo chiamati ad approvare 46 cambiamenti di articoli della Costituzione con un risultato di modifica costituzionale la cui rilevanza è da tutti riconosciuta pur nei  diversi gradi di  valutazione. In particolare appare indiscutibile la curvatura nel senso del rafforzamento dei poteri esecutivi e deliberativi del governo rispetto alla dimensione partecipativa.

Queste modifiche sono state predisposte da un governo composto e sostenuto da una maggioranza con dentro vari trasformismi ed eletto da un parlamento che a sua volta è stato eletto con una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale. Si porrebbe quindi prioritariamente l’esigenza di una legge elettorale rispettosa dell’attuale costituzione su cui fare nuove elezioni che rendano possibile una legittimazione costituzionale  democratica del parlamento e del  governo.

Il percorso che ha portato alla proposta di revisione costituzionale (per molti una vera e propria controriforma) non ha mai coinvolto e reso protagonista l’insieme del mondo politico, sociale e culturale, al di fuori di uno schema di maggioranza e minoranza parlamentare.

La proposta di cambiamento non solo si configura come partorita nell’ambito delle attuali rappresentanze partitiche istituzionali (di cui conosciamo la crisi di rappresentanza reale) ma anche come di una parte contro l’altra.

2. Il paese viene chiamato ad un referendum imposto nella profonda divisione e spaccatura nei (e dentro) i partiti, nelle associazioni e nel mondo culturale. La proposta di cambiamento vede il paese profondamente diviso a tutti i livelli.

Infine tutto ciò inerisce non una legge ordinaria o un decreto governativo, ma la legge per eccellenza, cioè il testo a cui dovrebbero sottostare tutte le leggi, i decreti e gli atti nella vita della repubblica.

La Costituzione quindi non può essere frutto della contingenza elettorale  e del governo e del parlamento derivante. La sua formulazione richiede la ricerca di un generale consenso e  adesione   come condizione di base.

L’attuale  nostra Costituzione (fondante la democrazia nel nostro paese)è con particolare chiarezza figlia di questa consapevolezza. Il percorso originario portò alla promozione ed elezione di una Assemblea costituente su basi proporzionali distinta da parlamento e maggioranza governativa, ampiamente rappresentativa sul piano sociale e culturale, che per un anno con il supporto del lavoro di svariate commissioni costruì il testo della Costituzione poi approvata.

3.Mi pare difficile, o meglio impossibile, negare che stiamo assistendo ad un tentativo di cambiamento della Costituzione con un percorso opposto rispetto al percorso che fu attuato per deliberare le basi della nostra Repubblica.Da questo punto di vista, anche al di là dei singoli punti che si vogliono cambiare, si può parlare di controriforma. Viene infatti legittimata un’idea della Costituzione come strumento modificabile in relazione all’opinione e all’interesse contingente del parlamento e della sua maggioranza di volta in volta.

4.Il quadro si aggrava ulteriormente in relazione alla proposta di una legge elettorale che più che alla necessità di premiare la rappresentanza cerca di superare le obiezioni sul premio di maggioranza (che hanno portato la corte  costituzionale a considerare incostituzionale l’attuale legge) con una sostanziale riconferma del peso del premio di maggioranza..

Comunque proprio in relazione al ragionamento sin qui svolto, non vedo come il giudizio possa cambiare in cambio di mediazioni sulla legge elettorale, il cui unico scopo sarebbe la riconferma del cambiamento costituzionale con il metodo prima denunciato. La ragione centrale del NO è nella ferita democratica qui delineata che si sta determinando sul valore e sul senso della Costituzione. Considero significativo che questa ragione venga ignorata o oscurata dai sostenitori del SI. Nel contempo a me pare anche troppo spesso trascurata da parte di chi si oppone, lasciando che prevalga la polemica sui singoli punti, apparentemente più adatti all’efficacia del contrasto oppositivo. Non basta sostegno o polemica sulla necessità di modifiche importanti se questo non viene di partenza subordinato ad un percorso coerente con il percorso delle origini.

Non è certo un caso che tra le più significative e ferme forze che si oppongono alla proposta di Renzi vi sia l’ANPI.

Se poi l’obiezione che viene sollevata a questo argomento è che ci si aggrappa al metodo e alla forma per sfuggire al merito e alla sostanza. viene ancor più confermata la validità di quanto qui sostenuto. Con un vecchio trucco (sotto il quale nella storia si sono spesso nascoste le peggiori intenzioni) il metodo viene contrapposto e separato dal merito mentre in questo caso considerata la particolare qualità democratica della nostra Costituzione, il metodo e la forma sono il principale merito e sostanza su cui costruire il giudizio.

5. A me pare così evidente che fatico a capire come si siano adeguati a questa deriva illustri e rispettabili democratici (tra i quali non colloco Napolitano che considero ispiratore di quanto sta accadendo) sostenitori del si .

Come di sovente accade nel nostro Paese, confermando una della ragioni della crisi della politica, i cittadini (considerati più plebe che cittadini) vengono chiamati a decidere senza dichiarare chiaramente e apertamente il significato e la scelta che si intende compiere e ciò su cui sono chiamati a consentire. Si nasconde la richiesta ad una svolta costituzionale non dichiarandola, ma occultandola come se si trattasse di manutenzione e valorizzazione della costituzione originaria, mentre, come abbiamo visto, a partire dalla forma e dal metodo ben altro è il segno dell’operazione in corso. Sotto definizioni in sé neutrali e di buon senso come semplificazione, velocizzazione e praticabilità decisionali, costi, operatività delle scelte dell’esecutivo, non si dichiara la evidente scelta di curvatura autoritaria della nostra democrazia ben diversa dallo spirito costituzionale originario.

Non nego che vi siano aspetti della Costituzione che andrebbero aggiornati e modificati, ma con un ben altro percorso che risponda semmai ad una domanda di attuazione della attuale Costituzione e di difesa e rafforzamento dei vincoli di equilibrio e di relazione tra gli aspetti deliberativi e gli aspetti partecipativi della nostra vita democratica. È esattamente l’opposto di ciò su cui siamo chiamati ad acconsentire, ritenendo che ciò possa essere permesso  dalla fase politica, sociale e culturale che stiamo attraversando. La tendenza a far prevalere una dimensione autoritaria della democrazia è infatti molto favorita e indotta da una ormai lunga fase che attraversa certamente non solo il nostro paese ma l’insieme delle democrazie europee e quel il modello sociale costruito,  dal secondo dopoguerra ad oggi nei paesi europei, pur nelle diverse traduzioni e percorsi. È la tendenza di reazione prevalente al crescente distacco tra la sfera partecipativa e quella deliberativa, e alla crescente crisi di rappresentanza della politica (non solo dei partiti) con conseguente crisi dei  particolari equilibri costituzionali europei del secondo dopoguerra.

Questo processo è stato oggetto in questi anni di opere di analisi, descrizione e denuncia in relazione agli effetti della finanziarizzazione e globalizzazione dell’economia, e del  crollo dell’alternativa sovietica.

È il caso della recente pubblicazione in Italia con ritardo di 3 anni dell’ultimo libro dello scomparso studioso di scienze politiche Peter Mair dal significativo titolo “Governare il vuoto” (ed. Rubbettino), presentato con un utile saggio critico di Alessandro Somma pubblicato sul numero 193  della rivista “Inchiesta” e diffuso in rete.

5. Renzi e il PD adeguano la nostra Costituzione a questa tendenza come auspicato e richiesto con precisione tre anni fa nel rapporto della banca d’affari J.P.Morgan, autorevole e potente interprete delle ragioni del mondo finanziarizzato, a guida statunitense.

“I sistemi  politici dei paesi del Sud e in particolare le loro Costituzioni adottate in seguito alla caduta del fascismo presentano una seria di caratteristiche inadatte alla integrazione dell’area europea……, hanno di solito le seguenti caratteristiche:leadership  debole, stati centrali deboli rispetto alle regioni, la tutela costituzionale dei lavoratori….. il diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi……”.

La vicenda referendaria diviene così un passaggio di rilevante sviluppo interno alla crisi della democrazia e della politica, e anche una occasione per recuperare più consapevolezza su come si configura su questo il futuro, se ci sarà, di una reazione democratica e di sinistra.

Il problema della crisi della democrazia e della politica resterà comunque aperto al di là dell’esito del  referendum che pure  influirà sulle condizioni successive su cui dovremo continuare a misurarci

Nell’ultima parte di questa mia nota cercherò di approfondire come in relazione alla crisi della democrazia e della politica la questione del referendum costituzionale può essere vissuta nel mondo del lavoro e nel sindacato (le difficoltà esistenti, l’interesse e l’attenzione da parte dei lavoratori, le diverse scelte delle organizzazioni).

Parto dalla considerazione che in questi ultimi decenni, in sostanziale continuità tra i vari governi (con sempre maggiore evidenza e celerità) leggi ordinarie e decreti (preceduti o seguiti da processi contrattuali imposti con ragioni unilaterali) hanno destrutturato e anche cancellato diritti dei lavoratori e poteri di contrattazione conquistati in un lungo percorso dal secondo dopoguerra (quando nasce questa Costituzione) agli anni ’70 del secolo scorso. Sono state rimesse ampiamente in discussione le stesse conquiste sul piano dello stato sociale.

Abbiamo quindi assistito ad un processo in cui si è imposto sempre più chiaramente il dominio dell’economia con la riduzione del lavoro a un fattore da adeguare per realizzarne il successo dell’economia capitalistica.

In questo senso è evidente il rovesciamento dello spirito costituzionale delle origini.

6. Per la verità anche la fase precedente vedeva la Costituzione ampiamente disattesa, ma restava comunque riconosciuto come impianto programmatico a cui rifarsi per reagire alla repressione e a tentativi antidemocratici, e per avanzare sui diritti e le condizioni del mondo del lavoro. Questo rapporto tra le lotte dei lavoratori, la difesa e lo sviluppo della democrazia e il richiamo alla Costituzione ha a lungo funzionato nella stessa convinzione dei lavoratori.

Ancora recentemente per la verità è il richiamo alla Costituzione che, ad esempio, ha permesso di costringere la Fiat a una salvaguardia minima delle libertà sindacali.

Dalla fine degli anni ’70 si è avviato un percorso opposto che ha reso sempre più debole la consapevolezza  di questo rapporto sino ad indurre sempre più gli stessi lavoratori ad ignorare che la Costituzione possa essere riferimento fondamentale a cui commisurare i propri diritti e la pratica democratica nei luoghi di lavoro.

Per stare ad alcuni dei passaggi più recenti citiamo l’attacco all’art.18 e allo Statuto dei lavoratori; l’art.8 con cui sono stati resi derogabili i vincoli contrattuali e persino legislativi; i vari passaggi della controriforma previdenziale; la deregolazione delle forme di rapporto di lavoro fino ai voucher; l’utilizzo delle variazioni fiscali e contributive finalizzate a influire su forme e merito della contrattazione; le leggi sugli appalti e sulla possibilità di esternalizzazione o affidamento ad altre imprese di parti del ciclo produttivo.

Il tutto è avvenuto in presenza  di un continuo processo ristrutturativo e riorganizzativo che ha coinvolto e coinvolge  la forma dell’impresa e le condizioni del lavoro, le stesse forme del rapporto di lavoro all’interno di una crisi profonda dell’occupazione con forti problemi salariali e crescita della disuguaglianza.  È  un quadro già noto e denunciato.

 

7. Vengono richiamati dalla Stato stesso ad adeguarsi alle esigenze prioritarie dell’economia, dell’impresa e del mercato. Per realizzare questo obiettivo sono stati attuati vari  interventi e passaggi (prima citati) con leggi, decreti e regolazioni contrattuali conseguenti. Molti di questi interventi sul piano del fisco, dei contributi e dei diritti sono peraltro di dubbia costituzionalità.

C’è stata anche una significativa e pesante modifica costituzionale con l’introduzione dell’obbligo del pareggio di bilancio (fiscal compact) come richiesto dall’Europa con il consenso generale, anche di gran parte del sindacato. Tutto ciò è avvenuto in vari tempi e in modo  crescente con gli ultimi governi, con novità quotidiane, come tessere di un mosaico a cui hanno concorso varie mani, di fatto in sintonia fra di loro.

8. Il contrasto politico e anche sindacale (pur con importanti eccezioni)  è stato debole o per lo più  di carattere  emendativo. Sopratutto, anche nella cultura di sinistra è parsa prevalere  nell’opporsi la sottovalutazione e la incomprensione delle operazioni di quadro su cui veniva disegnato il futuro rispetto alla possibilità per i lavoratori di risalire la china senza dover delegare  questa possibilità alla “politica”. Antichi limiti non hanno, a mio parere, aiutato a capire che nel processo descritto stava e sta il carattere strategico centrale della inquietante deriva democratica e della crisi della politica.

La cosiddetta aziendalizzazione  a cui sindacato e lavoratori debbono ridurre l’orizzonte della loro azione e ruolo (quando e se ammesso) ci può aiutare a capire concretamente ciò che sta accadendo  (in parte è  già accaduto). In sostanza i vari aspetti della condizione sociale e lavorativa vengono spinti a cercare risposte a livello aziendale in alternativa al crescente svuotamento (se non cancellazione) dei contratti nazionali e al progressivo indebolimento di quel po’ di stato sociale conquistato in ritardo nel passato  nel nostro paese. Ovviamente questo spazio è dato solo in relazione al successo e alla compatibilità stabilita dall’impresa.

Con l’intervento sul piano fiscale e sui contributi per quanto riguarda il salario e salario sotto forma di servizi sociali, viene precostituita la convenienza a ricercare aziendalisticamente risposte aziendalistiche  (premiate) rispetto alla ricerca di risposte generali (punite).

A fronte di una crescente disuguaglianza e alle  difficoltà generali sulle questioni sociali (in presenza di crisi occupazionale, di precarietà e frantumazione dei lavori), viene drasticamente indebolita tra gli stessi lavoratori la credibilità di linee di risposta ispirate alla solidarietà e alla giustizia sociale. Sarebbe sorprendente se dal quadro descritto non derivasse una fondata difficoltà per il lavoratore a ricostruire un rapporto tra la vicenda costituzionale in corso e ciò che è avvenuto e avviene  sulla sua condizione  e sulla possibilità di reagire efficacemente a fare valere un proprio autonomo punto di vista.

È arduo recuperare dal punto di vista del lavoratore una credibilità della questione democratica e partecipativa in funzione dell’affermazione nella sua condizione di valori generali di solidarietà, democrazia e giustizia sociale . È una relazione che gli viene quotidianamente negata.

Questa ovvia difficoltà espone il mondo del lavoro al rischio di sentirsi estraneo all’attuale vicenda costituzionale (oppure a parteciparvi passivamente). Nelle mie esperienze di questo periodo nel rapporto con i lavoratori trovo conferma di questa oggettiva difficoltà a contrastare in modo convincente ed efficace  questo rischio. A ben vedere è una conferma della profondità della crisi della democrazie e della politica.

La dimensione sindacale è senz’altro uno dei pochi luoghi della politica (dove tra l’altro non esiste più una rappresentanza politico partitica del lavoro) in cui la difficoltà prima descritta per i lavoratori non può essere elusa e viene vissuta direttamente giorno per giorno, senza possibilità di affrontarla delegando e rimettendosi ad un improbabile futuro da affidare a  dinamiche politico istituzionali oggi  inesistenti. Per questa ragione è in questa fase nella dimensione sindacale che si danno le maggiori possibilità di fare scelte e costruire iniziative che tentino credibilmente di  recuperare tra i lavoratori il senso del contrasto alla controriforma costituzionale in relazione all’affermazione di valori di giustizia sociale, solidarietà e democrazia nel mondo del lavoro. Questa possibilità non è affatto detto che venga praticata. Tra l’altro un impegno in questo senso chiama in causa responsabilità e limiti dello stesso sindacato nel misurarsi con i processi denunciati.

A fronte della situazione descritta è forte quidi la tentazione e la tendenza a rinunciare  ad  esporsi in un esplicito contrasto al quadro dominante, che esporrebbe a rischi di pericolosa destabilizzazione lo stesso sindacato. Può apparire preferibile accomodarsi all’interno di questo quadro contando sull’interesse delle forze nazionali e internazionali dominanti ad utilizzare la dimensione sindacale per un ruolo subalterno alla stabilizzazione di volta in volta di scelte sempre più autoritarie.

Questa tendenza è visibile in tanti aspetti presenti da tempo e confermati anche  in questa fase  su vicende in corso come quella  previdenziale, il consenso sulle misure fiscali, molti accordi sul welfare e sul salario. È poi chiaramente verificabile nella assenza o distratta partecipazione alla vicenda costituzionale di parti rilevanti del sindacato con anche aree di esplicita copertura della campagna per il SI.

Ricorrono antichi luoghi comuni nel rapporto con i lavoratori come: “è un problema politico e quindi non sindacale”.

9. Questa tendenza nella dimensione sindacale non poteva non essere contraddetta da una tendenza opposta in cui prevale la necessità di non rassegnarsi e di reagire.

La CGIL, pur con notevoli resistenze interne, ha messo in campo alcune scelte non solo per respingere la revisione costituzionale, ma anche per cancellare per via referendaria alcune delle maggiori lesioni di questi anni ai diritti e alle condizioni del lavoro.

La CGIL ha accompagnato il suo ufficiale invito a votare NO alla revisione costituzionale con la raccolta di massa di firme che porteranno ai tre referendum, chiamando in causa direttamente la società civile per il ripristino di fatto dell’art.18, per l’abrogazione dei Voucher e per severi vincoli all’utilizzo degli appalti.

Si tratta del contributo più importante di questo periodo (che non poteva che venire dal sindacato) per riallacciare un rapporto tra la questione democratica e la possibilità che venga vissuta dai lavoratori in relazione alla necessità di rilanciare i propri diritti, non aziendalizzabili e non dissolubili. Infatti le questioni poste con i tre referendum sono questioni che appartengono al campo dei valori generali di solidarietà e giustizia sociale, di attuazione della Costituzione.

10. Concludo infine con una notazione, che meriterebbe uno sviluppo a parte, sul fatto che le ragioni e la caratteristica della scelta referendaria di una parte del sindacato pone l’esigenza di una più adeguata attenzione alla dimensione sindacale da parte delle forze e culture di opposizione che troppo spesso paiono continuare  a considerarla  di importanza (collaterale) solo in funzione dell’utilità per questa o quella contingente vicenda politica esterna.

Il mio NO e’ solo sociale

 

di Franco Berardi Bifo
All’inizio mi sono detto: perché dovrei votare come il razzista Salvini, o come D’Alema, l’uomo che ha violato l’articolo 11 della Costituzione bombardando la Serbia per ordine dei suoi compari Bill Clinton e Tony Blair e adesso si presenta come difensore della Costituzione Repubblicana? Poi vado a vedere chi mi consiglia di votare SI e trovo un signore che in gioventù fu fascista poi si convertì allo stalinismo perché lo stalinismo stava vincendo, e poi si convertì alla NATO perché lo stalinismo era venuto meno, e poi si converti all’europeismo finanziario e come presidente della Repubblica firmò disciplinatamente i decreti di Berlusconi e i diktat del sistema bancario.
Pensavo di astenermi, a quel punto per non trovarmi in un caso come nell’altro in compagnia di ipocriti mascalzoni.
Poi andai al comizio di Landini, un paio di settimane fa, e Landini mi ha convinto a votare NO. Landini fece notare che il governo Renzi, a parte le velleità di riforma costituzionale, si distingue soprattutto per le sue politiche sociali.
È il governo del voucher, cioè della totale distruzione dei diritti del lavoratore, anzi per la cancellazione del lavoratore stesso come persona. È il governo che propone ai lavoratori anziani di pagarsi un mutuo in banca (magari la Banca Etruria, vero?) per poter avere la pensione, dopo aver pagato una vita di contributi. Questo è il governo Renzi. Prima cade meglio è.
Dopo avere ascoltato Landini dissi a me stesso: il mio voto non sarà costituzionale né politico, il mio voto sarà sociale.
Sul piano costituzionale mi fido assai più di Stefano Rodotà che di Giorgio Napolitano, naturalmente. E mi pare evidente che l’efficienza della democrazia non dipende dalla abolizione del Senato né dal premio di maggioranza. Queste sono misure che riducono la democrazia, non la perfezionano. Ma per essere del tutto sincero, delle questioni costituzionali me ne importa il giusto, cioè quasi niente.
Non perché io consideri la democrazia una cosa irrilevante, ma perché penso che la democrazia è morta, non per effetto di una riforma costituzionale, ma perché cancellata dal potere finanziario, e non dall’eccessivo numero dei senatori. Chi dice che la decisione politica deve essere più veloce prende in giro se stesso e gli altri. La decisione politica non dovrebbe essere veloce o lenta: dovrebbe essere coerente con gli interessi della maggioranza della società.
Al contrario la decisione politica è ostaggio della dittatura finanziaria, e poco importa se va veloce o lenta, in ogni caso distrugge la vita sociale per ragioni che non dipendono dalla politica, ma dagli automatismi finanziari di cui la politica è diventata una funzione dipendente.
Dal punto di vista costituzionale la riforma di Renzi e Napolitano è anti-democratica, perché è anti-democratico accelerare i tempi della decisione e aumentare il potere dell’esecutivo. Questo è elementare. Ma io non vado a votare per questioni di tipo costituzionale.
La Costituzione della Repubblica Italiana sarà forse la più bella del mondo, ma è da tempo inoperante. D’Alema ha violato l’articolo 11, Berlusconi ha violato l’articolo 21 e Renzi ha violato l’articolo 4, e tutti coloro che hanno promosso la riforma neoliberale hanno violato l’articolo 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 e continuate voi.
Voterò NO perché occorre fermare la dittatura liberista, la precarizzazione del lavoro e l’impoverimento della società. Occorre fermare il governo Renzi che rappresenta l’efficientismo al servizio della devastazione neoliberista e del sistema finanziario.
Capisco che molti amici (anche amici carissimi della cui intelligenza e buona fede non dubiterò mai) propendono verso il sì per una ragione nobile. Temono il caos, temono di mescolare il loro voto con quello di gentaglia.
Li capisco. Chi ha scelto di spostare la discussione sulla questione (vuota) della democrazia e della costituzione lo ha fatto perché su questo terreno sperava di vincere, e sbaragliare per sempre ogni resistenza contro la devastazione liberista. Renzi lo ha detto esplicitamente: se vinco il referendum la via della “riforma” è sgombra e più nessuno mi ferma. E sappiamo cosa vuol dire “riforma” nel new-speak neoliberista.
In questo modo Renzi pensava di mettere i cultori del nuovo contro i cultori del vecchio, e in qualche misura c’è riuscito. Molti dicono di votare sì perché hanno la (falsa) percezione di essere dalla parte del rinnovamento contro coloro che difendono la “vecchia” Costituzione. Sarà anche la più bella del mondo, dicono in cuor loro, ma ha settant’anni, meglio una giovinetta anche meno avvenente ma più croccante. Mi dispiace di banalizzare, ma il renzismo è questo: meglio un imbecille nuovo che un vecchio saggio, no?
L’imbecille nuovo tira la carretta con energia, e corre dietro alla carota senza farsi troppe domande.
Io non scelgo tra il vecchio e il nuovo. Scelgo tra la stabilità dello sfruttamento precario e della miseria crescente e l’incertezza di un futuro in cui tutto finalmente ridivenga possibile. Scelgo il rischio, per rompere la certezza di un futuro di miseria, di depressione e di fascismo.

Fonte: comune-info.net
Originale: http://comune-info.net/2016/11/mio-no-sociale/

La riforma Renzi – Boschi è operazione di distrazione di massa

Intervista di Giulio Cavalli a Anna Falcone – 16 novembre 2016

«Questa riforma è ben diversa dalla propaganda che stiamo ascoltando» dice. E aggiunge: «Siamo di fronte a una preoccupante lesione del diritto dei cittadini di votare informati».

Anna Falcone, avvocato cassazionista e vice presidente del Comitato del No è uno dei volti “nuovi” di questa campagna referendaria. Impegnata sul fronte del referendum è attivissima negli interventi e nelle partecipazioni a dibattiti (televisivi e non).  Abbiamo voluto porle alcune domande sulle ultime polemiche di questi giorni.

La campagna referendaria si sta scaldando: scoppiano le polemiche contro la personalizzazione del referendum da parte del premier Renzi e l’ultima in ordine di tempo è la questione della lettera agli italiani all’estero che il premier ha inviato per perorare la causa del no. Come vede la situazione attuale?

Questo è l’effetto immediato e diretto di un’anomalia: il fatto che questa riforma costituzionale sia stata proposta dal governo. E questo è veramente all’origine di tutte queste disfunzioni: un esecutivo (di cui Renzi è responsabile) che si permette non di revisionare la Costituzione (così come previsto dall’articolo 138) ma addirittura di scriverla stravolgendola e toccando l’equilibrio di poteri e il loro principio di separazione. La Costituzione così cambia natura: le Costituzioni nascono proprio per limitare il potere esecutivo dandogli delle regole condivise da tutti per garantire che il potere esecutivo non venga attuato in maniera arbitraria ma in rispetto della sovranità popolare.

Ritenete quindi che il Governo abbia forzato la mano?

Avendo stravolto questa origine per cui le Costituzioni le scrivono i popoli e non i governi e se devono essere modificate così profondamente serve un’assemblea costituente o quantomeno un Parlamento eletto dal popolo con questo mandato (e non certo con una maggioranza eletta da una legge incostituzionale come questa). Essendo partiti da qui siamo arrivati all’anomalia per cui questo stesso governo (che dovrebbe preoccuparsi del diritto degli italiani di partecipare consapevolmente a una consultazione referendaria così importante) si occupa della propaganda. Noi stiamo affrontando questa stagione referendaria senza un soggetto garante dei diritti alla corretta informazione su entrambi i fronti.

Ma l’AGCOM non dovrebbe servire proprio a questo?

L’AGCOM non può sopperire. Ha già denunciato uno squilibrio a favore del sì ma non ha il dovere di garantire la corretta informazione essendo solo un organo di controllo.

E il Presidente della Repubblica?

Il Presidente della repubblica potrebbe intervenire ma è un potere neutro. Può intervenire nel processo legislativo (rimandando alle Camere una legge che non funziona) oppure potere di monito. Ma purtroppo il Presidente della Repubblica si è già rivelato particolarmente timido in queste vicende referendarie.

Del resto anche l’argomento non è di facile comprensione…

Sì, l’argomento è ostico ma purtroppo noi ci ritroviamo di fronte a una campagna, quella del sì, che si fonda su argomenti menzogneri. Riuscire a avere la par condicio solo nell’ultima parte della campagna referendaria (senza parità di mezzi) pone un problema di un’oggettiva sproporzione di mezzi, di visibilità e c’è un abuso di posizioni. Il Presidente del Consiglio dovrebbe preoccuparsi di garantire una corretta informazione: all’estero andava mandata una scheda con delle sintetiche ragioni del sì e del no. Inviare una lettera firmata solo “Matteo Renzi” è un modo per indirizzare il voto. Questo referendum sembra sempre di più una semplice ratifica di decisioni già prese.

Dice Renzi che i principi della Costituzione (la prima parte) non vengono toccati.

La seconda parte sono le braccia e le gambe: se le tagli di fatto rendi impossibile la piena attuazione dei principi della prima parte. Attenzione: noi diciamo da tempo che la Costituzione è modificabile ma bisogna cercare di migliorare la Costituzione e il collegamento tra la prima e la seconda parte. Noi lamentiamo la mancata attuazione di alcuni articoli fondamentali. Molte modifiche (come la riforma del titolo V e l’introduzione del pareggio di bilancio) sono servite a travisare il senso dei principi fondamentali e di alcuni diritti garantiti.

Tipo?

Penso al diritto alla salute: l’articolo 32 tutela il diritto alla salute come diritto universale. In questa riforma si dice che finalmente viene inserita una norma che garantirà a tutti i cittadini italiani lo stesso livello di cura. Noi partiamo da un’anomalia dell’ultima modifica del titolo V che aveva costituito diversi sistemi sanitari quante sono le regioni e che aveva portato a una mancanza di omogeneità. Essendo la salute un diritto economicamente condizionato le ragioni più povere ovviamente non riescono a garantirlo come altri. Con questa riforma si è duplicata la norma già prevista dall’articolo 117 2 comma lettera M che prevedeva già i LEA e i LEP (livelli essenziali di assistenza e prestazioni) secondo cui spettava allo Stato stabilire i principi essenziali di tutela alla salute ma se non costituzionalizzi una garanzia concreta, se non riempi di contenuti queste norme ma indichi solo una competenza vuota diventa l’ennesima norma di rinvio. Non c’è nessuna garanzia. Quando parlano di “farmaci antitumorali” si dimenticano di dire che hanno mantenuto in capo alle regioni le competenze di programmazione e organizzazione, proprio quelle fortemente condizionate dalle risorse economiche delle regioni. Tutta questa riforma è un’operazione di distrazione di massa disseminata di specchietti per le allodole che non garantisce efficienza e che mira semplicemente a un accentramento di poteri in campo al governo.

Dicono che in realtà il popolo però avrà più strumenti come iniziative di legge popolare o referendum.

Si parla di obbligo di calendarizzazione ma basterebbe guardare nella riforma per accorgersi che non c’è scritto da nessuna parte. Anzi, il rinvio della disciplina è vero i regolamenti parlamentari. Peccato che i regolamenti parlamentari siano approvati a maggioranza assoluta dal Parlamento e quindi noi ad ogni governo potremmo vedere cambiare questi meccanismi. Così come per il referendum propositivo e altro. Gli obbiettivi che il governo propaganda vanno verificati. Tutti.

Ora Renzi sembra avere preso una nuova piega “anticasta”. Togliere le bandiere dell’Unione Europea nei suoi ultimi video che significato ha?

È un tentativo di sfruttare a suo vantaggio la vicenda americana ma qui le situazioni non sono assimilabili. La lezione piuttosto è che la mancata partecipazione dei cittadini alla vita politica produca nei cittadini la voglia di un voto che sia schiaffo. Renzi ha poco da sorridere, non vuole capire che questa riforma da molta meno partecipazione (come il diritto di voto ai senatori, solo per fare un esempio). E poi c’è il modo: se il problema era la riduzione dei costi della politica sarebbe bastato diminuire il numero dei deputati. Qui si parla si un risparmio dello 0,10%.

Che aria tira sua questa campagna referendaria?

Mi preoccupa la rabbia. Mi fa molto sperare vedere come questa campagna sia stata capace di riportare all’impegno attivo tante persone che si erano allontanate, tanti giovani e tanti volontari.

continua su: http://www.fanpage.it/parla-anna-falcone-tutta-questa-riforma-e-un-operazione-di-distrazione-di-massa/

http://www.fanpage.it/

Referendum costituzionale: i fatti e i miti

fonte Sbilanciamoci.info

In questa campagna referendaria abbiamo dismesso i panni della discussione e il dibattito si riduce al chi sta con Renzi e chi sta contro Renzi. Così la Costituzione diventa oggetto plebiscitario, o semplice programma elettorale

Ne è valsa la pena?

Perché questa quasi-guerra fratricida? Qual è la ragione così urgente che ha mosso la dirigenza del Partito Democratico e del Governo a imporre una campagna referendaria su questa riforma della Costituzione, così frettolosa, così imperfetta, e soprattutto così divisiva? Perché decenni di manicheismo da guerra fredda tra comunisti e democristiani non hanno diviso così fortemente il paese come questo referendum che cade in un tempo post-ideologico? Propongo due ordini di risposte a queste domande, uno che cerca di capire la filosofia di questa proposta di revisione, e uno che cerca di valutare l’impatto di questa campagna referendaria sulla cittadinanza.

Fatti e Miti

Hanno detto i suoi promotori che è la storia a chiedere questa riforma; lo chiedono trenta (per Renzi settanta) anni di tentativi di cambiare la nostra democrazia, troppo pluralista e assembleare, troppo orizzontale e poco attenta alla governabilità. Ma nessuno sa esattamente che cosa questo significhi, anche perché la storia siamo noi, e quindi è il presente, questo presente, che vuole questa riforma. Figlia di questo presente, la filosofia sulla quale riposa questa riforma è poco amante dell’intermediazione, del pluralismo e di quella complessità che – ce lo siamo dimenticato? – è la società liberale e democratica stessa a generare. Questa filosofia riposa su due miti: velocità di decisione e semplificazione per aiutare la velocità. E si impone, o cerca di imporsi, con un metodo che è ad essi coerente: insofferente per il dissenso, violento nel linguaggio, dominatore nell’uso monopolistico dei mezzi di informazione, e plebiscitario nella forma del consenso chiesto ai cittadini. Per chi mastica un poco di filosofia politica lo scenario è Schmittiano.

Da che cosa sono supportati i miti della velocità e della semplificazione? Non da prove fattuali, ovviamente. Certo, non sul fronte della “velocità” di decisione; anche perché questo governo di coalizione ha dimostrato di riuscire in pochi giorni a sopprimere diritti del lavoro che resistevano almeno dal 1970. Velocissimo è stato anche il precedente governo Monti nell’approvare la riforma delle pensioni e addirittura nell’inserire la norma del pareggio di bilancio nella Costituzione. La velocità in queste riforme amate dai “mercati” (e molto poco digeribili per quei democratici che assegnino a questa parola un valore superiore a quello della sigla di un partito) è stata possibile la Costituzione vigente. Quindi perché?

E che dire del mito della “semplificazione”? Se semplificare comporta approntare mezzi per l’attuazione celere delle decisioni, allora il problema è risolvibile con regolamenti nuovi, sia parlamentari che della burocrazia. Perché andare ai poteri fondamentali dello Stato? Perché, probabilmente, il mito della semplificazione è coerente a una visione dirigistica del potere politico, che sta davvero stretta a una costituzione democratica com’è la nostra.

Semplificare può voler dire molte cose e nulla. L’argomento piace molto ai populisti di tutti i continenti e tempi: e sta per superamento della fatica del dover cercare mediazioni e consensi, secondo il mito molto dirigistico di snellire le rappresentanze, di sfoltire i protagonisti dei processi decisionali, per contenere i tempi di decisione e togliere ostacoli a chi decide. È un mito ben poco democratico, e non perché la democrazia significa perdere tempo, ma perché, come scriveva Condorcet, non si fida di chi vuol dare più potere all’organo di decisione, il governo: un argomento di cui “sono lastricate le strade verso la tirannia”. Senza bisogno di andare così lontano come Condorcet, possiamo tuttavia nutrire seri dubbi che una semplificazione decisionale sia sicura per chi crede nel potere di controllo, limitazione e monitoraggio, ovvero sorveglianza. Chi propone questa riforma non ha un’idea molto positiva della democrazia, ritenendola troppo esosa in termini di tempo e troppo esigente in termini di controllo. Ecco perché ci propone una riforma che depotenzia la democraticità della nostra Costituzione.

Resa meno democratica, ovvero meno rappresentativa delle diverse istanze, territoriali o politiche, e più interessata a localizzare la sede apicale della decisione trascinando gli organismi collettivi invece di essere da questi trascinato: non a caso nella proposta di revisione ha un posto di rilievo il principio della temporalità stabilita dal Governo, che può predeterminare i tempi di discussione del Parlamento e chiedere che esso sospenda i suoi ordinari lavori per occuparsi prima e subito dei suoi decreti. L’implicita ammissione è che colpa della lentezza e della complessità sia il Parlamento, e tutti gli “organi assembleari” come con fastidio chiamano la democrazia rappresentativa i dirigisti. Contro l’“assemblearismo” è in effetti da settant’anni che gli insoddisfatti della democrazia tuonano nel nostro paese, a partire proprio dalla Consulta.

Distanza dei cittadini e poteri accentrati

La revisione della Costituzione pone inoltre problemi molto seri quanto al rapporto tra istituzioni e cittadini. Su questo aspetto pochi si sono soffermati e propongo qui alcune riflessioni.

Le ragioni per non sostenere questa proposta di revisione sono di vario genere: da quelle relative al merito (a come ridisegna il Senato, le funzioni delle Regioni e la relazione tra i poteri dello Stato) a quelle più direttamente politiche o di prudenza politica. Su queste seconde non si discute mai abbastanza. La Costituzione di uno stato democratico dovrebbe avere uno sguardo lungo, essere pensata in relazione non all’oggi ma a qualunque tensione o problema possa succedere domani. Questa prospettiva ha reso la Costituzione italiana vigente un’ottima Costituzione, capace di reggere molti stress: gli anni di piombo, impedendo che le istituzioni si facessero convincere dal canto delle Sirene che chiedevano governi di emergenza, sospensione dei diritti e stato di polizia; e poi l’assalto da parte della corruzione dei partiti prima e del patrimonialismo berlusconiano poi. Se l’opinione, anche politica, ha spesso tentennato, le istituzioni hanno tenuto la barra diritta perché la Costituzione ne disegnava i poteri e le funzioni in maniera tale che nessuna di esse potesse prendere sopravvento o avere un potere superiore.

Se la nostra democrazia ha tenuto e la stabilità è stata garantita nel corso degli anni nonostante i diversi governi (un problema da attribuirsi semmai al sistema elettorale) è stato perché le istituzioni hanno tenuto. E questo è dimostrato dal fatto che il declino di legittimità dei partiti e degli attori politici non ha scalfito la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, perché queste non hanno dato l’impressione di essere dominate completamente dai partiti. Vi è da temere che un Senato composto per voto indiretto alimenti nei cittadini l’impressione che la loro incidenza sulle istituzioni sarà più debole mentre il potere di decisione degli attori politici più opaco e fuori dal loro controllo. Il rischio è che le istituzioni siano a poco a poco percepite come proprietà di chi le occupa; che la distanza tra istituzioni e società aumenti. E con essa che cresca il senso di illegittimità delle istituzioni.

Inoltre, pensata in funzione di neutralizzare esecutivi ingombranti (scritta in funzione anti-fascista), la Costituzione del 1948 si presenta come molto ben corazzata contro i nuovi populismi. Decentrare il potere e spezzarne la tendenza alla concentrazione (con un governo che impone i tempi e l’agenda al Parlamento) è mai come in questo tempo essenziale a fermare i tentativi di assalto che possono venire dalle forze nazional-populiste. Questo non è il tempo migliore per una Costituzione che concentra i poteri e indebolisce i controlli e il ruolo delle opposizioni.

Negli Stati Uniti ci si preoccupa in questi giorni degli effetti che potrà avere l’accumulo di potere e l’allineamento sotto un unico partito di tutti i poteri dello Stato: la Casa Bianca, il Congresso, il Senato e la maggioranza della Corte Suprema. Indubbiamente la governabilità e la velocità delle decisione saranno facilitate con l’amministrazione Trump e la sua maggioranza granitica. Ma siamo convinti che questo sia desiderabile?

Una campagna velenosa

Chi si è schierato con Renzi, leggiamo spesso sui quotidiani, ha rischiato il linciaggio morale. D’altro canto chi si è schierato contro Renzi ha perso amici e si è trovato/a classificata con i Casa Pound o gli anti-sistema e con i populisti di tutte le risme. Una guerra di parole e dichiarazioni fratricida, come non si era visto neppure con la proposta di riforma lanciata dal Governo Berlusconi. Forse perché la lotta è ora tutta a sinistra o tra chi in modi diversi si sente vicino al Partito Democratico, questa campagna ha avuto il sapore di una piccola guerra civile, di una guerra civile di parole. Ricordiamo il caso Roberto Benigni, il primo a scatenare questa guerra.

Rispondendo alla domanda di Ezio Mauro se non avesse paura di passare per “renziano” confessando di votare Sì al referendum costituzionale, Benigni la scorsa primavera ha rivendicato il diritto di votare come pensa e non per conformarsi a chi non si conforma. E il diritto di votare implica il diritto di schierarsi: “Non voglio rimanere neutrale, lavarmene le mani dicendo che faccio l’artista, voglio essere libero. E la libertà non serve a nulla se non ti assumi la responsabilità di scegliere ciò che credi più giusto”. Risposta pertinente perché coerente ai due principi aurei della democrazia liberale e non plebiscitaria: votare con la propria testa e non con quella del leader, e rivendicare il valore del voto che è e non può che essere partigiano. Voto schierato non voto plebiscitario. È questa la distinzione che oggi è difficile fare e mantenere. All’origine della difficoltà vi è stata la decisione di Renzi di identificare il Sì con la sua persona e il suo governo, trasformando il No automaticamente in un giudizio sulla sua persona e in una causa di instabilità politica. Chi non sta dalla sua parte è messo nell’“accozzaglia” degli sgradevoli.

Questa trappola ci ha impedito di battagliare da “partigiani amici”, come direbbe Machiavelli, e ci ha fatto essere “partigiani nemici”. I primi sono quelli che si schierano nella libera competizione delle idee per favorire o contrastare un progetto politico. I secondi sono quelli che personalizzano la lotta politica mettendo nell’arena pubblica non le ragioni pro e contro un progetto, ma le rappresentazioni colorite delle tipologie di chi sta da una parte e dell’altra. I primi si rispettano come gli avversari di una battaglia legittima, i secondi si offendono e creano le condizioni per un risentimento che sarà difficile da dimenticare.

È da anni, da quanto Berlusconi “scese in campo”, che la lotta politica ha preso la strada dello stile teatrale, della rappresentazione estetica – con forme mediatiche che hanno lo scopo di colpire le percezioni per mobilitare le emozioni e rendere la contesa radicale, non dialogica. Di creare identificazioni non forti nelle convinzioni ideali ma forti nella vocalizzazione e nella pittorica rappresentazione. Come se ogni battaglia fosse l’ultima, come se la catastrofe e il diluvio seguissero a una vittoria o a una sconfitta. È questo stile populista del linguaggio estetico e tutto privato (ingiudicabile con la ragione pubblica) che ha corroso negli anni la nostra abitudine alla lotta partigiana, trasformandola in un Colosseo, uno spettacolo che vuol vedere il sangue che colora di rosso l’arena.

Le ragioni a favore o contro sono spessissimo passate in secondo piano. Questo succede soprattutto oggi che siamo in dirittura di arrivo. Per cui i blog e i social network assalgono chi si schiera con il Sì come fosse un rinnegato, e offendono mortalmente chi vota No come fosse un nazi-fascista, un “falso” partigiano. A chi vota Sì è affibbiato il titolo di lacchè del potere, a chi vota No è appiccicata l’immagine della “palude”. Chi vota No sarebbe per la conservazione e chi vota Sì sarebbe per l’innovazione e intanto non si riesce a spiegare senza essere sbeffeggiati e sbeffeggiare che cosa si vuole preservare e che cosa si desidera innovare.

Siccome i sacerdoti del Sì non possono vantare, proprio come quelli del No, alcuna privilegiata saggezza, sarebbe stato opportuno mettere sul tappeto le questioni reali implicate in questa battaglia sulla nostra Costituzione: il carattere di questa nuova versione della Costituzione e gli effetti che potrebbe generare, soprattutto se accoppiata con l’Italicum (una legge dello Stato il cui peso ingombrante è stato accantonato da Renzi, con la promessa verbale a Gianni Cuperlo di rivederla dopo il 4 dicembre). Dicevano i teorici e i politici settecenteschi che hanno teorizzato e/o scritto le costituzioni che queste devono essere scritte per i demoni, non per gli angeli. E come Peter sobrio che scrive le regole per Peter ubriaco, le carte di regole e di intenti servono proprio per esorcizzare e contenere il potere, in particolare quello istituzionalizzato, nell’eventuale occorrenza che venisse tenuto da mani sconsiderate. Come Benigni, anche altri sostenitori del Sì riconoscono che il nuovo Senato è pasticciato; diversi, anche nel Pd, si preoccupano degli effetti combinati della riforma con l’Italicum, che contrariamente a quanto succede per i sindaci premia non chi ha raggiunto il cinquanta per cento, ma il quaranta per cento. È legittimo farsi queste domane e voler discutere di queste questioni. È legittimo che i cittadini democratici si preoccupino di sapere quando potere resterà a loro, quanta forza avrà la loro voce.

E invece, il clima è da mesi rovente, rabbuiato dalla retorica del plebiscito. Il manicheismo fa spettacolo ma non fa prendere decisioni sagge – la deliberazione democratica deve poter contare sul fatto che si entra in una discussione con un’idea e se ne può uscire con un’altra. Ma in questa campagna referendaria abbiamo dismesso i panni della discussione: ciascuno alla fine resta dell’idea che aveva all’inizio, mentre gli incerti e gli indifferenti saranno probabilmente colpiti da una battaglia più personalizzata che ragionata. Chi sta con Renzi e chi sta contro Renzi. Tutti ci siamo fatti e ci facciamo conformisti. A questo si giunge quando la Costituzione è fatta oggetto plebiscitario, o usata come un programma elettorale – per contare nemici e amici. Di costituzionale vi è davvero poco. Figuriamoci se questo fosse stato il clima dei Costituenti! Avremmo avuto la guerra civile non settant’anni di vita civile.

Quale che sia l’esito, dopo il 4 dicembre 2016 il nostro sarà un paese più diviso. Cui prodest?

Raniero La Valle I VALORI SUPREMI DELLA COSTITUZIONE TRADITI DALLA RIFORMA – Settimo discorso su “La verità del referendum” tenuto il 15 novembre 2016 a Vicenza

Comitati Dossetti per la Costituzione
Raniero La Valle
I VALORI SUPREMI DELLA COSTITUZIONE TRADITI DALLA RIFORMA
Settimo discorso su “La verità del referendum” tenuto il 15 novembre 2016 a Vicenza
La Corte Costituzionale ha affermato che ci sono dei valori supremi sui quali si
fonda la Costituzione, che non possono essere sovvertiti o modificati nemmeno da
leggi di revisione costituzionale. Questi principi supremi affermati soprattutto nella
prima parte della Costituzione sono in gioco nella seconda, che ne dovrebbe garantire
l’attuazione; ma proprio questi sono ora disattesi o traditi nella riforma sottoposta al
voto popolare del 4 dicembre.

La sovranità popolare
I – Il primo principio, che sta scritto all’inizio della stessa Costituzione, è
quello della sovranità popolare. Dice l’art. 1: “la sovranità appartiene al popolo, che
la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Questo principio è il
fondamento di tutta la Costituzione. In rapporto ad esso la Costituzione sta o cade.
La statuizione di questo principio è frutto di secoli di lotte, è costata lacrime e
sangue, ed è il punto di svolta della storia dai regimi assoluti a ordinamenti di libertà.
Passare dalla condizione di sudditi a quella di sovrani, cambia infatti la vita, cambia il
destino delle persone e dei popoli.
Che la sovranità sia di uno solo, di un monarca o di tutti, è decisivo anche per
l’alternativa suprema, che è quella tra la guerra e la pace. Quando, più di un secolo fa,
nel settembre 1911 l’Italia dichiarò guerra alla Turchia per prendersi la Libia, dando
inizio a quel conflitto con l’Oriente e con l’Islam che dura ancor oggi, tutto avvenne
in segreto e come se niente fosse, col Re che era in vacanza a San Rossore, Giolitti
che se ne stava a Dronero e il Parlamento che era chiuso per ferie. Nel 1944 quando
nel radiomessaggio del sesto Natale di guerra Pio XII fece la storica scelta a favore
della democrazia disse che forse, se avessero avuto la democrazia, i popoli avrebbero
potuto impedire la guerra. Nel 1969 un popolo di sovrani in America e nel mondo
diede vita a un grandioso movimento pacifista che poi costrinse gli Stati Uniti a
ritirarsi dal Vietnam e a porre fine a quella guerra. Ciò mostra l’importanza del
principio della sovranità popolare.
Ora questo principio supremo è violato nella proposta di Costituzione
sottoposta a referendum in molteplici modi.
Prima di tutto il Senato, che continuerà ad avere vastissime competenze
legislative e politiche, non sarà più eletto dal popolo; esso sarà designato, checché
dica il documento firmato da Cuperlo, da 904 consiglieri regionali, cioè da politici
appartenenti alla nomenclatura e ai partiti che comandano nelle Regioni.
In secondo luogo la sovranità popolare è violata dalla elevatissima distorsione
del rapporto di proporzionalità tra i voti espressi dal popolo e i seggi attribuiti, a
causa della legge elettorale maggioritaria oggi vigente che trasforma in modo
ineguale i voti in seggi; si dice che sarà cambiata ma intanto la riforma si vota con
quella.
Il principio della sovranità popolare è violato inoltre dalla dissuasione dalla
partecipazione politica (un manifesto del PD prometteva, in cambio del Sì al
referendum, la diminuzione dei “politici”).
E poi c’è il fatto che una volta eletto il primo ministro con tutti i suoi deputati,
per il popolo sovrano non ci sarà più niente da fare per cinque anni, essendo
artificialmente assicurato un governo di legislatura, e dunque i cittadini perdono di
cinque anni in cinque anni il diritto sancito dall’art. 49 della Costituzione di
concorrere a determinare la politica nazionale.
Inoltre è violato il principio che la sovranità popolare si esercita nelle forme e
nei limiti della Costituzione, perché tra queste forme e questi limiti la Costituzione
prevede che il popolo non elegga direttamente il presidente del Consiglio, ma che
questo sia nominato dal presidente della Repubblica; invece secondo la legge
elettorale connessa alla riforma costituzionale “il capo della forza politica” che vince
le elezioni e ottiene il premio di governabilità è automaticamente, la sera stessa,
acclamato come presidente del Consiglio, anche se il presidente della Repubblica che
secondo la Costituzione lo dovrebbe nominare, sta dormendo.
Ma la lesione più grave del principio di sovranità consiste nel portare a
compimento quel passaggio della sovranità dal popolo ai mercati che da tempo ci
chiedono la Trilaterale, Gelli, la banca Morgan, l’Europa, gli ambasciatori americani:
una riforma che appunto, come oggi si dice, era attesa da trent’anni e che neanche
Berlusconi era riuscito a realizzare. Ma questo transito della sovranità dagli uomini ai
mercati, è precisamente ciò che depreca il papa quando denuncia la bancarotta di una
società in cui il denaro governa invece di servire e in cui vengono salvate le banche
ma non le persone.

Il lavoro come fondamento della Repubblica
II – Il secondo principio supremo, che figura nello stesso incipit della Costituzione, è
il principio lavorista, perché’ l’Italia è concepita come una Repubblica fondata sul
lavoro. È un principio straordinario che attua il rovesciamento cristiano del servo in
signore. Il lavoro che era la schiavitù addossata al servo, è ora riconosciuto come la
dignità stessa dell’uomo. Questo principio, insieme con l’art. 4 che riconosce il diritto
al lavoro e prescrive alla Repubblica, cioè alla politica, di renderlo effettivo, fa sì
che siano costituzionalmente obbligatorie politiche di piena occupazione.
La piena occupazione non è un’opzione facoltativa, una variabile dipendente dalle scelte
ideologiche dei governanti, è un obbligo costituzionale, è ciò che la Repubblica,
secondo la Costituzione, non può non fare.
Ma questo è impedito dall’art. 117 della nuova Costituzione che ribadisce in
modo ancora più stringente il vincolo già previsto nel testo oggi vigente, stabilendo
che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto “dei vincoli derivanti
dall’ordinamento dell’Unione Europea” (prima si parlava con minore precisione di
“comunità europea”). Ma l’ordinamento dell’Unione Europea è un ordinamento che
trasforma in regime la scelta economica neo-liberista e l’ideologia della sovranità dei
mercati. Esso tutela la competizione e la concorrenza in quello che chiama il
“mercato interno”, che sarebbe poi la stessa Europa, e all’art. 107 proibisce gli aiuti
concessi dagli Stati o il trasferimento di risorse statali alle imprese, cioè proibisce
l’intervento dello Stato nell’economia, sotto pena di una condanna da parte della
Commissione europea o di un giudizio davanti alla Corte di giustizia europea.
Ciò vuol dire, tra le altre cose, che politiche di piena occupazione, che
sarebbero costituzionalmente dovute, sono costituzionalmente proibite da questa
seconda parte della Carta che vincola la legislazione ai diktat europei.
E proprio qui c’è il punto di caduta finale della nuova Costituzione. Essa
modifica la forma di Stato, perché svuota il sistema delle autonomie restaurando il
centralismo statale; modifica la forma di governo perché trasforma il governo
parlamentare in potere monocratico elettivo di legislatura, come quello dei sindaci, e
perciò in un premierato mascherato; modifica i compiti e i fini della Repubblica,
perché come dice la relazione che accompagnava il disegno di legge di riforma
Renzi-Boschi, l’obiettivo è di adeguare la Repubblica “alle nuove esigenze della
governance europea e alle relative stringenti regole di bilancio”; e queste tre
modifiche della forma di Stato, della forma di governo e dei fini della Repubblica nel
loro insieme portano a compimento il lungo processo, cominciato già qualche
decennio fa, di trasferimento della sovranità dal popolo ai mercati.

Una democrazia parlamentare
III – Il terzo principio fondamentale che è tradito dalla riforma è quello per il quale la
nostra non è una democrazia dell’investitura, ma è una democrazia parlamentare.
Nella democrazia parlamentare l’architrave di tutto il sistema è l’istituto della fiducia,
perché è grazie alla fiducia del Parlamento che il governo può sorgere, ed è a causa
della perdita della fiducia che un governo può cadere, come è giusto che sia se un
governo, a giudizio della maggioranza parlamentare, invece del bene comune
produce un male comune.
Ma la riforma attacca e sostanzialmente distrugge l’istituto della fiducia che
non sarà più la fiducia del Parlamento, perché a metà del Parlamento, che resta
bicamerale, cioè al Senato, questo potere viene tolto; e quanto alla fiducia che resterà
nel potere della sola Camera, essa non sarà più una fiducia parlamentare, ma
un atto interno di partito, perché un solo partito, il cui segretario o il cui capo sarà il
presidente del Consiglio, grazie alla legge elettorale disporrà di 340 voti alla Camera,
sicché la fiducia sarà non il frutto di una valutazione politica, ma una atto dovuto per
disciplina di partito.
Per cui ci sarà, almeno formalmente, una democrazia, ci sarà un Parlamento,
ma non ci sarà più una democrazia parlamentare.

Il ripudio della guerra
IV – Il quarto principio supremo tradito dalla riforma è il principio pacifista, per il
quale l’Italia ripudia la guerra, ogni guerra che non sia quella corrispondente al
“sacro dovere” della difesa della Patria, inteso come popolo e territorio. Tale
principio avrebbe dovuto semmai avere maggior tutela, dopo che il Nuovo Modello
di Difesa varato nel 1991, ha spostato i confini fino ai pozzi di petrolio, alle dighe e ai
popoli del Medio Oriente e la patria è stata identificata con gli interessi economici
dell’Occidente da difendere anche militarmente in tutto il mondo globalizzato.
Invece la riforma rende più facile e mette in mano ad una sola persona la scelta
della deliberazione di guerra, dalla quale il Senato, cioè mezzo Parlamento, è proprio
quello che secondo i riformatori dovrebbe più direttamente rappresentare le
popolazioni locali, è tagliato fuori; la semplificazione che dà più estesi e più facili
poteri al presidente del Consiglio funzionerà anche per la decisione sull’impiego delle
Forze Armate e sulla guerra, e la sovranità popolare sarà completamente esclusa dalla
decisione sulla pace e sulla guerra.

Il principio internazionalista
V – Il quinto principio supremo abbandonato nella riforma è il principio
internazionalista, perché in tutte le nuove norme che riguardano la formazione e
l’attuazione delle prescrizioni dell’Unione Europea non c’è il minimo accenno ad una
intenzione riformatrice degli stessi Trattati Europei per guardare al di là dell’Europa
ai fini della costruzione di un ordine di pace e di giustizia fra le Nazioni.
Inoltre non c’è il minimo accenno a una riforma del diritto di asilo e a
un’accoglienza degli stranieri e dei migranti secondo le nuove dimensioni del
fenomeno che secondo alcune stime arriverà a coinvolgere 250 milioni di profughi, di
fuggiaschi, di rifugiati nell’anno 2050.
Né c’è il minimo accenno all’ultima discriminazione che una Costituzione
democratica dovrebbe abolire: la discriminazione della cittadinanza, la quale limita i
diritti fondamentali e l’esercizio dei diritti politici e sociali ai soli cittadini, con
l’esclusione degli stranieri. Una vera riforma del Senato sarebbe una riforma che non
ne facesse l’ultima trincea dei vecchi localismi, ma ne facesse un Senato dei popoli,
dove sedessero i rappresentanti non solo dei cittadini, ma delle persone di tutte le
nazioni, le lingue e le culture che abitano in Italia e dormono sotto il suo cielo.

REFERENDUM & SANITA’ TRA PROPAGANDA E REALTA’

La Calabria, la Sicilia, la Campania  avrebbero un servizio sanitario con prestazioni  impresentabili a causa del Titolo V della Costituzione. Non scherziamo e non diciamo sciocchezze propagandistiche: con il titolo V Regioni come Emilia Romagna, Toscana, Veneto hanno realizzato Servizi Sanitari regionali  di buona qualità sempre in presenza dello stesso Titolo V. In questi ragionamenti c’è qualcosa che non funziona: chi ha amministrato male non si nasconda dietro l’alibi del titolo V° !!

Riportiamo un pezzo di propaganda un pò dozzinale:

“Con la vittoria del sì al referendum e la riforma del Titolo V della Costituzione, non ci saranno più differenze tra Regioni in tema di sanità e ci sarà un accesso all’articolo 32 della Costituzione (che tutela il diritto alla salute a tutti i cittadini) uguale in tutto il Paese. “ [ , Questa affermazione della ministra è quanto meno ardita: sarebbero state le Regioni ad ostacolare l’attuazione dell’art.32 o, invece le risorse scarse, le ruberie e la cattiva amministrazione di alcune Regioni…..]

Ad affermarlo è il ministro della Sanità, Beatrice Lorenzin.”Abbiamo sentito dire per 17 anni che il tema vero del non funzionamento delle Regioni in Italia per quanto riguarda il tema della sanità era dovuto e causato dal titolo V. Finalmente il Titolo V si cambia, non ci saranno più materie concorrenti (una parte esclusiva dello Stato e una parte esclusiva delle Regioni). Cosa significa nella vita di un cittadino? Vi faccio un esempio: oggi è la giornata del diabete. Un paziente di diabete che sta male e si ammala in una città di una regione italiana, in quella determinata Asl ha in questo momento un percorso diagnostico diverso, un accesso alle terapie diverso, in alcuni posti ci sono centri di riferimento del diabete, in altri no. Questo, se cambia il Titolo V della Costituzione, non sarà più così perchè i piani diagnostici e terapeutici sono normativa generale dello Stato e per il bene comune della persona e le Regioni dovranno applicare delle disposizioni che il Ministero farà in modo concordato e ci sarà un accesso all’articolo 32 della Costituzione uguale in tutto il Paese” fonte ASKANEWS

Il problema non è  quello della omogeneizzazione portata avanti dallo stato centrale: i protocolli diagnostico curativi sono ormai definiti a livello internazionale . Il modo di curare il diabete come dice la Lorenzin non è definito a livello regionale o nazionale, vi sono comunità di pratiche professionali dei diabetologi che definiscono i protocolli  a livello internazionale, ma questa nozione non sembra essere a conoscenza della ministra. Il MinIstero abbasserà i piani diagnostico terapeutici omogeneizzando al ribasso gli standard, si apriranno conflitti con le regioni più avanzate che si sono date servizi di eccellenza. Altro che articolo 32, qui si gioca il ridimensionamento del SSN.

Il problema della centralizzazione della gestione della sanità ha un altro obiettivo, quello della governance della spesa al massimo ribasso per cui non vi sarà più spazio nel servizio pubblico per certe eccellenze  che si sono date alcune regioni come Emilia Romagna Toscana Veneto . La prospettiva è quella di un Servizio sanitario standardizzato povero di risorse,  destinato ai poveri, una specie di Medicare di basso profilo per rispondere ad una domanda debole e incapace di fare rispettare i propri diritti alla salute e alla cura. Per la parte di popolazione con un reddito superiore ai 60 , 70 mila euro saranno offerte polizze  che includeranno le prestazioni ora offerte dal SSN . A  questo serve la centralizzazione del comando in sanità. Quindi dietro la balla delle diseguagliaze generate dal Titolo V*  è sotteso un altro disegno , quello della privatizzazione di fatto del SSN, e l’apertura al business assicurativo delle polizze sanità. Rispondere SI al referendum vuol dire accelerare questo processo di decostruzione del SSN e fare un grande favore alle  grandi compagnie Assicurative …. Questa è la vera eterogenesi dei fini che ispira il disegno di “riforma” della Costituzione.

Il Titolo V°  va sicuramente cambiato ma non nel modo rozzo e maldestro previsto nel testo di “riforma”

PER QUESTI MOTIVI, PER RICOSTRUIRE UN SSN EFFICIENTE BISOGNA VOTARE NO !! E CAMBIARE PRESTO MINISTRO DELLA SANITA’

 

 

Brasil vive ‘processo de violência contra a democracia’, diz Lula

fonte Redebrasilatual.com-br  che ringraziamo

Ex-presidente é entrevistado pelo cineasta Oliver Stone e relata as “combinações perfeitas” que levaram ao golpe contra Dilma Rousseff e a criminalização do PT
por Fernando Morais publicado 12/11/2016 14:55
NocauteTV / reprodução

lula_oliver_stone2.jpg

Lula, entrevistado por Oliver Stone e Nocaute: ‘terão que ir pra rua disputar comigo’

Nocaute – Em visita ao Brasil para o lançamento de seu filme “Snowden”, o cineasta norte-americano Oliver Stone, ganhador de três Oscar, visitou o ex-presidente Lula, com quem almoçou e a quem entrevistou com exclusividade para o Nocaute.

O próprio Lula inicia a conversa, lembrando a Oliver de um encontro anterior que teve com o cineasta, na Venezuela, quando então a América Latina tinha em Lula, Néstor Kirchner e Hugo Chávez o “o trio que tentava organizar” o continente e que seria desfeito em pouco tempo à frente, especialmente após a morte dos líderes da Argentina e Venezuela, respectivamente.

Na primeira parte da entrevista, Stone ouve de Lula sobre o momento político brasileiro, como se construiu a deposição de Dilma Rousseff e a campanha de criminalização do PT, visando sobretudo a inviabilização de sua candidatura em 2018.

Leia trechos:

Lula: Quando nós dois nos encontramos em Caracas, não, em Maracaibo, era um momento de muito otimismo na América Latina. Nós acreditávamos que estávamos construindo uma estrutura política mais prolongada. Mas aí veio a morte do Chávez, a morte do Kirchner, a minha saída da Presidência. E aí o trio que tentava organizar a América do Sul não existia mais. Foi uma pena. Uma pena. E eu sei que você tinha muita esperança, muita expectativa, mas precisamos começar tudo outra vez. Eu queria lhe dar os parabéns pelo novo filme, espero que tenha muito sucesso, como os outros. Bem vindo ao Brasil.

Obrigado. (…) Eu gostaria muito de ver o senhor ser presidente novamente.

Olha, temos uma guerra aqui no Brasil. No Brasil aconteceu um processo de violência contra a democracia. Há todo um trabalho de construção de uma teoria mentirosa para justificar o afastamento da Dilma e a criminalização do PT.

Eu fico pensando: não teria sentido eles darem o golpe parlamentar que deram e dois anos depois me devolverem a Presidência!

Eu acho que, neste momento, eles trabalham com a ideia de tentar evitar que eu tenha qualquer possibilidade de participar das eleições de 2018. E como eles não podem evitar a decisão do povo, eles estão tentando via Poder Judiciário.

Há uma quantidade enorme de mentiras, as coisas mais absurdas, quem nem uma criança de parque infantil admitiria. E há uma combinação perfeita da imprensa, da Policia Federal e do Ministério Público que constroem, cada um a seu tempo, as mentiras. Só para você ter ideia, de março a agosto o principal canal de televisão aqui do Brasil, no seu principal jornal, teve 14 horas de matéria negativa contra mim. Em cinco meses.

A Rede Globo?

E eu não sei como é que vai terminar, porque eu tenho desafiado eles a provar que algum empresário tenha me dado dinheiro. Eu vou até pedir ajuda pra CIA, para ver se conseguem descobrir uma conta minha no exterior (risos).

Agora, por falta de prova, eles dizem o seguinte: não peçam provas, porque o Lula criou um partido, esse partido é uma organização criminosa, o Lula indicou os ministros para roubar, portanto Lula é o chefe. Eu não tenho provas, eles dizem. Nós não temos provas, mas temos convicção.

Então o que deixa eles preocupados é que quando eles fazem pesquisa de opinião pública eu apareço em primeiro lugar para 2018. Então eu não sei como é que vai ficar. Por enquanto, paciência.

O senhor tem grandes parceiros com quem pode contar, que lhe deem apoio?

Nós entramos com um processo nas Nações Unidas, em Genebra, temos um movimento sindical internacional fazendo campanhas de denúncias, e vamos trabalhar agora os processos juridicamente.

Assista a segunda parte: “Se quiserem me derrotar vão ter que ir pra rua disputar comigo”:

Participaram da entrevista Maximilien Arvelaiz e Gala Dahlet

Democratiche e democratici di Modena: perché diciamo no alla riforma costituzionale

Siamo democratiche e democratici, iscritti ed elettori del Pd, collocati nel vasto campo delle diverse culture politiche della sinistra, del centrosinistra e della cittadinanza attiva da cui lo stesso Pd è nato, decisi a prendere le distanze dalla Riforma Costituzionale oggetto del Referendum del 4 dicembre prossimo.

Non ci convince una riforma che si poteva e doveva fare meglio. Si poteva semplificare senza ridurre la rappresentanza e rendere più efficiente il potere esecutivo senza depauperare le autonomie regionali e locali. Lo diciamo dall’Emilia-Romagna, culla dell’”autonomismo solidale”: una regione che si è sviluppata ed è progredita grazie alle capacità di generare in continuazione progetti e innovazione, resi possibili dalla capacità delle Istituzioni locali, dai Comuni alla Regione, di accrescere e valorizzare le peculiarità e le potenzialità economiche, civili, sociali e culturali dei nostri territori, facendo sistema e senza mai dimenticare i principi della democrazia, del rapporto con i cittadini e con i corpi intermedi di rappresentanza.

Non si tratta di ragionare sulla bontà del superamento del bicameralismo paritario, su cui in pochi hanno avanzato dubbi. Si tratta, piuttosto, di riaffermare, da un lato, equilibri e garanzie istituzionali proprie di un sistema parlamentare più democratico, e dall’altro, prerogative e capacità decisionali della Regione, nella chiarezza e nel rispetto dei compiti propri tra lo Stato e le autonomie locali. Il nostro è quindi un No al disegno centralistico che figura nella riforma; un disegno che, depotenziando il potere dei territori e dei cittadini, si traduce in una regressione della qualità della democrazia rispetto a quello attuale.

Il nostro NO è perché vogliamo una riforma davvero efficace e incisiva. Se fosse vero che è “meglio cambiare comunque piuttosto che stare fermi”, non avremmo dovuto votare negativamente al referendum costituzionale del 2006. E invece, dicemmo No sulla base di una valutazione di merito, perché il cambiamento non è un valore in sé. È un valore se aiuta a risolvere i problemi alla base della crisi economica, sociale e democratica che viviamo oramai da troppi anni.

Votiamo NO perché non ci convince un Senato come quello delineato nella Riforma, che non è un Senato delle autonomie perché non ha abbastanza potere su materie fondamentali per le autonomie, come le aree vaste, il coordinamento della finanza pubblica e dei tributi fra livelli di governo, i costi e i fabbisogni standard.

Votiamo NO perché non vi è garanzia che, con la Riforma, i senatori saranno legati a un rapporto diretto, di fiducia, con i cittadini dei loro territori e non rappresenteranno piuttosto i partiti da cui saranno nominati.

Votiamo NO perché questa riforma genererà ulteriore caos nelle Istituzioni. L’assenza di un meccanismo di conciliazione per i casi in cui Camera e Senato non trovino un accordo sulle importanti materie su cui resta il bicameralismo paritario – trattati europei, riforma costituzionale, ordinamento dei comuni, ecc. – può generare situazioni molto pericolose di stallo istituzionale.

Non ci convince la vulgata che spiega la riforma alla luce della riduzione dei costi della politica, che si sarebbe potuta ottenere con una semplice riduzione dei parlamentari, perché si traduce in un approccio populista e demagogico, che non aiuta un corretto confronto democratico e che favorisce chi sulla demagogia e sulla anti-politica ha costruito le sue fortune elettorali.

Votiamo NO perché la nuova legge elettorale (il cosiddetto Italicum) che, al netto di “aperture”, in questi molti mesi non si è voluto realmente cambiare, combinata con la Riforma Costituzionale, comporterà un vero e proprio stravolgimento della forma di democrazia parlamentare, concentrando il potere nelle mani del governo e di chi lo guida, attribuendo ad un unico partito (che potrebbe essere espressione di una ristretta minoranza di elettori) sia il potere esecutivo che il potere legislativo, per di più con l’iniziativa legislativa che passa dal Parlamento al Governo.

Votiamo NO perché c’è un serio problema di metodo e merito politico: la grave violazione dell’articolo 3 del Manifesto dei Valori del Pd che recita: “La sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza, che essa non è alla mercé della maggioranza del momento, e resta la fonte di legittimazione e di limitazione di tutti i poteri. Il Partito Democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difenderne la stabilità, a metter fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza”, Noi abbiamo fondato o abbiamo aderito a quel Pd e non abbiamo cambiato idea!

Per queste ragioni ci impegneremo nella campagna referendaria per il NO in autonomia e in collaborazione con i Comitati esistenti e creando occasioni per approfondire il merito della questione.

Il nostro è un NO a viso aperto che non gioca su ambiguità politiche e retropensieri, che entra nel merito della sfida referendaria, separandola con nettezza dalle questioni che riguardano l’attuale governo.

Siamo convinti che la nostra scelta, compiuta in coerenza con i nostri ideali e con lo spirito della Costituzione, dia linfa al Pd, al suo costitutivo pluralismo e alla sua nativa connotazione di centrosinistra. Del resto, sulla Costituzione ciascuno di noi è chiamato, come dice lo Statuto del Pd, a decidere nello spirito costituente, prima di tutto da cittadino e da cittadina.

Primo elenco di firmatari< – strong>
Maria Cecilia Guerra, Senatrice Pd
Luciano Guerzoni, Vice Presidente Nazionale ANPI-Ex Senatore
Paolo Trande, Consigliere Comunale Modena-Direzione Regionale Pd
Riccardo Orlandi, Direzione provinciale Pd
Ivan Alboresi, Consigliere Comunale Pd Formigine
Carmelo Belardo, Segretario di Circolo Pd (Modena) – Presidente Quartiere 2
Lorenzo Campana, Consigliere Comunale Pd Nonantola
Renzo Catucci, Consigliere Comunale Pd Sassuolo
Sandra Mattioli, Pd “San Faustino” – Assemblea regionale
Michele Stortini, Segretario di Circolo Pd (Modena)
Michele Andreana, Ex Consigliere Comunale di Modena
Claudio Andreoli, Ex iscritto – Ex Volontario Feste
Sergio Ansaloni, Pd “San Faustino” Modena
Simone Barbieri, Assicuratore – Elettore Pd Modena
Danilo Barbieri, Pd “Buon Pastore” – Militante
Greta Barbolini, Dirigente associativo
Rita Bellei, Consigliera Comunale Nonantola – Vice-Segretaria Circolo
Gianluca Bellentani, Pd Formigine
Gabriele Bettelli, Iscritto al Circolo Pd “Buon Pastore”. Osservatorio APS
Valeria Biancolini, Iscritta Pd “san Lazzaro-Modena Est”
Massimo Bigarelli, Medico – Modena
Gerardo Bisaccia, Dirigente Associativo
Annamaria Borghi, ex iscritta – Volontaria Feste
Roberto Bonfatti, Pd “San Faustino”
Maurizio Borsari, Ex Assessore Modena – Dirigente cooperazione in pensione
Pier Paolo Borsari, Pd Nonantola – Ex Sindaco di Nonantola
Vanna Borsari, Pd Formigine
Paolo Bosi, Docente UNIMORE
Vanis Bruni
Rolando Bussi, Pd “Centro Storico”
Sonia Canadè, Consigliera Comunale Nonantola
Raffaele Caterino, Dott. in scienze della Cultura – Studioso della storia della sinistra
Fausto Cigni, Pd “San Lazzaro-Modena Est” – Assemblea Cittadina Pd, Modena
Salvatore Colucci, Comitati di Circolo Formigine
Renato Cocchi
Giorgio Cozza, Ex iscritto Pd – Pensionato
Ivan Debbi, Pd “San Faustino” Modena
Enrico Gallo, Capogruppo in Quartiere 4 – Assemblea Provinciale Pd
Giorgio Gasparini, Pd Bastiglia – Ex vice-sindaco di Bastiglia
Roberto Gasparini, Consigliere Comunale-Capogruppo – Vice-Segretario Pd, Bastiglia
Ruben Gasparini, Direttivo Circolo Pd “Crocetta”
Ettore Ghidoni, Pensionato, ex dirigente cooperativo, volontario CGIL
Gigi Giordani, Direttivo Pd Pavullo
Maria Paola Guerra, Docente UNIMORE
Daniele Guzzinati, Pd Medolla – Ex Assessore
Gianlorenzo Ingrami, Direzione Pd Sassuolo
Michele Lacirignola, Medico – Modena
Michele Lalla, Docente UNIMORE
Mauro Malavasi, Pd “San Faustino” Modena
Marco Malferrari, Consigliere Comunale Pd Modena
Stefania Marchesi, Dirigente Associativo
Mauro Masetti, Funzionario cooperazione – ex segretario Pd Centro Storico
Tonino Mazzucchelli
Pasquale Palermiti, Militante
Angelo Panzetti, Pd Nonantola
Arnaldo Parmeggiani, Iscritto Pd Modena
Brunella Piccinini, Direttivo Circolo Pd “Crocetta”
Antonio Rossi, Consigliere Comunale “Lista Civica Pistoni” Sassuolo
Enrico Rinaldi, Circolo Pd “San Faustino” – Storico Volontario Feste
Giovanni Romagnoli, Ex Assessore Modena e regionale
Uliana Roncagli, Ex iscritta-Ex Volontaria Feste
Armando Rossi, Pd “San Faustino”
Leda Roversi, Pd “Buon Pastore” – Assemblea Provinciale
Sergio Rusticali, Assemblea Cittadina Pd Modena
Gina Sacchetti, Volontaria SPI – CGIL
Mario Scianti, Elettore – Ex Funzionario pubblico in pensione
Loretta Sgarbi, Volontaria SPI-CGIL
Valentina Solfrini, Pd Castelnuovo Rangone
Luca Sitta, Segretario Circolo Tematico Modena
Nadia Soliani, Pd Modena
Enio Superbi, Direttivo provinciale ANPI – Direttivo Pd Finale Emilia
Vincenzo Walter Stella, Consigliere Comunale Modena – Segretario di Circolo
Giovanni Stigliano, Ex assessore ed ex segretario Pd Bomporto
Simone Tazzioli, Segreteria Pd Sassuolo
Luciano Tomassia, Pd “Buon Pastore” – Storico Volontario Feste
Rita Tonus, Consigliere Pd Q2 Modena
Gianni Tosi, Pd “San lazzaro-Modena Est”
Patrizia Villani, Ex Segretaria Circolo – Direzione provinciale Pd
Lauro Vignudelli, Segretario di Circolo Pd (Modena)
Ivan Zanni, Pensionato – Modena
Gigliola Zanni, Elettrice – Modena
Mauro Zanni, Ex iscritto Pd San Cesario SP
Tiziano Zanni, Direttivo Pd Sant’Agnese
Romano Zanotti, Direttivo Pd “San Lazzaro”
Alfredo Zetti, Pd “Crocetta” – Assemblea Cittadina
Alberto Zini, Elettore – Consulente del Lavoro – Docente Unimor

Con Trump e la politica in pezzi teniamo ferma la garanzia della Costituzione di Raniero La Valle

Raniero La Valle

Discorso tenuto il 9 novembre nell’Auditorium Fabia Gardinazzi di Viadana (Mantova).

Il 9 novembre al Centro Sociale di Salerno ho partecipato a un incontro sul referendum il cui titolo era: “Le ragioni del Sì, quelle del No, le ragioni del dubbio”.
Il prof. Alfonso Conte che mi interrogava mi ha rivolto una domanda cruciale: “davvero se si vota Sì si innesca una deriva autoritaria, ed è a rischio la stessa democrazia? E si può pensare che un Renzi, che cita La Pira e vanta una formazione da scout, proponga una riforma che è contro i poveri e manca di lealtà verso la democrazia?”.
A questa domanda ho risposto appellandomi alla terza delle tre ipotesi in discussione: le
ragioni del dubbio.
Non è certo che con la nuova Costituzione della Boschi e di Renzi si prepari un futuro
autoritario e che la democrazia vada perduta. E’ vero, si diminuiscono le difese e si aprono dei varchi, ma non si può dare per certo che la democrazia perisca, né che, al contrario, essa continui e si rafforzi. Sulla scorta delle analisi dei maggiori costituzionalisti, è lecito il dubbio; anzi proprio il dubbio è la posizione più ragionevole.
Ma il problema è: quando sono in gioco la democrazia, la pace sociale, i giusti rapporti tra il popolo e il potere, possiamo permetterci il dubbio? Noi sappiamo bene quanto questi valori, di recente acquisiti, siano costati, in lotte, dolori e sangue; sappiamo quanto sia vitale che mai più siano perduti e sappiamo che cosa essi valgano per noi e per i nostri figli, proprio i figli a beneficio dei quali si dice che sarebbero fatte “le riforme”. Possiamo giocare d’azzardo, mettere sul tavolo verde democrazia e libertà, nel dubbio scommettere che il potere non abusi dei suoi nuovi artigli, in nome di procedure più stringenti e spicciative?
Se il dubbio non è rimosso (e non è nemmeno il cambiamento della legge elettorale che
potrebbe scioglierlo) e la democrazia è a rischio, occorre far ricorso, al principio di precauzione che è quello che si deve adottare quando sono in gioco valori supremi, come la stessa vita. E’ questo ad esempio il principio che viene invocato nelle discussioni sul futuro della terra, quando si dibatte se davvero il sovvertimento climatico provocato dall’uomo possa mettere fine alla vita sulla terra: nel dubbio, e prima che l’irreparabile accada, responsabilità vuole che si faccia la scelta dettata dal principio di precauzione; devono essere bloccate o diminuite le possibilità stesse che ciò accada.

Questa scelta di responsabilità tanto più deve essere fatta quando con l’elezione di Trump in America tutte le previsioni, anche le più scontate, sono saltate; il fallimento della globalizzazione (che è in realtà il nuovo nome del capitalismo), l’incapacità della politica a dare risposte al problema di 62 milioni di fuggiaschi, di profughi e di migranti gettati nel mondo, stanno provocando reazioni angosciose negli elettorati e hanno aperto una nuova fase nella storia del mondo, in cui tutto è possibile.
Non sono colpite le ideologie, ma la vita, le case, gli ambienti vitali, il futuro delle persone.
Guerra ed esodo, che ci sono sempre stati, stanno assumendo, con la loro pervasività universale, caratteristiche nuove e distruttive non solo delle cose, ma del nucleo più profondo della personalità umana.
Una psicoterapeuta, adusa alla frequentazione di queste sofferenze, Anna Sabatini Scalmati, così ha evocato questi due fenomeni in una relazione a un convegno su “Psicoanalisi e luoghi del trauma sociale”, tenutosi il 22 ottobre a Lecce.
“Nelle aree di guerra – ha detto Anna Sabatini – la morte lavora all’ingrosso, conta il
numero dei ‘colpiti’ con cifre a più zeri, annienta la vita psichica; i bombardamenti trasformano in cumuli di macerie i luoghi di culto; i monumenti – rimandi culturali eretti a memoria di eventi fondativi della comunità; le abitazioni civili, gli edifici che il contratto sociale ha eretto a protezione della vita: ospedali, scuole, palazzi della politica, istituti culturali, ecc…
“La guerra mette tra parentesi l’interdetto delle tavole della legge, rende lecito l’uccidere,
ottunde l’autorevolezza dei garanti metasociali, svilisce la Dichiarazione universale dei Diritti.
Distrugge le infrastrutture: la rete idrica, elettrica, i ponti e le linee di comunicazione. Semina la terra con mine antiuomo, rende insicure l’agricoltura e la pastorizia: antiche, primarie fonti di sussistenza.
“La guerra opacizza il lutto. Dei bombardamenti si conosce il numero approssimativo dei morti; ma il macroscopico oblitera il microscopico. Si piangono i singoli, non le migliaia; più il numero è grande, più l’individuo, la singolarità, l’unicità della sua esperienza, scompare.
“Sulla scia della guerra avanza lo spettro della fame e l’alito malsano della miseria.
L’angoscia si duplica e macula l’orizzonte di paure.
“La paura discende dal cielo che – da regno del sole e della luna, da reggia dell’olimpo, del dio delle religioni monoteiste, a cui per millenni l’umanità ha offerto sacrifici, rivolto preghiere, bruciato incenso e tratti presagi dal volo degli uccelli – è divenuto un inverecondo arsenale di morte. Dai suoi spazi solcati da fortezze volanti – F16, droni, caccia, ecc. – precipitano sulla terra uragani di bombe.
“La paura sgorga dal mare sulle cui acque navigano portaerei, sottomarini atomici.
“La paura abita la terra ove avanzano rombanti le truppe amiche e nemiche e, nei luoghi ove
pulsa la vita quotidiana, esplodono i kamikaze.
“Paure che sopravanzano ogni pensiero, tingono di vergogna l’immagine dell’umano che reca la morte a sé e al simile, rendono nefasta la stanzialità e impossibile la continuità della vita sulla terra degli antenati. La paura rizza la pelle e nel contempo chiede di prendere atto della realtà, di ciò che non si può pensare fino in fondo: abbandonare la terra, la casa, le mura che, mute testimoni dei linguaggi affettivi, dei progetti dell’intimità coniugale, dai vagiti dei nuovi nati, hanno protetto il sonno dopo pesanti ore di lavoro e assistito al ‘supremo scolorir del sembiante’ di coloro che vi sono deceduti. Abbandonare la casa, pelle seconda, esterna, pregna di proiezioni, consce e meno, del proprio ‘Io/ambiente/mondo, è una decisione lacerante.
“La sopravvivenza, la razionalità, suggerisce la fuga, ma la mente – appesantita da oscure paure – fa fatica a sostenerla. Si preparano i fagotti, si serrano le porte, ma le gambe tremano, un’inedita vulnerabilità le soverchia; uno stato di insensatezza dissolve il senso dell’esistenza”.
E riguardo allo sradicamento di uomini e donne in fuga dalla loro patria, e al rifiuto di
accoglierli, la relatrice dice: “Non indignarsi di fronte ai fatti che sbarrano la strada alle popolazioni in fuga da una morte certa ci spoglia di ogni innocenza.

Tra le vittime e gli oppressori, sottolinea Escobar, ‘tra chi fa e chi guarda non c’è un confine netto, ma un’area grigia nella quale gli ‘innocenti’ rischiano di
trasformarsi in complici. Si tratta di un rischio che riguarda tutti, e che a tutti tocca di valutare’.
“L’imponente flusso dei profughi dei nostri giorni avanza con rischi che l’intera comunità è chiamata ad affrontare affinché le diversità culturali non degenerino in metastasi sociali e non umilino con divieti paranoici – no al Burqa, no al Burqini – la comunità. Lo ‘spettro che si aggira per l’Europa’, non è l’umanità in cerca di salvezza, ma l’intolleranza verso l’altro, il diverso.
Intolleranza che corrompe le coscienze, virus che con inattesa rapidità infetta intere nazioni e rende il vicino di ieri il nemico di oggi”.
E chi deve rispondere, chi deve curare queste patologie? Gli psicanalisti? I medici? Le
guardie di frontiera, la protezione civile? No, la politica; solo la politica può correggere i guasti della globalizzazione, può aver ragione della guerra, può dare risposte al dramma di un’umanità che è una, ma che oggi è divisa tra residenti e profughi, tra stanziali e fuggiaschi, tra cittadini e stranieri, tra necessari ed esuberi, tra presi e scartati. La politica, e naturalmente le Costituzioni e, più ancora, il costituzionalismo, sono le grandi risorse di cui ci siamo dotati per maneggiare le crisi.
Resta la domanda: si può pensare che riformatori che vengono da tradizioni democratiche, da esperienze cristiane, da ideologie di sinistra, con le loro ostinate proposte di riforma vogliano mettere a rischio costituzionalismo e democrazia?
Respingendo qui la tentazione del dubbio, si può rispondere di no. Però spesso in politica c’è un’eterogenesi dei fini. Per calcoli sbagliati, o incauti, o un’insufficiente etica pubblica, si può aprire la strada a esiti non voluti. A vedere certe esibizioni sul referendum, soprattutto quelle televisive, si direbbe che questa riforma sia più frutto di ignoranza che di cattiveria. Ma questo rende ancora più doverosa l’adozione del principio di precauzione, e tanto più dopo la vittoria di Trump, che mostra che cosa succede quando a governare sono le banche e il denaro, e la gente cerca un’altra offerta politica. E se le offerte politiche alternative non sono all’altezza della sfida, come ultima difesa resta la Costituzione.
Chi ha il potere e maldestramente lo usa, può finire, e condurre altri, dove non voleva. C’è una figura famosa in letteratura che è quella dell’apprendista stregone. Quando ero giovane non ero abbastanza colto da aver letto la ballata di Goethe L’apprendista stregone ispirata a un testo di Luciano di Samosata, però fui colpito dal film Fantasia di Walt Disney, in cui l’incauto apprendista per rubare il mestiere al maestro stregone mise in movimento delle forze incontrollabili che non fu più in grado di far rientrare nell’ordine. Anche se gli apprendisti stregoni sono in buona fede, basta un No per impedire loro di nuocere.
Raniero La Valle

Referendum/Generale Fabio Mini: “No a riforma che sottrae al Parlamento decisione su dichiarazione di guerra”

FONTE LIBERTAEGIUSTIZIA.IT  CHE RINGRAZIAMO . EDITOR

 

Intervista di Rossella Guadagnini al generale Fabio Mini (*)

Riforme, democrazia, governabilità e inganni. Ne parliamo con una voce fuori dal coro, un uomo che per 46 anni è stato nelle Forze Armate e oggi si definisce molto progressista. Ci racconta di una legge ‘immaginaria’ e di un Parlamento ‘defraudato’, di una maggioranza non rappresentativa del Paese e di una ‘guerra fredda interna’ all’Italia. Di spazi informativi pubblici a favore del marketing governativo e di una grande festa della dis-unità a cui, volenti o no, siamo tutti invitati.

D. Generale Fabio Mini cosa pensa delle riforme costituzionali?

R. Non sono contrario alle riforme costituzionali, ma sono nettamente contrario a questa riforma. Respingo il sillogismo che chi vota “sì” vuole un’Italia “efficiente, stabile e responsabile, e quindi capace di esercitare il suo ruolo in Europa” e chi vota No vuole “un’Italia idiosincratica ed eccentrica, eternamente prigioniera delle proprie ombre”. E’ un sillogismo apodittico che squalifica sul piano intellettuale chi lo propone e offende chi non lo condivide. E’ il primo segnale che la riforma proposta intende dividere gli italiani ed io penso invece che una Costituzione debba unire i cittadini.

D. Il fronte del No è molto variegato e ispirato da ideologie addirittura opposte: come si conciliano?

R. Personalmente, mi schiero con il No proposto da un Movimento di cittadini e non da un partito, mi riconosco negli idealisti e non negli ideologi, nelle persone responsabili che pensano al futuro dell’Italia unita e non in coloro che operano per dividerla ulteriormente e  intendono affondare la nave per assumere il comando di una scialuppa. Non condivido l’obiezione che il No sia improponibile perché voluto anche da partiti e movimenti d’ispirazione fascista, veterocomunista, populista e quant’altro, che vogliono soltanto la caduta del governo. Non condivido le loro finalità, ideologie e prassi, ma riconosco legittime e fondate alcune delle loro motivazioni. Sono infatti queste comuni motivazioni a fare del No un fronte trasversale espressione di molte anime, e non di un pensiero unico, e quindi – nel suo complesso – essenzialmente democratico.

D. Con il No cosa succederebbe al Governo ?

R. Non collego il No alla caduta del Governo. Penso che sia stata una grossa sciocchezza legare il Referendum alla sopravvivenza politica del capo del Governo: un narcisismo inopportuno che non è finito con la tardiva e strumentale ammissione dell’errore. Anzi è stato fatto qualcosa di peggio, perché tutto l’esecutivo, a partire dal suo vertice, ha riversato sull’Italia la prospettiva di fallimento e sfascio nazionale in caso di prevalenza del No, alimentando così la disunione all’interno e i sospetti d’instabilità nazionale all’esterno. Viste le conseguenze in campo internazionale e nella speculazione economica a danno dell’Italia, questa operazione, in altri tempi e Stati, sarebbe stata considerata e perseguita come “Alto tradimento”. Da noi è una “furbata”. Dopo il voto ciascuna parte politica dovrà trarre le conclusioni e agire di conseguenza, ma se il Referendum non realizza una massiccia affluenza alle urne nessuno potrà veramente cantare vittoria: avrà perso l’Italia. E il conteggio dei voti dovrà far riflettere invece di far gioire. La prevalenza risicata del “si” inasprirà ancor di più il clima politico e indurrà il Governo a irrigidirsi su posizioni non condivise. Secondo me, tutto questo porterà nel giro di breve tempo alla fine dell’esecutivo o della stessa legislatura. Se dovesse prevalere il No, tecnicamente sarebbe soltanto il rinvio della Riforma e con questo Parlamento il Governo potrebbe restare in carica fino al termine di legislatura. Ma gli equilibri politici sarebbero mutati e il Governo non potrebbe imporsi sul Parlamento come ora. Non è detto che questo sia necessariamente un male. Inoltre, se oggi il No di altri gruppi tende solo allo sfascio del Governo bisogna riflettere sulle ragioni e le responsabilità di tale atteggiamento. In questi ultimi anni il dissenso democratico non ha avuto né attenzione né alternativa onorevole. Quando quasi mezzo Parlamento è costretto a lasciare l’aula, per non essere coinvolto in uno schema  che non condivide e i restanti festeggiano come allo stadio, si celebra l’effimera vittoria di una parte e si detta il necrologio della democrazia.

D. Entrando nel merito della riforma, perché vota NO?

R. E’ stato detto che questa riforma, “dopo un dibattito trentennale infruttuoso e controverso”, era diventata improcrastinabile. Non è stato detto che la controversia non derivava dalla carenza di norme, ma dalla necessità (riconosciuta dalle stesse commissioni bilaterali e da tutti gli altri proponenti di riforme alla Costituzione) di procedere alle riforme con il più largo consenso delle forze politiche. Lo stesso meccanismo dell’articolo 138 della Costituzione, prevedendo più esami incrociati tra Camera e Senato, cauti passi successivi e tempi di riflessione intendeva promuovere un largo consenso. Tant’è che nel caso esso fosse venuto a mancare si prevedeva la possibilità di ricorrere alla consultazione diretta del popolo. Ora, si è arrivati a questa riforma pasticciata e opaca perché invece di ricercare il largo consenso si è preferito imporre la volontà di una maggioranza non rappresentativa della Nazione. Abbiamo assistito a manovre di qualsiasi genere, a ricatti politici, disinformazione, emarginazione dei dissidenti o soltanto dei non favorevoli, sostituzione di membri di commissioni parlamentari scomodi, agitazione di spauracchi, promesse populistiche, ghigliottine, canguri, sedute fiume e molto altro. Di peggio è avvenuto nell’ombra. La forma non è stata violata, ma il metodo si è rivelato ingiusto e scorretto perché nel frattempo la rappresentatività parlamentare e governativa era passata, con successive “porcate” e “leggi incostituzionali”,  dal sistema proporzionale a quello maggioritario a sbarramento. E soprattutto perché le finalità della riforma erano e rimangono tanto confuse da giustificare ogni sospetto di manipolazione.

D. Lo ritiene un fenomeno nuovo?

R. No, ma nel passato, quando gli obiettivi delle riforme costituzionali erano chiari, puntuali e condivisi sono state promulgate leggi costituzionali senza difficoltà. Dal 1948 ad oggi sono state approvate 38 leggi costituzionali tra cui provvedimenti importanti come le pari opportunità, l’abolizione della pena di morte anche per i reati militari in tempo di guerra, il voto degli italiani all’estero, l’estradizione per delitti di genocidio, il giusto processo, il pareggio di bilancio ecc. I problemi si sono posti quando le riforme si presentavano strumentali o soltanto imparziali e soprattutto quando rispecchiavano interessi di potere particolari e clientelari.

D. La riforma vorrebbe snellire la burocrazia legislativa, ridurre i costi della politica.

R. Purtroppo questa riforma non snellisce e non fa risparmiare. Si sarebbe invece risparmiato molto utilizzando strumenti legislativi ordinari senza scomodare la Costituzione. E anche ammettendo che ci sia qualche risparmio sul piano contabile, la riforma comporta costi enormi  in credibilità delle istituzioni, bilanciamento dei poteri e quindi in democrazia. Non sono costi teorici o morali, a ognuno di tali elementi sono collegate pratiche politiche e amministrative che se non adeguatamente controllate generano corruzione, sprechi, abusi di potere, imposizioni di tasse esose, aumento del debito e dissoluzione dei rapporti di fiducia tra Stato e cittadini. E’ vero, ci è stato detto che   “Abbiamo bisogno di capacità decisionali e di procedimenti legislativi più rapidi e non di un sistema immaginato e pensato a quei tempi, in cui forse si credeva si dovesse decidere raramente”. Ebbene, dobbiamo ricordare che  la rapidità non è sinonimo di migliore qualità o efficacia dei provvedimenti. Anzi. Siamo ancora impantanati  nei problemi creati dalla fretta dei governi e dalle loro false priorità. Inoltre, il sarcasmo fuori posto è sempre una forma di denigrazione e, in questa frase, è chiara la volontà di delegittimare un’Italia che i denigratori  non hanno né conosciuto né studiato.

D. Cosa trascurano?

R. Più che trascurare, in realtà non sanno e quindi non possono nemmeno ricordare. Questo progetto fa parte dello schema di rottamazione non di ciò che non funziona, ma di ciò che non si conosce. Siccome l’ignoranza è molta, non deve stupire che la cosiddetta rottamazione colpisca a vanvera in molti settori. Se i denigratori non possono ricordare, potrebbero ascoltare, ma di solito l’ignoranza va di pari passo con l’arroganza e perciò bisogna accontentarsi di dire cose che non ascolteranno mai. Noi però possiamo ricordare che quel sistema immaginato nel 1948 è stato realizzato e ha preso le decisioni più difficili della nostra storia. Con successi e insuccessi abbiamo recuperato credibilità internazionale, risollevato l’economia, affrontato emergenze naturali senza scandali, combattuto il terrorismo e la mafia, ristrutturato le Forze Armate e le abbiamo spedite in ogni angolo della Terra a rappresentare l’Italia e abbiamo raggiunto il quarto posto fra sette delle maggiori economie (G-7). Poi, con una breve stagione di “decisionisti” e  fantasiosi innovatori abbiamo decuplicato il debito nazionale, aumentato la disoccupazione e il precariato, diminuito la nostra competitività. Infine, grazie alle virtù taumaturgiche del mercato, dei tecnocrati e dei rottamatori abbiamo centuplicato il debito e siamo stati malamente coinvolti in una crisi che non ci avrebbe riguardato così da vicino, se non avessimo avuto immaginifici finanzieri di Stato e speculatori privati rivolti esclusivamente allo sfruttamento delle bolle finanziarie.

D. E oggi come siamo messi?

R. Andiamo a votare per una legge veramente immaginaria e siamo più deboli in Europa, sminuiti nella capacità di sicurezza,  succubi delle decisioni altrui, allontanati dai tavoli di discussione globali ed europei, ultimi nella graduatoria del G7, incapaci di provvedere al rilancio dell’economia e costretti ad elemosinare non denaro (che nessuno regala), ma la possibilità di fare altri debiti. Non si può addossare la responsabilità di tutto questo solo al sistema bicamerale o ai governi del passato. Negli ultimi dieci anni sono state approvate più leggi richieste dal Governo che quelle promosse dal Parlamento. In alcuni periodi delle legislature passate e di quella presente si è legiferato con le procedure di urgenza su cose che non erano affatto urgenti, si sono blindate leggi e leggine d’iniziativa governativa (109 in questa legislatura), facendo ricorso eccessivo ai colpi di maggioranza, alle deleghe al governo (13 a quello attuale su temi  fondamentali come lavoro, scuola, comunicazione pubblica ecc.) e al voto di fiducia al governo (ben 56 volte negli ultimi due anni e mezzo). Oggi non andiamo a votare per migliorare, ma per  istituzionalizzare un Parlamento defraudato del potere legislativo e assoggettato al potere esecutivo molto di più di quanto non lo sia già ora.

D. Un altro elemento su cui insistono i fautori della riforma è la governabilità. Argomento convincente, a suo parere?

R. La “governabilità è ormai un dogma. Ma non è un’invenzione di oggi. Il tema è stato sollevato per primo da Bettino Craxi (fine anni ‘70), quando con i voti di un partito largamente minoritario voleva guidare per sempre l’intero Paese. Non a caso parlava di governi di legislatura (che stessero al governo “certamente” almeno per turni di 5 anni) o di “governo presidenziale”, pensando di diventare presidente. Ma i governi erano comunque coalizioni di grandi partiti che godevano anche dell’appoggio esterno di alcune opposizioni. La democrazia non era in pericolo, semmai era evidente l’insofferenza di un leader carismatico nei confronti dei grandi partiti. Lo stesso tema fu affrontato da Spadolini nel 1982 in maniera geniale, anche se inattuabile. Anche lui leader carismatico, esponente di un partito abbondantemente minoritario, ma giuridicamente molto più preparato di Craxi, individuò il collante fra le coalizioni, non nell’egemonia del partito più numeroso, ma in una presunta forza istituzionale del Presidente del Consiglio. Di fatto, sostituiva la forza dei partiti con la forza del ruolo di Capo del Governo. Intendeva istituire il “regime del primo ministro” al posto del “regime dei partiti”. “Perché -diceva- il governo della Repubblica deve governare anche per chi gli vota contro, anche per i senza partito, anche per gli extraparlamentari, anche per chi ancora non vota e voterà domani». Era una proposta al limite della liceità costituzionale e valeva finché ci si credeva. Ma lui era Spadolini e governò a modo suo, non per molto, ma senza modificare una sola virgola della Costituzione. Nel caso si fosse resa necessaria una riforma, Spadolini ebbe a dire: “Il governo ricercherà sempre con l’opposizione lo “idem sentire de Constitutione”. Questa riforma è lontana anni luce dall’idem sentire di Spadolini e di tutti i Padri costituenti. Non vuole eliminare “il regime dei partiti”, ma istituire il regime di un partito, anche se oggettivamente non maggioritario, come lo sono tutti i grandi partiti di oggi.

D. E’ stato detto che la riforma è necessaria per realizzare “un processo organico di riforma in grado di razionalizzare in modo compiuto il complesso sistema di governo multilivello articolato tra Unione Europea, Stato e Autonomie territoriali”.

R. Magari lo fosse, e magari fosse stato spiegato chiaramente cosa sarebbe necessario. E’ stato invece raffazzonato un discorso che parla di razionalizzare “alla luce dei provvedimenti già presi in relazione allo spostamento del baricentro decisionale connesso alla forte accelerazione del processo di integrazione europea e, in particolare, l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea (da cui sono discesi, tra l’altro, l’introduzione del Semestre europeo e la riforma del patto di stabilità e crescita) e alle relative stringenti regole di bilancio (quali le nuove regole del debito e della spesa); le sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto della competizione globale”. Sono parole testuali della proposta, ma più che un proposito, lo sproloquio sembra una “captatio benevolentiae” nei confronti dell’Europa. Una inutile piaggeria, che non ha più senso visto che l’integrazione europea è più lontana che mai, la governance europea è in crisi grazie anche agli atteggiamenti estemporanei del nostro governo (prima, durante e dopo Bratislava) e che nella cosiddetta riforma non c’è nulla che risponda alle sfide “dell’internazionalizzazione economica”. Oggi in campo internazionale siamo ad un livello di guerra fredda molto vicino alla guerra calda tra blocchi contrapposti, come nel 1946, in Europa, in Asia e quindi in tutto il mondo. Gli equilibri stanno cambiando rapidamente e in modo pressoché incontrollato. Gli stessi Stati Uniti non sanno dove andare e domani forse scopriranno di non voler e non poter andare da nessuna parte. Oggi, in Italia siamo sicuramente in piena guerra fredda interna: da vent’anni siamo prigionieri di una dicotomia fra destra e sinistra che ancora parla di comunismo e fascismo. Grazie all’arroganza di partiti personalizzati il Paese è spaccato apparentemente in due, ma sostanzialmente in cento pezzi.

D. E’ una questione che riguarda esclusivamente i partiti politici?

R. No, è dovuta anche all’avidità dei poteri economici, industriali e finanziari che sostengono i partiti per i propri interessi, i quali non necessariamente coincidono con l’interesse collettivo, meno che mai con il bene pubblico. Ma i partiti hanno un’aggravante: hanno interpretato l’articolo 49 della Costituzione come l’investitura di ciascuno di essi alla rilevanza costituzionale. Il segretario di un partito si sente – e di fatto è stato considerato dagli stessi presidenti della Repubblica – come un “organo costituzionale”. In realtà l’articolo 49 stabilisce la libertà dei cittadini di associarsi in partiti, ma non assegna a essi altra funzione se non quella di permettere che i cittadini concorrano con metodo democratico a determinare la politica nazionale. La rilevanza costituzionale è dei cittadini, non dei partiti. In realtà i tre partiti maggiori del panorama italiano non assicurano affatto il metodo democratico, ma quello monocratico o al massimo oligarchico, autoritario e personalizzato. Non danno alcuno spazio di dissenso al loro interno e sono da tempo impegnati in una delegittimazione reciproca che ha prodotto la sclerosi delle strutture interne e la completa sfiducia dei cittadini nella politica in generale.

D. Eppure questa riforma è passata con l’avallo del Parlamento.

R. Certo, ma non nella misura necessaria alla sua promulgazione. Tant’è che andiamo al Referendum proprio perché non è stato raggiunto l’accordo richiesto dalla stessa Costituzione. In compenso ci è stato detto che questa riforma ha rispettato tutti i parametri costituzionali e democratici. In realtà, l’iter di questa riforma, come quella bocciata nel 2006, è stato caratterizzato dalla prevalenza del metodo “a colpi di maggioranza”, abbandonando l’equilibrio previsto dalla Costituzione tra leggi “consensuali” e “maggioritarie”.  Si è invece rafforzata la presunta equivalenza fra principio democratico e principio maggioritario. Le modifiche alla Costituzione o alla forma di governo e della rappresentanza (come nel caso della legge elettorale) scaturiscono dalla convenienza della maggioranza di turno: nel periodo 2000-2015, ben nove (su dieci) leggi di revisione della Costituzione sono state approvate con i soli voti della maggioranza parlamentare, senza cercare larghe intese all’interno delle forze.

D. La nuova legge ha il sostegno di intellettuali, sindacalisti, forze economiche e finanziarie.

R. Non mi sorprende. Molti sono in buona fede perché attratti dal canto delle sirene sui risparmi e sulla limitazione dei politici o soltanto dalla voglia di punire il sistema o i partiti avversari. Alcuni poteri cosiddetti forti sono attratti dalla prospettiva di avere un governo a propria disposizione. Altri pensano alla pancia quotidiana e sostengono chi promette di più o elargisce elemosine elettorali. Qui il governo ha buon gioco perché è l’unico in grado di promettere, anche se sa benissimo di non poter mantenere. Ma è soltanto un escamotage che deve durare un mesetto ed è una sorta di competizione sleale perché gli oppositori, non essendo in campagna elettorale per la legislatura, non possono promettere niente altro che la fine del governo. Aumentando così l’incertezza di chi spera nei bonus e la diffidenza degli stranieri.

D. A detta dei fautori del Sì, non vengono alterate le Istituzioni democratiche. E’ così?

R. Secondo la definizione socio-economica più moderna e coerente, lo scopo di una “Istituzione” (e il Senato è una Istituzione) è quello di garantire la corretta applicazione delle  norme stabilite tra l’individuo e la società o tra l’individuo e lo Stato, sottraendole  all’arbitrio individuale e all’arbitrio del potere in generale (Haidar J.I.-2012). Ebbene, questa riforma nega e offende le Istituzioni democratiche: nei fatti stravolge l’impianto istituzionale dello Stato aumentando l’arbitrio individuale, o di un gruppo, e l’arbitrio del potere in generale. Il mio non è un giudizio teorico o di principio. Come uomo, soldato e cittadino con oltre 46 anni di servizio nell’ambito di una istituzione fondamentale come le Forze Armate, deputate alla difesa della Patria, anche in guerra, non posso condividere una riforma che sottrae al Parlamento la decisione sulla più drammatica evenienza di uno Stato: la dichiarazione di guerra. La norma proposta indica infatti nel Governo, attraverso la sua ovvia e artificiosa maggioranza monocamerale, il responsabile di tale decisione.

D. Ma la guerra non è un’evenienza remota?

R. E’ vero che sul piano pratico la cosa può sembrare ininfluente: nessuno più dichiara apertamente la guerra, ad eccezione degli Stati Uniti che ormai scendono in guerra per ogni cosa. Ma anche loro, pur chiamando ‘guerra’ qualsiasi sforzo interno ed internazionale, pur individuando nemici in ogni interlocutore, pur usando gli strumenti di guerra come prima risorsa d’emergenza e pur avendo inventato la guerra preventiva che non previene, ma anzi anticipa la guerra, sono ben attenti ad evitare con cura qualsiasi dichiarazione formale di guerra. Oggi, specialmente da parte dei Paesi europei e della Nato, la guerra si fa senza dichiararla o semplicemente cambiandone il nome. E, comunque, neppure l’impegno della Nato nella difesa collettiva (articolo 5 del Trattato) costringe in modo automatico ad intervenire con le armi. Ogni Paese membro può (e deve) scegliere in che maniera contribuire alla difesa collettiva.

Tuttavia, se la norma che equipara la dichiarazione di guerra a qualsiasi altro atto amministrativo può sembrare ininfluente sul piano pratico, non lo è affatto sul piano istituzionale e della filosofia del diritto. In questo caso, l’abolizione del bicameralismo perfetto è la chiara manifestazione della volontà di banalizzare il ruolo delle istituzioni a partire dall’atto più drammatico delle loro funzioni: la deliberazione sulla guerra. Il Parlamento riformato ha uno squilibrio a favore della Camera e questa, per effetto della legge elettorale maggioritaria e dei premi di maggioranza esagerati, ha uno squilibrio a favore del Governo. Di fatto, il nuovo Parlamento e lo stesso Governo cessano di essere organi legislativi rappresentativi di tutto il Paese e perdono la qualità fondamentale per autorizzare la guerra in nome del popolo italiano e quindi anche la facoltà di assumere ogni altra decisione che comporti analoghi sacrifici per tutta la popolazione e il trasferimento di risorse, poteri e funzioni da una istituzione all’altra.

D. Sono squilibri pericolosi ?

R. Nella sostanza sì. Se tali squilibri consentono di accelerare le decisioni del Governo in nome della cosiddetta governabilità, non è detto che favoriscano solo i provvedimenti giusti ed equanimi, adottati in nome e per conto del bene pubblico. Abbiamo continuamente esperienze di provvedimenti ad personam e a favore di gruppi di potere e di avventure che non hanno nulla a che vedere con il bene pubblico. Il Senato riformato  che non è più una Istituzione, perché non ha poteri equilibratori nell’ambito del Parlamento, è una costosa conferenza saltuaria di amministratori locali, la cui legittimazione nell’incarico “complementare” dipende dall’arbitrio di chi li ha  designati. Voto No all’eliminazione dell’equilibrio dei poteri e dei contrappesi istituzionali che di fatto conduce all’arbitrio del potere del partito di maggioranza del momento. Voto No al vilipendio delle istituzioni parlamentari (e non solo) esercitato da un partito che designa parlamentari e senatori non per esigenze di rappresentatività, ma per clientelismo e corruzione. Voto No perché non voglio essere rappresentato in Parlamento e nelle altre istituzioni nazionali ed europee da personaggi ignoranti, compromessi, immorali e pregiudicati. Abbiamo già vissuto il tempo del disprezzo nei confronti delle nostre Istituzioni  quando a occuparle venivano designati amici, clienti e compagni o compagne d’alcova. Me ne sono vergognato profondamente quando in campo internazionale, politico e militare, si lanciavano battutacce sui nostri governanti. Voto No perché ciò non si ripeta. E comunque non si ripeterà con il mio sostegno o la mia indifferenza.

D. Riflessioni come le sue hanno avuto la possibilità di raggiungere i cittadini?

R. Se lo hanno fatto non è certo per merito del Governo o della comunicazione pubblica. Ci avevano detto di voler rispettare le regole democratiche anche nella comunicazione. In realtà le voci di coloro che, come me, hanno servito lo Stato e difeso le istituzioni democratiche con disciplina e onore, e quelle di coloro che, come tantissimi,  hanno lavorato per l’Italia rappresentandone l’eccellenza culturale, tecnologica, economica, istituzionale e di solidarietà sono state soffocate dal vocio della propaganda di Stato. Ben prima della decisione di ricorrere al Referendum il Governo intero ha occupato tutti gli spazi di comunicazione, tramutando il legittimo sostegno a una propria proposta in bagarre affaristica e campagna ideologica a dispetto e scapito dell’equilibrio e dell’unità nazionale. Con il ricorso al referendum, la consultazione si è trasformata in una sfida tra sì e no, a prescindere da cosa significassero. C’è stata la conta degli amici e dei nemici, dei clienti riconoscenti e dei candidati a posti e poltrone accondiscendenti. La giusta perorazione della causa riformistica è stata volutamente personalizzata, fino a farla diventare una scommessa sulla stessa sopravvivenza del Governo. Come tutte le scommesse è stato un gioco, un azzardo, un bluff, un rischio e un ricatto sostenuti da una mobilitazione mediatica senza precedenti. Ogni canale di discussione moderata e costruttiva è stato occupato da comizi e spettacoli celebranti una grande festa della Dis-Unità. Gli spazi d’informazione pubblica (una risorsa di e per tutti) sono stati spesi (anche in senso economico) solo a favore del marketing governativo, in Italia e all’estero.

D. Come definirebbe la sua posizione, conservatrice o progressista?

R. Direi molto progressista. Esprimo il mio No a questa riforma  con spirito costruttivo, perché  non voglio che il mio Paese rimanga intrappolato in un sistema che assegna i poteri dello Stato a una maggioranza risicata e faziosa, frutto dell’allontanamento dei cittadini dalla politica, senza nessun organo di controllo e bilanciamento dei poteri. Mi è stato fatto osservare che in tutti i Paesi del mondo “va al comando” il partito di maggioranza relativa, e che l’evanescenza delle opposizioni non dipende dalla legge elettorale. E’ vero, e infatti non ho mai apprezzato il concetto di un partito “al comando”. I partiti dovrebbero essere al servizio della comunità, esattamente come le istituzioni, i governi e le amministrazioni pubbliche.

Ma anche dove i partiti godono di ampia maggioranza ci sono differenze sostanziali.  Ho vissuto abbastanza a lungo nei due paesi a sistemi opposti per capirne gli effetti: la democrazia americana e il regime del partito comunista cinese. La democrazia americana non è tale perché votano i cittadini, che fra l’altro non votano per eleggere l’uomo al comando, ma perché esistono istituzioni in grado di limitare gli abusi del potere. Il Congresso, a prescindere dalla maggioranza del momento, è il più feroce censore del potere esecutivo. La magistratura suprema segue a ruota, ma una serie di comitati parlamentari hanno poteri che possono indirizzare e raddrizzare la politica del governo. Inoltre, spesso sono gli stessi partiti, i media, le lobby e i comitati di cittadini a limitare i propri leader.

In Cina c’è un partito che occupa tutto e impone la propria politica a tutti. Si avvale di strutture legislative permanenti per gli affari correnti e di un’assemblea annuale dei rappresentanti del popolo per approvare le grandi leggi: si vota per alzata di mano su ogni proposta e si torna a lavorare. C’è anche una sorta di senato: è la Conferenza Consultiva che raggruppa i rappresentanti dei partiti, varie etnie, associazioni popolari, amministratori locali e personalità indipendenti. Non ha alcun potere effettivo ed è diretta dallo stesso Partito Comunista, che comunque la utilizza come foglia di fico per spacciare una parvenza di democrazia. In Cina il vero equilibrio fra i poteri e la garanzia di una dialettica politica si realizzano all’interno del partito stesso che è tutt’altro che monolitico o cristallizzato. L’ostentata ammirazione per il sistema americano da parte del nostro Governo è smentita proprio dalla riforma: il sistema che vuole instaurare con la riforma è lontanissimo da quello americano e vicinissimo al sistema cinese. Con due  differenze: da noi il partito di regime non assicura alcuna dialettica equilibratrice interna e i rappresentanti alla Camera bivaccano in permanenza a Roma.

D. E l’intervento popolare tramite il Referendum?

R. E’ importante ma non sarà determinante finché la partecipazione non sarà veramente significativa. Non si può ricorrere sempre ai referendum per colmare le incapacità della politica, anche perché gli stessi referendum costituzionali, che dovrebbero essere i più importanti, dimostrano la disaffezione popolare nei confronti della politica e s’indeboliscono nella capacità effettiva di rappresentare la Nazione. Alla prima consultazione referendaria sulla Costituzione della nostra storia, il 7 ottobre 2001,  si recò a votare solo il 34,1 % degli aventi diritto e i voti validamente espressi furono per il 64,2 % favorevoli alla modifica costituzionale: erano appena il 21% degli aventi diritto. Alla seconda, quella del 25-26 giugno 2006, votò il 52,30% degli aventi diritto e la legge voluta da Berlusconi fu respinta dal  61,32% dei votanti: appena il 32% degli aventi diritto.

D. Come riassumerebbe le sue motivazioni?

R. Voto No ad una riforma che spacca il paese e prelude ad una frattura ancora più ampia e pericolosa fatta di disprezzo per le Istituzioni, rigetto delle opposizioni, soppressione delle minoranze  e ghettizzazione delle intelligenze non allineate: tutti segni storicamente premonitori di dittatura e  guerra civile.

Voto No perché il sistema proposto è già in atto e non funziona, anzi mortifica le istituzioni e minaccia la democrazia. Soltanto con il No  si può pensare di rettificare questo stato di fatto e avviare la stagione delle riforme equilibrate ed efficaci.

Voto No perché il governo, qualunque esso sia, e le istituzioni nazionali a partire dal 5 dicembre si dedichino a risolvere i problemi strutturali  che gravano sulla nostra nazione, i problemi della ripresa economica, di compattazione sociale e di disaffezione politica e formuli  finalmente un progetto per riunire i cittadini italiani e le forze politiche attorno ad una Costituzione rinnovata ma condivisa.

Voto No oggi per avere domani (e non dopodomani) la possibilità di vedere una riforma seria e corretta.

Voto No perché mi si chiede di esprimermi con un monosillabo su un insieme di elementi disomogenei, appartenenti a materie molto diverse e  dagli effetti indecifrabili se non indagati dal punto di vista tecnico-giuridico. Invece di approfondire e sviscerare tali aspetti, mi si chiede di votare senza considerarli, quasi a voler nascondere il fatto che proprio tra essi  si annidano tutti gli elementi distruttivi e destabilizzanti della riforma. Mi si chiede un voto di fiducia cieca, ideologico, che non lascia a me, e a nessun cittadino libero di ragionare con la propria testa, altra alternativa che il No.

D. Secondo lei, è questa l’ultima occasione per fare le riforme?

R. Il No è l’ultima occasione per  stroncare sul nascere i propositi inaugurali di una stagione di continue ulteriori modifiche alla Costituzione, rese via via più facili e incontrollate da questa stessa riforma, tendenti a stravolgere completamente l’assetto istituzionale del nostro Stato. In questo senso, non mente chi dice che il 4 dicembre non è un traguardo finale, ma uno striscione di partenza. Tuttavia, soltanto con il No parte l’Italia Unita, di tutte le fedi e convinzioni, per riaffermare la Democrazia, la Giustizia e la Libertà volute da tutti gli Italiani che per esse hanno sofferto privazioni, vessazioni, torture e che per esse hanno versato il proprio sangue in guerra e in pace. In caso contrario, con il Sì,  parte la vera corsa al potere assoluto di una maggioranza di palazzo. Anche questa è stata una delle cause storiche delle dittature, delle guerre civili, dei colpi di stato, delle rivoluzioni.

 .

(*) Fabio Mini, generale di Corpo d’Armata, è stato capo di Stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa e, a partire dal gennaio 2001, ha guidato il Comando Interforze delle Operazioni nei Balcani. Dall’ottobre 2002 all’ottobre 2003 è stato comandante delle Operazioni di pace a guida Nato, nello scenario di guerra in Kosovo nell’ambito della missione KFOR (Kosovo Force).

 

Referendum costituzionale: perché voto NO – Pierre Carniti

simbolo NOPrescindo da molte delle critiche alla proposta di riforma costituzionale, già sollevate da costituzionalisti, commentatori e politici, che in larga parte condivido. Le ragioni specifiche che mi determinano a votare no sono fondamentalmente tre.

Primo. Gli articoli della costituzione possono ovviamente essere modificati. Non però all’ingrosso ma al minuto. Tema per tema, uno alla volta, con emendamenti soppressivi o correttivi. Per coinvolgere i cittadini consentendo loro di capire davvero la necessità e le ragioni del cambiamento di una norma. Ora invece si pretenderebbe di cambiare, in un colpo solo, oltre un terzo degli articoli della Carta.

Per quanto mi riguarda continuo a credere nella lezione di Dossetti (ricordata recentemente anche da Raniero La Valle) il quale non si stancava di spiegare che deve essere sempre cercata una corrispondenza tra la costituzione e lo spirito del Paese. Nel senso che le Costituzioni non precedono la società, ma ne sono l’espressione proiettata in avanti. La Costituzione del ’48 infatti fu la conseguenza della grande rigenerazione spirituale, sociale e culturale prodotta dall’immenso dolore della guerra, e da sentimenti di eguaglianza, libertà, dignità, solidarietà che erano radicati nelle masse prima di giungere alla formulazione costituzionale. Tuttavia, non si deve ritenere che solo i valori fossero legati allo spirito pubblico di quel tempo e non anche le scelte dei costituenti sulle forme e le regole del sistema politico.

Ad esempio, è evidente che il ritrovato pluralismo politico, affratellato nel sangue della Resistenza e nel percorso verso la costituente, faceva ritenere scontate, da non dovere essere nemmeno menzionate nel testo costituzionale, le modalità e le forme per la formazione della rappresentanza.

Né meno forte è stato il sentimento diffuso e la rivalsa tra il passaggio alla Repubblica e la forma politica che l’Italia aveva avuto fino ad allora Sentimento che trovava nel Parlamento la sua massima espressione simbolica e reale. Caduto il re il Parlamento era il sovrano. Ovvero la sovranità visibile del popolo. Per questo, proprio perché c’era stato un Senato del Regno doveva esserci un Senato della Repubblica. E poiché il Senato in precedenza era di nominati a vita doveva ora essere formato da eletti dal popolo, per realizzare non solo un parlamentarismo differenziato nel rapporto con il governo, ma anche nel rapporto con il territorio.

Oltre tutto c’erano pure delle ragioni più profonde che hanno spinto la Costituente a puntare su un parlamentarismo leale, forte e rappresentativo di tutta la società. La prima era il grande prestigio di cui era circondata la rappresentanza repubblicana che veniva dall’impegno politico antifascista, dal confino, dalle carceri, dalla clandestinità. Era una classe politica che, nella sua maggioranza conduceva vita austera, era mal pagata e non era sospettabile di intenzioni di carrierismo. La seconda era il rispetto e la stima che non solo circondava la rappresentanza politica, ma anche il legame di importanti masse popolari con i loro partiti e nello stesso tempo di reciproco rispetto, con marginali eccezioni, dei rappresentanti politici tra loro, pur essendo e restando avversari politici.

Basterà ricordare le parole di altissima considerazione che il partigiano Dossetti ebbe a pronunciare riferendo la testimonianza di un partigiano comunista del reggiano. Oppure il rapporto di amicizia, durato tutta la vita, di Zaccagnini con il comandante partigiano comunista Bulov. Infine c’era il senso comune che l’uscita dell’Italia dalla pesante situazione del dopoguerra era possibile con uno sforzo che richiedeva la rinuncia di ciascuno alla pretesa di attuare esclusivamente i propri interessi, le proprie idee personali, o di parte. Purtroppo da tempo questa armonia si è rotta.

Uno sviluppo economico sregolato e tumultuoso, un importante mutamento dei costumi, ripetuti sovvertimenti dell’ordine economico e politico internazionale ed infine lo tsunami mediatico hanno inaridito e reciso i legami sociali, senza che le grandi strutture religiose, sociali, culturali ed informative fornissero la linfa per rigenerarli.

Sicché né le culture politiche, né la dialettica politica quotidiana, né i comportamenti dei cittadini si sono dimostrati all’altezza delle nuove sfide. Non si sono saputo produrre analisi e proposte adeguate. Con la ammirevole eccezione di Papa Francesco, praticamente nessuno ha saputo contrastare il potere incontrastato del denaro, delle scandalose ineguaglianze, sia a livello mondiale che nazionale, dell’economia che uccide.

Quindi oggi la società è più barbara da quella in cui è stata concepita e realizzata la Costituzione del ’48. Secondo le statistiche europee in Italia ci sono 7 milioni di poveri. Ma sono solo dei numeri, non delle facce, delle dolorose storie personali e famigliari. La svalutazione del lavoro viene giustificata come strada obbligata per assicurare la competizione produttiva. Infine il primato della finanza e della speculazione rispetto all’economia reale continua e cresce sostanzialmente indisturbato. Al punto che sessantadue persone nel mondo vantano una ricchezza pari a quella di tre miliardi e mezzo di persone.

In questo quadro ci sono motivi per ritenere che la riforma costituzionale non posa nemmeno essere considerata una priorità assoluta. in ogni caso deve essere affrontata con estrema ponderazione e senso del limite. Il che non è quando ci si propone di riscrivere interamente la seconda parte della Costituzione. Cioè un pacchetto di 47 articoli. Dimenticando che le modifiche costituzionali non sono un semplice esercizio di scrittura. Oltre tutto in questo caso mal riuscito.

Teniamo presente che quando si scrive in un documento solenne come la Costituzione, nato dalla Resistenza e quindi dal sacrificio di tante vite umane, che la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli, che limitando di fatto l’eguaglianza tra le persone che non consentono l’effettiva partecipazione dei lavoratori alla vita economica, sociale, culturale, civile alla vita del paese, si è detto moltissimo. Praticamente tutto. Perché si è caricata la Repubblica di un impegno perenne, continuo. Non fosse altro perché si è data ad essa un traguardo ed un orizzonte che non è mai definitivamente e pienamente raggiungibile. Il che naturalmente nulla toglie al fatto che questo fine debba essere continuamente ed instancabilmente perseguito. Con il contributo dello Stato e la contestuale partecipazione dei gruppi sociali intermedi. In pratica dell’intera società.

Questa concezione spiega perché diversi padri costituenti si siano sempre opposti alle ricorrenti pretese di progetti di stravolgimento della Costituzione. Infatti, come molti ricorderanno, ciò si è verificato sia in rapporto al disegno definito “organico” elaborato dalla commissione Bicamerale presieduta da D’Alema, affossato prima di arrivare al voto parlamentare. Ed una decina di anni dopo al tentativo pericoloso e confuso del cantro-destra, definito a “blocchi” e riferito all’intera parte seconda della Costituzione, bocciato dal voto popolare. E’ opportuno richiamare questi precedenti perché un cambiamento integrale della seconda parte della Costituzione è stato riproposto dal governo, presentandolo come indispensabile, cruciale. Ed è appunto sulla sua proposta che il 4 dicembre si svolgerà il referendum.

L’aspetto che colpisce e preoccupa è che il premier ha considerato il percorso che si concluderà con il voto referendario “una occasione storica che va assolutamente colta” ed alla quale si lega la “vita del governo e della legislatura”, anche se successivamente ha in parte cambiato versione. Per altro, la domanda che ci si deve porre è: perché mai deve essere il governo ad assumersi il compito di formulare a far camminare una riforma costituzionale, al punto di ipotecare la vita del governo e la durata della legislatura?

Il fatto è che attorno al tema di una radicale revisione costituzionale si è da tempo concentrata una enfasi mediatica (con motivazioni diverse e, non di rado, opposte) al punto da farla considerare una questione ineludibile. Da qui la speranza (o l’illusione) per la maggioranza di governo di poterne lucrare popolarità e consenso. Di fronte a questo calcolo ritengo, per quanto li ho conosciuti, che cristiani di sinistra, “repubblicani” democratici ed autentici, come: Dossetti, La Pira, Lazzati, Don Mazzolari ed altri, non avrebbero esitato a rispondere con Luca (Lc 6, 26) “Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi!”. Ma forse erano, non solo altri tempi, ma soprattutto altri uomini. Con una tensione democratica ed una moralità politica pubblica, oggi largamente sconosciuta.

Secondo. Una scelta condivisa avrebbe potuto essere quella di concentrare il dibattito e la proposta di riforma su un solo punto: il superamento del bicameralismo perfetto. Anche se, per la verità, contrariamente a diffuse interpretazioni, analizzando i dati della produzione parlamentare, non sembra essere questa la causa principale dei ritardi legislativi. La spiegazione dell’impotenza e paralisi che spesso si verifica va piuttosto ricercata nelle contrapposizioni politiche ed interne ai vari gruppi parlamentari. In ogni caso su tale questione si sarebbe potuto, presumibilmente,                   realizzare un largo consenso. Invece, inserita nel calderone della riscrittura dell’intera seconda parte della Costituzione ne è sortito un obbrobrio. Nel senso che, secondo la proposta sottoposta a referendum il bicameralismo perfetto verrebbe sostituito da un bicameralismo confuso e pasticciato. Del resto basta leggere l’articolo relativo alle competenze del nuovo Senato (composto da Sindaci e da Consiglieri regionali, con il risultato che presumibilmente finiranno per non assolvere bene né l’uno né l’altro compito) per farsi una idea che quel garbuglio diventerà sopratutto fonte di contenziosi e di conflitti, rendendo ancora più e lunga e complicata l’attività legislativa.

Terzo. Il collegamento tra la riscrittura di 47 articoli della Costituzione e la legge elettorale (Italicum) desta comprensibilmente motivi, non solo di grave preoccupazione, ma anche di rigetto. La ragione è semplice. La legge elettorale ha infatti un carattere oligarchico che finirebbe per indebolire ulteriormente il già fragile tessuto democratico e l’indispensabile divisione dei poteri. Il premier che per diverso tempo l’ha difesa a spada tratta ora si dichiara disposto a discuterne ed eventualmente a modificarla. Al momento però non è chiaro se, come e quando ciò si verificherà. E, soprattutto, quali potranno essere i possibili esiti.

Sono quindi convinto che ci siano più che fondate ragioni per votare No al referendum del 4 dicembre.

 

Pierre Carniti

Roma, 2 ottobre 2016

In Europa i partiti di “sinistra” non rappresentano più il lavoro

Sinistra - Foto di Sel

di Vittorio Capecchi

In questo numero di Inchiesta i testi si interrogano sulla scomparsa del lavoro dalla politica e dalle istituzioni. Francesco Garibaldo ricostruisce il processo di aziendalizzazione delle relazioni sindacali e di involuzione aziendalistica dei sindacati in Europa.

Come scrive Garibaldo, “se i lavoratori possono essere rappresentati solo come parte dell’azienda, allora non esiste più un punto di vista, una ipotesi sul lavoro che sia rappresentativa del mondo del lavoro come soggetto collettivo; il che non significa che non vi siano più conflitti tra manager e lavoratori, ma essi riguardano quel mondo chiuso e quindi hanno sempre come limite la comune esigenza di combattere, come sottolinea Marchionne, per sopravvivere contro le altre imprese”. L’aziendalizzazione arriva a inglobare le materie del welfare e prepara “un’ulteriore escalation di privatizzazione dei servizi sociali”. Come sintetizza Garibaldo “il lavoro è depoliticizzato e de-istituzionalizzato”.

Il lavoro esce in Europa dai partiti di “sinistra” e come analizza Alessandro Somma, è profetico l’ultimo testo di Peter Mair (politologo irlandese morto nel 2011) che descrivere la politica che “governa il vuoto” avendo lasciato il potere all’economia delle banche e delle multinazionali. L’immagine di questa politica è quella descritta da Bruno Giorgini nell’incontro a Maranello: l’alleanza tra un Renzi a capo del “partito della nazione”, la Merkel, Marchionne ed Elkann. Luigi Vinci si pone l’interrogativo utilizzato per questo editoriale “Come è potuto accadere?” e parla di una politica europea “populista”, basata “sulla movimentazione di atteggiamenti e comportamenti popolari, sulla sfiducia nella politica e negli assetti istituzionali, sul rapporto diretto tra seguaci e leadership, sulla banalizzazione del discorso politico e sulla centralità del richiamo emotivo”.

Sono avvenute profonde trasformazioni sia nel rapporto capitale/lavoro che nel rapporto capitale/natura. Sul primo di questi rapporti Umberto Romagnoli sottolinea le difficoltà di un diritto del lavoro che si trova in una fase con prospettive, come in Italia, di “crescita zero” che coesistono con i successi di Industria 4.0 descritti da Matteo Gaddi. Le ricadute sulla salute e sulla sicurezza di chi lavora sono descritte da Gino Rubini. Marco Assennato, che analizza il quadro sindacale francese e le lotte che attraversano Parigi, vede la situazione attuale come risultato di una non convergenza delle lotte, convergenza “da cercarsi direttamente sul terreno metropolitano, nei servizi, nella logistica, sul territorio”. Da tener poi presente che quando si cerca di uscire dal modello neoliberista i contraccolpi politici sono immediati, come spiega Railidia Carvalho che descrive il veloce retrocedere dei diritti del lavoro nel Brasile del golpe portato avanti contro Dilma Rousseff da parte dell’apparato di potere industriale, che vuole un ritorno trionfale del neoliberismo messo in discussione da Lula.

Sulla relazione capitale-natura sono importanti le considerazioni di Mario Agostinelli dopo il Forum Sociale Mondiale di Montreal a cui ha partecipato e in questa direzione è anche il dossier curato da Laura Corradi che riflette sul libro scritto da lei insieme a Raewyn Connell, Il silenzio della terra, che rappresenta il punto di arrivo di una esplorazione ventennale nelle teorie sociali dei paesi non occidentali e nelle realtà aborigene, nel tentativo di imparare da esse mettendo al centro la terra.

Esiste ancora una sinistra?

Le analisi storiche e le diagnosi presentate nei saggi prima ricordati sembrerebbero convergere verso una risposta negativa, ma sia al livello internazionale che al livello nazionale vi sono risposte che mostrano scenari politici, economici e culturali alternativi al neoliberismo dominante.

Al livello internazionale sono importanti le iniziative e proposte che provengono dal Forum Sociale Mondiale descritto da Mario Agostinelli: cambiamenti nelle fonti energetiche, spostamento verso un sistema agricolo più localizzato ed ecologico, abolizione dei trattati commerciali che interferiscono con i tentativi di ricostruire le economie locali, accoglimento di rifugiati e migranti che cercano sicurezza e una vita migliore, introduzione di un reddito minimo universale, interruzione di sussidi ai combustibili fossili, tassazione sulle transazioni finanziarie, tasse più elevate per le corporation e per i ricchi, una tassa progressiva per il carbonio.

In questo scenario si collocano le iniziative politiche italiane di sinistra. La scomparsa di partiti che si riferiscano al lavoro come base sociale aumenta le responsabilità politiche del sindacati e della Fiom in particolare. Gianni Rinaldini delinea “un Sindacato Confederale, autonomo, indipendente e democratico, espressione di un progetto di cambiamento della società (..) che non può che essere fondato su un proprio progetto di cambiamento della società, da cui derivano le proprie compatibilità nella stessa iniziativa rivendicativa

Un Sindacato democratico nella vita dell’Organizzazione, nella forma e nella modalità di elezione dei gruppi dirigenti e nel rapporto democratico con l’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici. Da qui dovrebbe cominciare una vera discussione, senza ipocrisie ed infingimenti”. In questo scenario si muovono le iniziative della Fiom in materia di formazione raccontate da Giuseppe Ciarrocchi e Gabriele Polo e quelle descritte da Bruno Papignani (intervistato da Tommaso Cerusici) che analizza quattro temi di grande rilevanza: l’accordo raggiunto in Fincantieri, il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici, i referendum promossi dalla Cgil contro il Jobs Act e il referendum costituzionale.

Sull’esistenza di una sinistra in Italia e in Europa si muovono poi le interviste fatte in questo numero da Luciano Berselli a Paul Ginsborg e Sergio Labate (autori del libro Passioni e politica, uscito recentemente da Einaudi) e da Sergio Caserta a Laura Urbinati, impegnata nella campagna per il NO, da lei considerata una lotta essenziale “per la difesa della democrazia costituzionale”. La sinistra esiste ed è impegnata su più fronti.

Ordinare se stessi per governare il mondo

Questa frase proviene da un antico testo cinese di recente pubblicato in italiano, il Neiye (Neiye, Il tao dell’armonia interiore a cura di Amina Crisma, Garzanti 2016) ed è anche il senso profondo dell’intervento di Emilio Rebecchi in questo numero che ci invita a guardare dentro di noi se si vuole affrontare la complessità del reale e distinguere tra il buono e il cattivo. Il disegno riportato in questo editoriale è quello della mappa Loshu (una delle due mappe dell’Yijing, il Classico dei Mutamenti) impressa sulla tartaruga (simbolo di longevità) che naviga in acque difficili. E’ il mio personale augurio di longevità e cambiamento (Yi) per la sinistra.

Questo articolo è stato pubblicato da Inchiesta online l’8 novembre 2016 ed è l’editoriale di Inchiesta 193 (luglio-settembre 2016)

Dossetti, Berlusconi e Renzi

Don Giuseppe Dossettidi Sergio Caserta

“Sentinella quanto resto della notte?” la sentinella risponde “viene il mattino e poi anche la notte” (Isaia 21). Con queste parole ricavate dal Vangelo, Don Giuseppe Dossetti ormai avanti negli anni e malato, gettò il suo grido d’allarme all’indomani della vittoria elettorale di Silvio Berlusconi nel 1994. Il timore fondato del frate ex partigiano, era l’attacco alla Costituzione repubblicana, da parte di un potente agglomerato “economico finanziario che si trasforma in dominio politico”.

Invitò pertanto tutti i democratici a fondare comitati per la difesa della Costituzione che dopo la sua morte si denominarono appunto “Comitati Dossetti”. Se si rileggono le vicende del 1994 alla luce di quel che è accaduto dopo ed oggi, si comprende come quell’ avvertimento avesse un valore altamente politico e profetico e che oggi conserva tutta la sua stringente attualità.

Dossetti paventava e denunciava che l’ascesa al potere di Berlusconi, avrebbe potuto condurre a un premierato politico assoluto, creato dalla manipolazione dei media, cosa che puntualmente accadde attraverso l’acquisizione del pieno controllo della RAI da parte di Berlusconi (editto bulgaro e cacciata dei giornalisti scomodi), già proprietario di tre reti televisive. In cosa è cambiata la natura del potere di Renzi sui media?

Sostanzialmente applica il medesimo schema del suo predecessore e ispiratore ma lo estende e lo esaspera: impone la nomina di un amministratore delegato che risponde al governo e di un direttore fedelmente allineato per realizzare un pieno controllo del mezzo d’informazione pubblico, perfino di quello radiofonico, basta pensare a cosa sta diventando radio tre un tempo campione di autonomia culturale. Renzi più che Berlusconi ha costruito un sistema di potere che si basa su una fitta rete di alleanze con i poteri più forti, e in più, ciò che al Signore di Arcore è sempre mancato, il controllo pieno e la gestione di un partito politico vero, per quanto declinante, qual’è indiscutibilmente il PD.

Egli ha posto le condizioni per un regime personalistico di tipo carismatico che si prepara ad ottenere un controllo totale del Paese attraverso le modifiche della Costituzione e della legge elettorale. Il merito della riforma è noto ai lettori e non vale la pena di ripeterlo qui, ma sostanzialmente con una sola camera elettiva che da la fiducia al governo, una seconda camera di senatori nominati e a tempo molto parziale, con competenze limitate e confuse, una legge elettorale che concede un abnorme premio di maggioranza, tempi contingentati per approvare le leggi d’interesse del governo, un forte accentramento di competenze a danno delle regioni che vengono radicalmente espropriate delle funzioni legislative principali, il controllo pressoché totale dell’elezione del presidente della repubblica e dei giudici della corte costituzionale, non c’è paragone con il temuto “principato” vagheggiato da Dossetti riferito a Berlusconi che era a confronto ben poca cosa.

Qui si crea una repubblica presidenziale mascherata. I sostenitori del SI hanno avuto più volte l’arroganza di imputare la paternità della loro pessima proposta ai padri fondatori della Costituzione, alcuni dei quali avendo espresso una preferenze per un sistema monocamerale, sarebbero in sintonia con il progetto boschiano-renziano. Niente di più falso in particolare proprio per Dossetti che fu nella Costituente un protagonista di alcuni dei risultati più importanti per la definizione dell’assetto istituzionale complessivo.

Proprio per denunciare questa falsità e ristabilire la verità del coerente collegamento tra la battaglia di Dossetti e le ragioni del NO alla proposta di riforma costituzionale che sabato 12 novembre si svolge a Monteveglio in provincia di Bologna, un importante incontro”una Costituzione venuta dal futuro” sulla figura dell’insigne costituente, con la partecipazione di studiosi, ricercatori e amici autorevoli di Dossetti che ne ricorderanno la figura e l’opera, insieme alla rivendicazione dei valori costituzionali in nome dei quali ci si oppone al progetto di Renzi in difesa della repubblica parlamentare.

FONTE ILMANIFESTOBOLOGNA

Riccardo Petrella: La bella mela “costituzionale”. Grazie, NO

fonte Inchiestaonline che ringraziamo

Riccardo Petrella, professore  emerito dell’Università Cattolica di Lovanio e promotore dell’Università del Bene Comune ci ha inviato  questa favola della modernità del XXI° secolo, versione italiana.

La favola

C’era una volta una Repubblica italiana. I suoi cittadini erano fieri della loro Costituzione, dichiarata da un anfitrione nazionale – molto amato e stimato dal popolo – «la più bella Costituzione al mondo». Un giorno venne un principe, giovane, bello, soprattutto conquistatore. Pragmatico, spregiudicato. E forse per questo, agli occhi degli Italiani, accattivante, simpatico. Arrivò velocemente al potere politico massimo, senza esservi stato eletto, ma cooptato dai poteri forti. Voleva rottamare, diceva, il vecchio, l’inutile, i fossili. Trovò che una parte importante della Costituzione non era più all’altezza dei compiti assegnati ai decisori, in assonanza con i tempi. A diverse riprese manifestò sintomi d’insofferenza nei riguardi della Costituzione, criticata per non permettere al governo, a suo dire, di agire rapidamente senza tante discussioni ai vari livelli istituzionali e territoriali della rappresentanza eletta. Per riuscire nel suo intento «riformatore» (pardon, rottamatore) ebbe l’idea di sedurre il popolo italiano, offrendogli una bella mela, lucida, dai colori smaglianti, senza incrostazioni o foruncoli sulla buccia, perfettamente rotonda, in stato eccellente di maturazione: la mela del costo della politica. Mordere la mela avrebbe significato ridurre i costi della politica, soprattutto quelli della rappresentanza eletta, dare efficienza e velocità alle decisioni da parte di coloro che sanno e, soprattutto, che «hanno i numeri» (come è solito dire) per decidere (cioé, le chiavi del potere). Gli Italiani avrebbero guadagnato denaro, speso meno. Una manna. Difficile per gli Italiani resistere alla tentazione. Non sappiamo, però, ad oggi, com’é andata. Il futuro, assai prossimo, ce lo dirà.

Il racconto

Il 4 dicembre 2016, fra un mese, più di 30 milioni d’Italiani in età di votare dovranno rispondere SI o NO al seguito seguente:

«approvate……..

  • § le disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario
  • § la riduzione nel numero del parlamentari
  • § il contenimento dei costi del funzionamento delle istituzioni
  • § la soppressione del CNEL
  • § la revisione del Titolo V della Parte II della Costituzione ?

Da notare che la quinta proposta riguarda 47 articoli relativi ai rapporti tra Stato e Regioni (e collettività locali)

All’origine della favola della mela stanno due visioni della politica in quanto regolazione ed organizzazione del vivere insieme, fortemente impregnate da una cultura utilitarista e mercantile della società:

– la politica istituzionale è un’attività che comporta costi e benefici, e la sua utilità si dimostra quando i benefici misurabili quantitativamente (specie in termini monetari, per esempio sul piano fiscale) ma anche qualitativamente (certezza e qualità dei beni collettivi usufruibili e dei servizi resi) superano i costi ;

– lo Stato – in quanto insieme di istituzioni dotate di poteri legislativi, esecutivi e giudiziari – deve essere efficiente, efficace ed economico nell’esercizio delle sue funzioni, soprattutto nei confronti dei pagatori delle tasse (singoli cittadini, soggetti collettivi, imprese….) su cui si fondano le entrate dello Stato.

I cinque «semi» della mela renziana riflettono singolarmente e collettivamente le due visioni. Queste possono essere ricondotte ad una sola visione normativa: minori sono i costi della politica, più efficienti, efficaci, ed economici saranno il vivere insieme e «fare società», dal livello locale a quello mondiale. La politica si definisce e vale in funzione delle tre E (effcienza, efficacia, economicità).

I gruppi sociali dominanti degli Stati Uniti furono i primi a far entrare i costi della politica come tema centrale nell’agenda politica del mondo occidentale, fin dalla fine degli anni ’60, ancor prima del reaganismo e del thathcerismo. Penso, in particolare, al presidente americano Lyndon Johnson e il suo progetto per l’America The Great Society. Centrato, per ragioni di evidente comunicazione politica, su «la guerra alla povertà», la proposta chiave consistette nella riforma privatista di quel poco di Stato del welfare ch’era stato messo in piedi dopo la grande crisi del 1929-33.

Di costi della politica in Italia si cominciò a parlare all’epoca dei governi di centro sinistra, sull’influenza delle tesi sulla terza via di infausta memoria alla Blair, alla Schroeder, alla Clinton, alla Prodi, e di cui uno degli esponenti massimi fu Giulio Amato, oggi membro della Consulta. Negli ultimi venti anni dobbiamo al «grande democratico ed uomo di Stato» che è Silvio Berlusconi (sic !) il fatto che il tema dei costi della politica ha continuato a dominare l’immaginario politico ed il dibattito ideologico e sociale nel nostro Paese.

La matassa ideologica e socio-culturale delle concezioni centrate sui costi della politica è integralmente presente nella mela renziana. Essa è snodata secondo il seguente intreccio.

Tempo 1. I costi della politica sono considerati esorbitanti e inaccettabili, si sostiene che lo Stato spende troppo al di là delle sue capacità e tassa troppo: lo Stato deve ridurre le spese e le tasse. Il governo Renzi è fiero di considerarsi il governo che ha ridotto le tasse in maniera più consistente e rapida dei governi precedenti. A tal fine, sostiene il governo, è necessario ridimensionare le spese di funzionamento delle istituzioni politiche, in particolare le istituzioni parlamentari. Da qui le due prime proposte offerte dalla mela renziana. Perché il governo Renzi dà la priorità alla riduzione dei costi delle istituzioni parlamentari?

Tempo 2. Lo Stato è accusato di essere inefficiente ed inefficace in un’epoca marcata da cambiamenti continui e rapidi, su scala mondiale, i quali domandano al potere politico tempi di decisione compatti, coerenti e rapidi. La democrazia parlamentare, le istituzioni della rappresentanza politica eletta, sono considerati dei fattori limitativi, bloccanti. All’era dell’informatica, della telematica e delle reti mondiali, la democrazia deve essere, si dice, efficace, ha bisogno di poteri esecutivi forti e non sottomessi alle instabilità e volatilità permanenti degli schieramenti partititici, sempre più sbriciolati, e dei giochi delle alleanze politiche ai vari livelli territoriali della rappresentanza eletta. Coerentemente a queste tesi, il governo Renzi ha addirittura tentato di evitare la ratificazione del trattato CETA da parte dei parlamenti nazionali degli Stati membri dell’UE (come previsto dai trattati costitutivi dell’UE) proponendo che fossero solo la Commissione europea ed il Parlamento europo a farlo. Per il nuovo principe, la democrazia rappresentativa eletta è un sistema del passato che necessita di ammodernamento, di snellimento, in un duplice senso: da un lato, della riduzione dei poteri legislativi e di controllo in mano alle istituzioni parlamentari e, dall’altro, della loro estensione e rafforzamento in mano all’esecutivo centrale (nazionale). Da qui anche le ultime due proposte che mirano a dare sempre maggiori poteri all’esecutivo.

Tempo 3. Il modello attuale di governo dello Stato, però, non è considerato costituire un modello capace di rendere le azioni dell’esecutivo, pur anche rinforzato, più efficienti, efficaci ed economiche. A tal fine , si afferma, occorre sgrassare lo Stato di tutte le attività economiche strategicamente importanti per la crescita dell’economia nazionale e della sua competitività sui mercati internazionali, per affidarle ai soggetti economici privati, quali le imprese, attraverso chiari processi di deregolazione, di liberalizzazione e di privatizzazione. La privatizzazione deve riguardare, in particolare, la gestione del ciclo integrale della preservazione, produzione, distribuzione, uso, trattamento e riciclaggio dell’insieme dei beni e dei servizi comuni essenziali per la vita ed il benessere collettivo, affidata nel passato ad imprese pubbliche (municipalizzate, aziende speciali) e finanziata dal denaro ubblico. Il Il modello pubblico di governo, si afferma, non funziona più, visto che lo Stato ha perso il controllo effettivo della moneta e della finanza, passato oramai in mano, per volontà degli Stati, ai mercati finanziari e alle istituzioni private politicamente indipendenti come la BCE (Banca Centrale Europea). Il governo Renzi considera favorevolmente i mutamenti sopraddetti, per cui stima che sia urgente e necessario mettere in piedi un «nuovo» modello di governo fondato sul principio che lo Stato deve uscire dal governo dell’economia, per affidarla ai soggetti ed ai meccanismi economici considerati « naturali», cioé le imprese e il mercato. In queste condizioni, la mela «costituzionale» del principe propone che il governo politico pubblico dell’economia fondato sulle istituzioni rappresentative elette deve essere trasformato in una «governance economica » fondata sul potere d’iniziativa legislativa, di decisione e di controllo da parte di tutti i portatori d’interesse (gli « stakeholders »). Secondo questa visione, i portatori d’interesse sono soggetti sia pubblici (gli Stati, le regioni, i parlamenti, i comuni…) che privati (le imprese, i sindacati, le fondazioni, le associazioni della società civile). Il luogo principale dell’incontro, dei dibattiti e delle deliberazioni deve essere, anche secondo il governo Renzi, aperto, libero, flessibile, cioé il mercato, da quello locale a quello mondiale. Per questo, dicono, la «governance economica» deve essere considerata il sistema di governo politico più efficiente, efficace ed economico dell’economia e della società. Si passa da una visione pubblica co-responsabile delle regole (il diritto) delle relazioni interindividuali e collettive del vivere insieme, e del «fare società» nell’interesse comune (sicurezza sociale per tutti) e giusto (Stato dei diritti), ad una visione contrattualistica privata di salvaguardia e di promozione degli interessi particolari in un contesto di rapporti di forza inuguali ed asimmetrici. La proposta di soppressione del CNEL è un esempio «minore» esterno ma simbolico di questo mutamento. Le tre prime poposte sono, invece, il segno sostanziale della natura profonda del passaggio dal governo pubblico fondato sulla rappresentnza eletta nel rispetto dei diritti dei cittadini alla « governance economica» fondata sui portatori d’interessi e sull’incontro/scontro tra interessi di forza inuguale. Siamo apertamente di fronte ad una «costituzionalizzazione» della privatizzazione del potere politico pubblico.

Con la buona pace di Eugenio Scalfari e del divertente Benigni, è difficile affermare onestamente che la nuova Costituzione sarà una buona Costituzione nell’interesse degli Italiani (Scalfari) e resterà la più bella Costituzione al mondo (Benigni) perché consacrerebbe il fatto che la democrazia sarebbe stata sempre e principalmente un sistema di oligarchie. Fortunatamente cio’ e falso, altrimenti che cose orribili sarebbero tutte le Costituzioni degli altri Paesi! Cosi, ci dicono, l’imperiosa necessità del passaggio alla governanza economica spîega l’importanza chiave della quinta proposta che restituisce allo Stato centrale, nel contesto del nuovo ruolo attraibuti allo Stato dalla globalizzazione economica, la competenza esclusiva su quasi tutte le competenze considerate dalla Costituzione  in vigore  concorrenti tra Stato e Regioni
. Secondo i gruppi dominanti, più lo Stato è snello  ed alleggerito e piu accentra le competenze regolatrici rimastegli, al servizio della « governanza economica »,  più esso congribuisce a rendere la governanza efficcae, efficiente ed economica. La stessa osservazione vale riguardo i Comuni che perdono definitivamente quei poteri che avevano costituito nel passato la grandezza e la forza «democratiche» dell’autonomia comunale.

Tempo 4 ed ultimo. È il tempo nel corso del quale i cinque semi della mela fanno agire il veleno «nascosto». È il tempo del non esplicito e del non diretto nell’offerta della mela. È il tempo della bella mela non ancora morsa ,ma i cui effetti potenziali sono stati «geneticamente» introdotti. Il veleno si trova iniettato nell’esaltazione che la mela fa dell’eccellenza, della performance, misurata dall’indice di competitività dell’economia nazionale e « locale », delle imprese, delle università e del sistema educativo, dei trasporti, degli ospedali, delle città, delle persone. L’indice di competitività è visto come l’espressione più potente della forza dell’eccellenza, e quindi la fonte della legittimità del merito. Così la mela promette che più un soggetto è competitivo e porta ricchezza alla crescita ed al benessere dell’economia del Paese, più i diritti ed il potere saranno accessibili. I diritti, dice la mela, si meritano. Mordendola si può ricevere la grazia di accedere ai diritti, in teoria universali, ed alla sovranità in quanto soggetto di storia, in teoria collettiva, condivisa, diffusa.

In futuro, se gli Italiani cedono alla tentazione di mangiare la mela, la Costituzione sarà effettivamente ribaltata: la società della sicurezza sociale generale sarà soppressa e lo Stato dei diritti sarà svuotato di senso. Nell’una come nell’altro la sicurezza e i diritti dovranno essere pagati a un prezzo abbordabile, secondo le « leggi » del mercato.

GRAZIE, NO. PROPONGO DI NON MANGIARE LA MELA !

Fonte Inchiestaonline

La riforma Renzi: un’aggressione alle garanzie costituzionali

di Luigi Ferrajoli

La tesi ripetuta con più insistenza dai sostenitori del Sì al referendum costituzionale è che la riforma non tocca la prima parte della Costituzione, cioè i diritti fondamentali e le garanzie, ma solo la seconda parte, dedicata all’ordinamento della Repubblica. Formalmente, questo è vero. Nella sostanza, purtroppo, è vero il contrario. Da questa riforma risultano indebolite tutte le garanzie costituzionali. Al punto che è legittimo il sospetto che proprio questo sia il suo principale obiettivo.

Grazie all’azione congiunta della riforma del Parlamento e della legge elettorale maggioritaria verrà infatti sostanzialmente soppresso quello che è il tratto distintivo delle costituzioni antifasciste del secondo dopoguerra: il loro ruolo di limitazione del potere politico e la stessa garanzia della rigidità costituzionale, cioè l’impossibilità di modificare la Costituzione se non con larghissime maggioranze. Domani, se questa riforma passerà, chi vincerà le elezioni entrerà in possesso, di fatto, dell’intero assetto costituzionale.

Ma le elezioni saranno vinte dalla maggiore minoranza: verosimilmente, da un partito o da una coalizione votati dal 25 o dal 30% dei votanti, corrispondenti, tenuto conto delle astensioni, al 15 o al 20% degli elettori. Grazie alla legge elettorale maggioritaria, questa infima minoranza otterrà la maggioranza assoluta dei seggi, con la quale potrà fare ciò che vuole, incluse le manomissioni della Carta costituzionale. Questo, del resto, è esattamente ciò che ha fatto la maggiore minoranza presente in questo Parlamento, approvando la sua riforma con la maggioranza fittizia conferitagli dal Porcellum dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale e sostanzialmente riprodotto dal cosiddetto Italicum.

Non solo. L’artificiosa maggioranza assoluta assegnata automaticamente e rigidamente alla maggiore minoranza consentirà al vincitore delle elezioni di eleggere da solo, a sua immagine e somiglianza, tutte le istituzioni di garanzia: il Presidente della Repubblica, i membri di nomina parlamentare della Corte costituzionale, del Consiglio Superiore della Magistratura e delle altre autorità cosiddette “indipendenti”.

L’intero sistema politico ne risulterà squilibrato per il venir meno di tutti gli checks and balances, cioè dell’intero sistema dei freni e contrappesi. Le istituzioni di garanzia non saranno più tali, cioè in grado di limitare e controllare i poteri di governo, ma saranno ridotte a espressioni della maggioranza e del suo governo e, di fatto, con questo solidali.

Ma l’aggressione ai diritti fondamentali, e in particolare ai diritti sociali – alla salute, all’istruzione, alla previdenza, alla sussistenza – potrà avvenire, come l’esperienza insegna ma come avverrà assai più agevolmente con questa nuova costituzione, anche senza alterare la prima parte del testo costituzionale. È infatti la “governabilità”, ripetono i sostenitori del SI, la grande conquista realizzata da questa riforma. Riservando la fiducia al governo alla sola Camera, nella quale la maggiore minoranza avrà automaticamente la maggioranza assoluta dei seggi, la sera delle elezioni sapremo non solo chi ha vinto, come ripetono i sostenitori della riforma, ma anche chi sarà il capo che ci governerà per cinque anni, senza limiti, né controlli né compromessi parlamentari.

Matteo Renzi ripete che non c’è nessuna norma nella riforma che aumenti i poteri del presidente del Consiglio. Di una simile norma, infatti, non c’è affatto bisogno, essendo l’aumento e la concentrazione dei poteri nel governo e nel suo capo l’ovvio risultato dell’esautorazione del Parlamento, della neutralizzazione delle istituzioni di garanzia e dell’indebolimento delle autonomie regionali.

Grazie a questo squilibrio nei rapporti tra i poteri, la nostra democrazia parlamentare si trasformerà in un sistema autocratico, verticalizzato e personalizzato, ben più di quanto accada in qualunque sistema presidenziale, per esempio gli Stati Uniti, dove è comunque garantita, oltre alla separazione tra Stati federati e governo federale, la totale indipendenza del Congresso dal Presidente e perciò la separazione del potere legislativo in capo al primo dal potere esecutivo in capo al secondo.

Domandiamoci allora, cosa vuol dire questa decantata governabilità? Può voler dire capacità di governo. In questo senso, certamente, la massima governabilità si è avuta nei primi 35 anni della Repubblica: allorquando – grazie a questa Costituzione, al sistema elettorale proporzionale, alla centralità e rappresentatività del Parlamento e, insieme, alla più forte opposizione e al conflitto di classe più aspro di tutto l’occidente capitalistico – è stata costruita la democrazia e lo Stato sociale e l’Italia, che era tra i paesi più poveri dell’Europa, è diventata la quinta o sesta potenza economica mondiale.

Ma “governabilità”, nel lessico politico odierno, vuol dire soltanto potere di comando, senza limiti dal basso, grazie alla smobilitazione sociale dei partiti, e senza limiti e vincoli dall’alto, grazie al venir meno dei freni e contrappesi e la scomparsa della Costituzione dall’orizzonte della politica. E’ questa la governabilità inseguita da 30 anni – prima da Craxi, poi da Berlusconi e oggi da Renzi – attraverso la semplificazione e la verticalizzazione dell’assetto costituzionale intorno al governo e al suo capo: una governabilità necessaria alla rapida e fedele esecuzione dei dettami dei mercati. E’ questo, e non altro, il senso delle riforme istituzionali di Matteo Renzi.

“Ce le chiede l’Europa”, ripetono i nuovi costituenti a proposito delle loro riforme. Ce le chiede l’ambasciatore degli Stati Uniti. Domandiamoci: perché? Perché mai i mercati, l’Unione Europea, gli Usa, le agenzie di rating, il gigante finanziario americano JP Morgan si preoccupano della riforma costituzionale italiana, delle nuove competenze del nostro Senato e della nostra legge elettorale? Sono gli stessi giornali e le stesse forze politiche schierate a sostegno del SI che confessano apertamente le finalità della riforma.

L’Europa, e tramite l’Europa i mercati, ci chiedono di sostituire alla centralità del Parlamento la centralità del governo e del suo capo perché solo così può realizzarsi questa agognata governabilità, cioè l’onnipotenza della politica nei confronti dei cittadini e dei loro diritti, necessaria perchè si realizzi la sua impotenza nei confronti dei grandi poteri economici e finanziari. Solo se avrà mani libere nei tagli alle spese sociali, il governo potrà trasformarsi in un fedele esecutore dei dettami di quei nuovi sovrani invisibili, anonimi e irresponsabili nei quali si sono trasformati i cosiddetti “mercati”.

Si capisce allora il nesso tra la lunga crisi della democrazia italiana nell’ultimo trentennio e l’aggressione alla Costituzione del 1948. All’aggravarsi di tutti gli aspetti della crisi – il discredito e lo sradicamento sociale dei partiti, la loro subalternità all’economia e alla finanza, l’opzione comune e sempre più esplicita per le controriforme in materia di lavoro e di stato sociale – ha fatto costantemente riscontro il progetto di indebolire il Parlamento e di rafforzare il governo tramite modifiche sempre più gravi delle leggi elettorali e della seconda parte della Costituzione repubblicana: dapprima, negli anni Ottanta, il progetto craxiano della “grande riforma”, poi i tentativi delle Commissioni Bozzi, De Mita-Jotti e D’Alema; poi l’aggressione ben più di fondo alla Costituzione da parte del governo Berlusconi con la riforma del 2005 bocciata dal referendum del giugno 2006 con il 61% dei voti; infine l’ultimo assalto da parte di questo governo.

Di nuovo, come sempre, ciò che accomuna tutti questi tentativi, oltre all’argomento della “governabilità”, è l’intento del ceto di governo di far ricadere sulla nostra carta costituzionale la responsabilità della propria inettitudine. Del resto queste riforme costituzionalizzano ciò che di fatto in gran parte è già avvenuto. Già oggi, tra decreti-legge, leggi delegate e leggi di iniziativa governativa, la schiacciante maggioranza delle leggi è di fonte governativa. Già oggi, grazie alle mani libere dei governi, si è prodotto un sostanziale processo decostituente in materia di lavoro e di diritti sociali, con l’abbattimento di quell’ultima garanzia della stabilità dei rapporti di lavoro che era l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, i tagli alla scuola e alla ricerca, il venir meno della gratuità della sanità pubblica e la monetizzazione di farmaci e visite che pesa soprattutto sui poveri, al punto che ben 11 milioni di persone nel 2015 hanno dovuto rinunciare alle cure.

Ebbene, l’attuale riforma equivale alla legittimazione popolare e al perfezionamento istituzionale di questo tipo di governabilità, nonché del processo decostituente che ne è seguito, interamente a spese dei soggetti più deboli. Si parla sempre del Pil come della sola misura della crescita e del benessere; mentre si tace sulla crescita delle disuguaglianze e della povertà e sul fatto che, per la prima volta nella storia della Repubblica, sono diminuite le aspettative di vita delle persone.

Dall’esito del referendum dipenderà dunque il futuro della nostra democrazia: la conservazione sul piano normativo e la rivendicazione popolare della restaurazione di fatto del suo carattere parlamentare, oppure la legittimazione e lo sviluppo dell’attuale deriva anti-parlamentare; la riaffermazione della sovranità popolare, oppure la consegna del sistema politico alla sovranità anonima, invisibile e irresponsabile dei mercati; la legittimazione del governo dell’economia e della finanza, oppure la riaffermazione e il rilancio del progetto costituzionale; lo sviluppo degli attuali processi decostituenti, oppure il rafforzamento, contro future aggressioni, della procedura di revisione costituzionale prevista dall’articolo 138, rivelatasi debolissima ed esposta a tutti gli strappi e a tutte le incursioni più avventurose nel nostro tessuto istituzionale.

fonte  ilmanifestobologna.it

4 dicembre: finanza e multinazionali votano sì. NOI NO!

Non una revisione, una sostituzione. Dalla semplice lettura del titolo: “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione” ci rendiamo conto che la riforma che il popolo italiano sarà chiamato ad approvare o a rifiutare con il referendum prossimo venturo non è una semplice legge di revisione della Costituzione. Si tratta di un intervento che modifica o sostituisce ben 47 articoli, realizzando in questo modo la sostituzione dell’ordinamento democratico previsto dalla Costituzione del 48 con un altro ordinamento, ispirato a principi e ragioni affatto differenti da quelle che avevano guidato i padri costituenti.

4 dicembre: finanza e multinazionali votano sì. NOI NO!

 

NO

Siamo ormai a cinque settimane dal voto del 4 dicembre sulla controriforma costituzionale del governo Renzi.

 Ed in queste cinque settimane ogni strumento sarà impiegato per “convincere” a votare sì: mance e promesse, spettri e paure, carote e bastoni.  Tutto l’armamentario manipolatorio sarà messo in campo, tutta la possibilità di disporre di spazi e risorse comunque superiori a quelli del No, dall’uso della comunicazione “istituzionale” per forzare le regole, agli strumenti che ha sempre in mano chi abita le stanze del potere. I sondaggi vanno presi con le molle, ma certo i tantissimi indecisi, ed i tantissimi che dichiarano di non conoscere o conoscere poco quello di cui si sta discutendo, offrono ampio margine al tentativo di far leva sulla spoliticizzazione diffusa, creando un “rumore di fondo” che porti infine ad un voto favorevole.

Del resto è palese come lo slittamento del referendum alle porte di Natale sia stato voluto da Renzi proprio per avere più tempo: settimane e giorni essenziali per recuperare sondaggi sfavorevoli ma con sufficienti margini di manovra.

Per questo motivo le prossime settimane devono davvero essere usate al meglio.

E’ stata molto importante la manifestazione di sabato scorso, riuscita oltre le aspettative, e saranno importanti le iniziative future già programmate. Sono due le necessità.  La prima è quella di concentrare il messaggio fondamentale, facendo vivere i contenuti del NO SOCIALE, oltre la manifestazione.   La seconda è quella di fare un salto di qualità nella capacità di mettere in campo un’iniziativa capillare, riuscendo a parlare con le persone una per una: in ogni territorio, paese, luogo di lavoro, caseggiato.

L’impegno in ogni ambito,  dai comitati per il NO, che rappresentano un patrimonio importantissimo di ricostruzione di relazioni concrete tra le persone, ad Altra Europa, alle iniziative che faremo autonomamente come partito, dovrebbe essere tutto indirizzato in questo senso.

Per questo è necessario programmare con cura volantinaggi diffusi, iniziative esterne nelle piazze, striscioni, presidi e tutta la creatività che serve per parlare fuori di noi, avendo come obiettivo non solo la parte della popolazione in contatto con la politica, quella che più facilmente viene alle iniziative, ma anche quella che non lo è, quella grande quantità di indecisi che può orientarsi all’ultimo minuto.

Per questo è utile riepilogare gli argomenti principali e “semplici” da usare per far capire qual è la posta in gioco, utilizzando tutte le conoscenze specifiche, i saperi più “tecnici” al servizio della comprensione dei nodi di fondo. Ed evitando invece i “tecnicismi” incomprensibili per i più.

Non si tratta di contrapporre un populismo buono ad uno cattivo, piuttosto di cercare di compiere quello stesso esercizio che fa la nostra Costituzione, scritta in modo che anche le questioni più complesse possano essere comprese da tutti, esempio concreto di “rimozione degli ostacoli” che impediscono l’uguaglianza delle persone. Proviamo a metterli in fila.

1. Questa “riforma” è stata dettata dalle elitès della finanza e dell’economia: banche e multinazionali. Va fatta conoscere il più possibile la dichiarazione contenuta nel famoso documento di J.P. Morgan, documento noto a chi è più consapevole, ma non alla maggior parte delle persone. Che la seconda più grande banche d’affari del mondo, la prima nel settore dei derivati cioè nella finanza speculativa, condannata per 13 miliardi per lo scandalo dei mutui sub-prime, abbia messo nero su bianco che andavano rottamate le Costituzioni dei paesi del Sud Europa perché prevedono “la tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori.. il diritto di protestare se sono proposte modifiche sgradite dello status quo.. esecutivi limitati nella loro azione dalle Costituzioni” è cosa che può parlare ad un’ampia parte della società. Raccoglie la giusta indignazione contro le elitès, esplicita il carattere inaccettabilmente autoritario di quel disegno, esplicita il legame tra l’attacco ai diritti sociali e l’attacco alla democrazia. J.P.Morgan è l’emblema di quello che vogliono oggi le grandi multinazionali dell’economia e della finanza: concentrare il potere nelle mani di pochi per fare gli interessi di pochi. Ed è chiarissimo quel messaggio quando dice che “il test chiave sarà in Italia.”

2. Va demistificata la propaganda sulla “velocità”. Forse che leggi come la controriforma Fornero delle pensioni, il Jobs Act, la “buona scuola” avrebbero dovuto essere approvate più rapidamente, eliminando persino la possibilità di costruire un’opposizione? I 70 giorni di tempo previsti dalla controriforma per approvare quelle leggi che il governo definirà  prioritarie, servono a impedire che le persone possano organizzarsi e lottare contro le leggi inique. Servono a rendere le istituzioni ancora più impermeabili al conflitto sociale. Servono esattamente per imporre “l’agenda delle riforme” neoliberiste, e per bloccare “il diritto di protestare”… ancora JPMorgan.

3. Si produce una centralizzazione delle decisioni politiche fortissima nel rapporto tra centro e territori. Si portano sotto la competenza esclusiva dello Stato materie come “produzione, trasporto, distribuzione dell’energia.. infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e navigazione.. promozione (e non più solo tutela) della concorrenza..porti e aereoporti.. beni paesaggistici.. governo del territorio…”. Viene introdotta la clausola di supremazia statale per consentire al governo di imporre politiche e progetti che contrastano con le comunità chiamate poi a subirne le conseguenze: sull’ambiente, la salute, l’assetto del territorio. Si prova a far rientrare dalla finestra quello che è uscito dalla porta, quando il deposito dei referendum sulle trivelle da parte di alcune regioni e di numerose associazioni ambientaliste, ha costretto il governo a modificare lo “Sblocca Italia” e rispetto alla dichiarazione di incostituzionalità dell’esclusione delle regioni dai processi decisionali in materia energetica ed infrastrutturale. E’ evidente la volontà di trovare corsie preferenziali per gli interessi forti contro gli interessi diffusi, per le lobbies energetiche e delle grandi opere e per i loro intrecci con la politica: chi non si ricorda delle dimissioni della ministra Guidi avrà presente l’arresto dei tangentisti di questi giorni! Sono gli stessi interessi che hanno indirizzato risorse ingentissime su progetti dannosi e inutili a scapito di ciò che sarebbe urgentissimo, a partire dalla messa in sicurezza del territorio dal rischio sismico e idrogeologico

4. Non si abolisce il Senato, ma il diritto dei cittadini di eleggerlo. Al posto del voto popolare, i futuri membri saranno tutti nominati: 95 dai consigli regionali, tra cui 21 sindaci e 5 dal Presidente della Repubblica. Dato il carattere non elettivo e “part-time” dei membri del Senato, non ci sarà nessuna rappresentanza reale delle regioni ma solo di alcuni territori, presumibilmente i più forti. Allo stesso tempo i compiti dei senatori sono tanto confusi, quanto gravosi: impossibile da svolgere per chi contemporaneamente fa il sindaco di una grande città.

5. La “riforma” Renzi della Costituzione insieme all’Italicum produce una svolta autoritaria senza precedenti. Le disponibilità ora manifestate da Renzi a modificare l’Italicum sono promesse che non valgono nulla, perché tutto sarà comunque deciso dopo il referendum.

Mentre il Senato sarà composto di nominati, la Camera con il premio di maggioranza abnorme dell’Italicum vedrà attribuire ad un partito con il 25% dei voti  o anche meno, il 54% dei seggi alla Camera cioè 340 seggi. Il premio di maggioranza potrà più che raddoppiare i seggi ottenuti se vigesse un principio di rispondenza proporzionale. 

Un solo partito potrà formare il governo anche se espressione di una esigua minoranza e ottenere la fiducia alla Camera. Un solo partito potrà deliberare lo stato di guerra ed eleggere il Presidente della Repubblica. 

6. Se anche tutto questo facesse risparmiare quanto dice Renzi, andrebbe rispedito al mittente. Ma neppure la storia dei “risparmi” è vera. La Ragioneria Generale dello Stato ha quantificato i “risparmi” in 49 milioni (non 500 come dice ora  Renzi, né tantomeno 1 miliardo come diceva qualche tempo fa). Significano meno di un caffè all’anno per ogni abitante. Nulla rispetto a quanto si potrebbe risparmiare colpendo privilegi ingiustificati dei parlamentari, meno di nulla rispetto a quanto si potrebbe recuperare con politiche fiscali che colpiscano quell’1% più ricco della popolazione che da solo possiede il triplo della ricchezza del 40% meno abbiente.

Ma questo Renzi non lo farà,  perché è esattamente l’interesse e il potere di quell’1%, all’origine della controriforma della Costituzione.

Mettiamocela davvero tutta. La vittoria del NO significherebbe battere la volontà di dominio della finanza e delle multinazionali sulla nostra società, emblema del tempo del capitalismo barbarico,  e significherebbe riaprire una possibilità vera di un nuovo ciclo di lotte, diritti, democrazia. Una nuova possibilità per la promessa di una società giusta, libera, solidale, incarnata nella Costituzione.

Roberta Fantozzi

fonte Blog Lavoro&Salute 

Forenza (Gue: «La firma del Ceta è una pessima notizia ma si può ancora fermare». Mobilitazione in tutta Italia il 5 novembre

Mobilitazione in tutta Italia il 5 novembre

di Giulio AF Buratti

fonte POPOFF

«La firma del Ceta oggi a Bruxelles – ha detto ieri sera Eleonora Forenza, eurodeputata de L’Altra Europa con Tsipras/GUE/NGL – è una pessima notizia per milioni di cittadine e cittadini in Europa e in Canada. Abbiamo più volte evidenziato le pericolose conseguenze del Ceta su occupazione, salute alimentare, principio di precauzione, agricolture di qualità, sovranità popolare, e non solo. Migliaia di attiviste e attivisti hanno manifestato la loro contrarietà al Ceta. E la presa di posizione del Parlamento della Vallonia ha dimostrato non solo che queste paure sono tutt’altro che infondate, ma che CETA, TTIP e TISA si possono fermare. La lotta continua, dunque».

A partire dalla giornata di mobilitazione del 5 novembre in tante città italiane promossa dalla rete #StopttipItalia. La Commissione Commercio Internazionale del Parlamento europeo e la Plenaria dell’Europarlamento si esprimeranno solo con un voto di ratifica (sì/no) senza risoluzione per evitare le insidie di un dibattito pubblico. «La discussione fa paura ai Signori del commercio.

Dopo l’eventuale ratifica del Ceta da parte del Parlamento europeo, il trattato entrerà in vigore con una applicazione provvisoria.  Nei prossimi due anni i Parlamenti nazionali saranno chiamati a discutere del CETA: dunque, possiamo ancora bloccarlo – continua l’eurodeputata – non basterà la nostra opposizione in Parlamento. Mi sento impegnata a rilanciare la mobilitazione e la controinformazione dentro e fuori le aule parlamentari. E’ davvero una sfida importantissima. Non ci arrendiamo!».

Il negoziato con la Vallonia, la regione francofona del Belgio che si è coraggiosamente opposta all’accordo, si è concluso con la scelta di accostare al testo consolidato una dichiarazione interpretativa e alcune prese di posizione messe nero su bianco da Commissione Europea e Consiglio Europeo. La Campagna Stop TTIP conferma le mobilitazioni del 5 novembre in diverse città italiane, lanciando uno #StopCETAday con l’intento di sollevare un dibattito all’altezza nel Parlamento italiano ed europeo. Sebbene le divisioni degli ultimi giorni siano state ricomposte e il summit UE-Canada confermato, restano gravi perplessità e preoccupazioni su un trattato commerciale che non protegge i cittadini e l’ambiente.

Secondo Stop TTIP Italia, il braccio di ferro del Parlamento della Vallonia con il Canada e l’Unione Europea ha permesso di portare a casa alcuni punti di avanzamento, seppur limitati: sarà la Corte Europea di Giustizia, ad esempio, su input del Belgio, a valutare la legalità del meccanismo ISDS/ICS, il tribunale sovranazionale per gli investimenti che permette alle aziende di denunciare gli Stati. Inoltre, basterà un voto contrario anche nel Parlamento regionale di uno Stato federale a far saltare l’applicazione provvisoria del CETA in caso certe modifiche non vengano apportate in modo sostanziale. Altri potenziali passi avanti riguardano la promessa di una completa esclusione dalla liberalizzazione per i servizi che gli Stati membri decidono di qualificare come “servizi pubblici” e per i cosiddetti “servizi di interesse generale”. A ciò si aggiunge un impegno a tutelare l’agricoltura, vietare le importazioni di OGM e carne agli ormoni, proteggere il principio di precauzione.

«Come purtroppo temevamo il colpo di coda è arrivato. In ogni caso, la coraggiosa posizione della Vallonia, lasciata isolata dai Governi europei e in primis da quello italiano, ha obbligato l’Unione Europea a fare alcune concessioni su temi che i movimenti della società civile denunciano da anni», sottolinea Monica Di Sisto, portavoce della Campagna Stop TTIP Italia. «Resta da capire come il testo del CETA, sdoganato nel settembre 2014 e che va in direzione del tutto opposta, possa essere vincolato a una dichiarazione interpretativa che mina alle fondamenta alcuni suoi organi chiave, come il comitato per la cooperazione regolatoria. Questo tavolo di esperti, aperto all’influenza delle grandi imprese, nasce con l’obiettivo specifico di eliminare barriere regolamentari che proteggono i servizi, il mercato del lavoro, l’ambiente e la sicurezza alimentare».

La Commissione, infine, si è impegnata a rivedere «il più presto possibile» il meccanismo di arbitrato, «allo scopo di garantire l’indipendenza e imparzialità dei giudici» e un «rigoroso processo di selezione» per quelli che andranno a comporre il tribunale e la corte d’appello. L’ICS, dichiara la Commissione, dovrà progredire verso «un sistema in cui i giudici sono assunti full time». Fino a quel momento, tuttavia, resterà in vigore il pericolosissimo salario “a cottimo”, che li invoglia a decidere in favore degli investitori privati, unici soggetti che possono adire la Corte e quindi garantire continuità di emolumenti.

«Queste modifiche, affidate da Bruxelles a una dichiarazione che non fissa tempi certi per l’entrata in vigore, non possono convincere la società civile», dichiara Elena Mazzoni, tra i coordinatori della Campagna Stop TTIP. «Vogliamo che l’Italia inizi una approfondita discussione in Parlamento su questo accordo rischioso, che espone a forti rischi tutto il comparto della produzione agricola, cercando di mascherarlo con lo specchietto per le allodole delle 42 Indicazioni geografiche italiane parzialmente tutelate (su oltre 280 riconosciute dal Ministero) e non ha nessuna norma vincolante capace di tutelare i diritti del lavoro e le questioni legate allo sviluppo sostenibile, come la lotta al cambiamento climatico. Anche il Parlamento Europeo deve sollevare la testa e impedire l’applicazione provvisoria, una truffa per scavalcare le ratifiche nazionali. Come Campagna Stop TTIP crediamo sia comunque necessario un dibattito pubblico in cui sia coinvolto il Parlamento a cui chiediamo di non ratificare il trattato, per questo rilanciamo lo #StopCETAday il 5 novembre prossimo».

Il 5 novembre diverse città italiane tra cui Milano, Roma, Torino, Verona, Udine si mobiliteranno con presidi e iniziative per chiedere all’Italia dibattito pubblico e al Parlamento la non ratifica del CETA.

L’elenco delle iniziative in continuo aggiornamento è consultabile a questa pagina

FONTE POPOFF

 

In libreria : “Da Gelli a Renzi (passando per Berlusconi)” di Aldo Giannuli

 

Un libro interessante,“Da Gelli a Renzi (passando per Berlusconi) che risulterà assai scomodo e fastidioso per i rappresentanti dei poteri forti. Anche per questo motivo l’Autore afferma  :

“questa volta ho proprio bisogno del vostro aiuto per far sapere che c’è, perché si fatica molto ad ottenere qualche recensione o segnalazione e tutto mi fa pensare che faticheremo molto a restare in libreria. Per cui vi rivolgo un appello con il passaparola segnalando il libro ad amici e conoscenti, mandando qualche mail, condividendo su Fb e rilanciando su Twitter. Insomma mi aspetto che mi diate una mano.
Chi pensasse di trovarvi le prove di una fantasiosa congiura massonica, che da Gelli porta a Renzi, resterebbe deluso: non è di questo che mi occupo (e, peraltro, una congiura che dura per quasi mezzo secolo, sopravvivendo a morti ed eclissi dei vari protagonisti, non è molto convincente e sa di opera fantasy). Ci sono cose molto più durature dei complotti e sono le idee, le correnti di pensiero che, pur con le inevitabili modificazioni che il tempo impone, rispuntano, come fiumi carsici, quando meno lo si aspetta.
C’è un filone di pensiero che affonda le radici molto indietro nel tempo (sin nel XVIII secolo) e che ha opposto le ragioni della società civile contro lo Stato ed i suoi apparati. Questo scontro sembrò vinto definitivamente in Italia nel 1945, quando, dalla sconfitta del fascismo, sorse una repubblica dal forte contenuto sociale, garantita da una democrazia parlamentare che esaltava la rappresentanza e la partecipazione popolare. Poi, pian piano, riemerse una cultura politica che, nelle nuove condizioni storiche, pensava ad una riforma della Costituzione e della legge elettorale che comprimesse la rappresentanza, liquidasse gli strumenti di partecipazione democratica e desse vita ad un regime oligarchico che, però, conservava forme elettive.
La P2 fu il soggetto che riuscì a sdoganare quella cultura  ed ad imporre questo tema nell’agenda politica circa 40 anni fa. Non hanno torto i sostenitori del Si al referendum a sostenere che la riforma delle istituzioni “attende da 40 anni”, ma solo se si ammette che è della riforma di Gelli che si sta parlando. E, in effetti, le somiglianze fra il piano della P2 e l’attuale progetto di riforma istituzionale non mancano affatto: legge elettorale maggioritaria, partiti “all’americana”, centralità assoluta del governo che assorbe in gran parte la funzione legislativa, compressione degli organi di controllo e garanzia, abolizione/trasformazione del Senato, abolizione delle provincie, ecc. E’ la stessa filosofia antiparlamentare di Gelli.
D’altro canto, anche la base sociale e regionale della P2 presenta diverse somiglianze con il “giglio magico” renziano ed i suoi dintorni. Ovviamente sia tanto nel progetto quanto nella composizione sociale, ci sono anche differenze inevitabili, dato il tempo trascorso, ma quel che conta è il nucleo centrale di entrambi, come dire? Il Dna che si trasmette nelle generazioni pur nei mutamenti parziali.

Le somiglianze fra i due progetti (quello di Gelli di ieri e quello odierno di Renzi) si colgono meglio se si tengono presenti anche due documenti preparatori del notissimo Piano di Rinascita Democratica: il “memorandum” sulla situazione italiana e lo Schema “R” molto meno conosciuti e che ripropongo alla vostra lettura. Più che mai questa volta il libro è pensato come un’arma di battaglia (qui la scheda di presentazione del libro).
Spero che vi interessi e, come al solito, sono a disposizione per risposte, chiarimenti ed anche per accogliere critiche e contestazioni. Spero non mi deluderete. Aldo Giannuli ”

La Scheda di presentazione del Libro

fonte aldogiannuli.it

Con la riforma del Titolo V via libera allo sfruttamento selvaggio dei territori

fonte BLOG LAVORO SALUTE

Lo sport nazionale dei governi è la riforma di tutto ciò che non piace alle imprese, per invogliarle ad investire nel proprio paese. Sulle riforme per attirare gli investimenti, i governi non hanno molto da inventare, ha già scritto tutto il World Economic Forum,l’associazione delle multinazionali che tutti gli anni organizza l’incontro di Davos, per dettare l’agenda politica. Nei suoi rapporti elenca le condizioni che piacciono alle imprese: basso regime fiscale, bassi oneri sociali, alta flessibilità del lavoro e un assetto istituzionale sicuro e veloce. Cioè governi stabili capaci di garantire continuità politica e parlamenti veloci capaci di produrre in fretta leggi favorevoli agli affari.
Con la riforma del Titolo V via libera allo sfruttamento selvaggio dei territori

Partiamo da un presupposto: il consolidamento della post-democrazia di cui parlava Crouch ha bisogno di riforme costituzionali come quella che saremo chiamati a votare (o meglio a sventare) il 4 dicembre. Il disegno sotteso alla riforma – propagandata come al di sopra del bene e del male, buona di per sé, come se dopo anni di tentativi andati a vuoto il solo concetto fosse salvifico e non ne importasse il carattere migliorativo o peggiorativo – mira alla consacrazione di un sistema politico in cui, invece che restituire sovranità al popolo cui apparterrebbe, si fa il possibile per concentrarla sempre più verso l’alto. Vale la pena ricordare che il colosso finanziario JP Morganaffermava nel 2013 che le costituzioni antifasciste – ispirate ai diritti e all’allargamento della base democratica – sono una zavorra per la crescita e vanno profondamente modificate.

L’indicazione giunta al governo dalle istituzioni finanziarie riguarda dunque la creazione delle condizioni di piena esigibilità per le richieste del mercato: necessarie riforme economiche, necessarie grandi opere, necessario sfruttamento delle risorse naturali, necessari tagli ai diritti sociali e al welfare. Il risultato atteso è legittimare la delega dell’intero esercizio deliberativo ad organismi sempre meno rappresentativi dell’interesse collettivo. La ricetta è lineare: svuotamento dei luoghi della rappresentanza, rarefazione dei centri di potere e corsa a verticalizzarne i meccanismi di decisione tramite maggiori poteri all’esecutivo, la camera politica unica e la nuova legge elettorale che la determinerà, le nuove tipologie di procedimenti legislativi che scavalcano le istituzioni di prossimità.

Uno degli aspetti meno trattati e più rilevanti della riforma è la revisione del Titolo V, che affermerebbe un modello di gestione delle risorse deciso dai ministeri – neppure dal Parlamento – senza previsione di correttivi in senso partecipativo. Le competenze esclusive che tornerebbero allo Stato riguardano produzione, trasporto e distribuzione dell’energia; infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e navigazione; beni culturali e paesaggistici; ambiente ed ecosistema; attività culturali e turismo; governo del territorio; protezione civile; porti e aeroporti civili.

La riformulazione dell’art.117 introduce come ulteriore elemento d’allarme la clausola di supremazia “Su proposta del governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale.“La formula offre all’esecutivo spazio per molteplici forzature: invocando l’interesse nazionale (leit-motiv dell’ultimo decennio) sarà possibile imporre politiche e progetti invisi agli enti locali e alle comunità chiamate a pagarne i costi economici, ambientali, sociali e sanitari. Se ha una sua ratio prevedere che sia il livello centrale a stabilire le regole generali dell’agire in materia di ambiente, garantendo come precondizione il pieno rispetto degli art. 9 e 32 della Costituzione, nello scenario dato il nuovo assetto si tradurrebbe inevitabilmente in un ulteriore arretramento delle legittime pretese dei cittadini potenzialmente o concretamente impattati. Gli enti locali sono inoltre i più esposti – e ricettivi – alle pressioni esercitate dalle comunità locali: elemento rivelatosi spesso decisivo per ottenere la rinuncia a progetti a forte impatto ambientale. Escludere le Regioni dal rapporto di “leale collaborazione” con lo Stato su tutte queste materie senza prevedere di compensare con strumenti di concertazione locale avrà l’effetto di aggravare anziché risolvere il gap (in termini di analisi e proposte) tra comunità e governo centrale.

Da un altro punto di vista, la riscrittura dell’art. 117 è la testa di ariete attraverso cui si tenta di forzare l’introduzione in costituzione di alcuni dei principi contenuti nel decreto sblocca Italia, convertito nonostante forti proteste nella L.164/2014. Si tratta in parte di principi su cui il governo ha dovuto fare marcia indietro in seguito al deposito dei quesiti referendari promossi da 9 Regioni e centinaia di associazioni ambientaliste. Un punto in particolare, che prevedeva l’esclusione delle Regioni dai processi decisionali in materia energetica e infrastrutturale, è stato dichiarato incostituzionale con sentenza n.7/2016 per violazione degli artt.117-118 e recepito obtorto collo dal governo nella legge di stabilità per evitare di sottoporre tale punto (pronto a rientrare in campo proprio con la riforma costituzionale) alla consultazione popolare dell’aprile scorso.

Nonostante la sopravvivenza di un unico quesito, il 17 Aprile oltre 15 milioni di Italiani si sono recati alle urne per affermare il loro diritto a decidere in materia di politiche energetiche. Durante la campagna referendaria il governo ha mostrato quale idea avesse della partecipazione popolare: la proclamazione dell’esistenza di temi troppo difficili su cui esprimersi (guarda caso riguardanti profitti miliardari e devastazioni territoriali), una campagna informativa condotta al fine di boicottare la consultazione, lo sprezzante “ciaone” agli elettori la sera del voto. In quelle stesse settimane emergevano con chiarezza, grazie ad un’inchiesta della magistratura, le connessioni tra il governo e le lobbies energetiche del Paese: scandalo che costrinse l’allora ministro Guidi a dimettersi. Di oggi, infine, è la notizia che il governo Renzi ha autorizzato nuove attività di ricerca di idrocarburi lungo la riviera Adriatica e nel Mar Ionio. Neppure sei mesi dopo il referendum e le continue rassicurazioni circa la rinuncia a nuovi fronti estrattivi, si imbocca nuovamente, indisturbati, la via nera del petrolio. Ulteriore conferma, questa, che lo spirito di quella campagna referendaria e la rivendicazione democratica costruita su centinaia di territori trovano oggi più che mai la loro naturale continuazione nella costruzione di un No collettivo al referendum costituzionale.

Da anni assistiamo all’attivazione di decine di migliaia di persone per ciascuna battaglia territoriale: il movimento No Ombrina in Abruzzo, le lotte contro il Biocidio in Campania, le istanze dei No Triv, No Tav, No Tap e No Muos, le centinaia di altre realtà di resistenza popolare in prima linea per il diritto alla vita, alla salute, all’ambiente. Questo aumento della conflittualità sociale attorno all’imposizione di politiche impattanti (con gravi effetti documentati da rigorosi e numerosi studi ambientali, epidemiologici, economici e demografici) suggeriscono che i meccanismi di funzionamento della democrazia andrebbero riformati in direzione opposta da quella indicata dalla riforma: devolvendo potere decisionale alle comunità sulla gestione delle risorse e inaugurando un nuovo concetto di sovranità legato al territorio.

Alcune tra le maggiori organizzazioni ambientaliste, le 19 big firmatarie dell’appello in cui si chiede al governo di rivendicare la competenza esclusiva dello Stato in materia ambientale senza postulare la necessità di una riforma in senso partecipativo, dimostrano di non aver compreso che la partecipazione alle decisioni e la centralità della volontà popolare non è affatto un corollario marginale per una piena tutela dell’ambiente e dei diritti a esso connessi.

La riforma aiuta infine l’ufficializzazione di una prassi di sospensione democratica già arbitrariamente utilizzata: il massiccio ricorso alla gestione commissariale e allo stato di emergenza, attraverso le quali nell’ultimo decennio si è imposto il meccanismo del comando e controllo come risposta autoritaria all’emergere delle istanze più disparate.

Questa riforma è l’atto finale del processo di trasformazione dello Stato e di suo asservimento a logiche puramente neo liberiste, succubi del mercato e della finanza. Un processo che dopo vent’anni di “berlusconismo”, l’avvento dei tecnici (Monti) e il ricorso a larghe intese (Letta) ha trovato il suo perfetto scudiero in Renzi e la sua definizione formale nella proposta di modifica costituzionale.

Di fronte a questa minaccia, convinti che sia necessario ricostruire un sistema paese fondato sulle redistribuzione dei poteri e della ricchezza e sulla giustizia ambientale, non possiamo che individuare nell’approvazione della riforma un rischio enorme per la tenuta sociale e democratica del paese e nel coinvolgimento pieno delle realtà di resistenza territoriale nella campagna del No una prospettiva concreta per una reale trasformazione del nostro paese.

Marica Di Pierri – Associazione A Sud

Stefano Kenji Iannillo – Rete della Conoscenza

Pubblicato su HUFFINGTON POST del 21 ottobre 2016

Il digitale, i controlli a distanza e… la democrazia!

Il digitale, i controlli a distanza e… la democrazia!
C’è un filo rosso che lega la contro-riforma costituzionale con i controlli a distanza che coinvolgono i lavoratori anche nei momenti liberi. di Riccardo De Angelis 22/10/2016

Fonte  LACITTAFUTURA.IT

 


L’autunno è arrivato sull’onda del dibattito relativo all’impatto dell’era digitale e robotica nel mondo del lavoro, con le ormai abituali previsioni di riduzione di milioni di posti di lavoro. Tralasciando ora la questione che la riduzione non è legata all’innovazione ma alle scelte di sfruttamento che il capitale adotta, vogliamo concentrarci invece sulle capacità di controllo della produzione e dei “produttori” che il digitale consente in assenza di una adeguata regolamentazione o meglio ancora concezione dell’organizzazione del lavoro.

Dopo le modifiche operate di fatto sull’Art.4 dello Statuto dei lavoratori (L. 300/70) dal Jobs Act e al portone aperto dall’accordo del 2011 tra Confindustria e Sindacati, ratificato da una norma inserita dall’ultima Finanziaria di Berlusconi dello stesso anno, le aziende private e pubbliche stanno operando un affondo deciso per conquistare questo baluardo della rigidità sindacale. Il divieto di controllo a distanza, già eluso negli anni precedenti con diversi accordi aziendali che con la scusa della sicurezza cedevano quote di questo diritto alla riservatezza, subisce un destino in controtendenza rispetto a quanto stabilito dalle nuove normative sulla privacy che avrebbero potuto blindare tale divieto anche dentro i luoghi di lavoro. Come è facile capire, la politica della sicurezza imperante, ha fatto invece cedere il passo al “diritto” dei lavoratori e lavoratrici di poter essere liberamente spiati durante l’orario di lavoro.

Se è vero che i precedenti accordi venivano molto spesso trincerati dietro la postilla per cui le informazioni raccolte tramite i sistemi di controllo non potevano essere in alcun modo utilizzate per provvedimenti disciplinari, è altrettanto vero che si introduceva il monitoraggio costante e ripetuto dei comportamenti abituali dei lavoratori, potendo in ogni caso definire meglio i profili di attivisti, agitatori, o contestatori di diverso ordine e grado.

Oggi, invece, il contesto normativo legato anche alle molteplici attività digitali ha creato i presupposti per un appetito più ampio per il datore di lavoro. La battaglia, che nel ciclo di lotta di conquista era contro l’aumento della produttività a scapito di salute e occupazione, si è trasferita nell’era contemporanea (già pregna di lotte di retroguardia) nella battaglia contro la produttività individuale a favore della più volte reiterata condivisione dei sindacati per la produttività collettiva. Quindi cessa di avere una qualsivoglia capacità di resistenza nel momento in cui il datore di lavoro può misurare costantemente e sistematicamente l’attività di ogni suo singolo dipendente nel momento stesso che sta operando. Ciò permette di esercitare una pressione concreta e psicologica sul singolo, tanto più con un modello salariale sempre più legata alla produttività, che avrà ripercussioni psico-fisiche ben note già da 40 anni.

Ma se tutto ciò non fosse abbastanza, in queste settimane la voracità di Confindustria e dei suoi più agguerriti assaltatori non si esaurisce negli strumenti coercitivi legati al semplice aumento della produttività individuale ma al controllo stesso del singolo lavoratore, con particolare attenzione al profilo che può innescare la contestazione anche in quelli sopiti.

Il cambio normativo sollecitato per contrastare le inevitabili e oggettive resistenze che l’appiattimento dei salari sta determinando ha bisogno di un “salto di qualità” nella capacità di isolare e rendere inoffensive quelle avanguardie che non si arrendono e continuano a seminare conflitto o semplicemente a svelare la natura antiumana del capitalismo in ogni loro contesto.

Questa affermazione che forse molti troveranno abnorme, si rafforza nei ragionamenti e nelle richieste ingiustificate di aziende “pubbliche” o private che non si accontentano di controllare l’attività di produzione di ogni singolo dipendente, ma sempre più ne vogliono controllare la sfera personale, di relazioni, di pensieri che grazie alla sempre più coinvolgente digitalizzazione della comunicazione passa attraverso strumenti promiscui come le mail, i social, il web ecc ecc. Gli algoritmi che permettono a un Facebook qualsiasi di proporci beni di consumo in base alle ricerche o ai “like” inseriti in esso, devono diventare l’abituale controllo giornaliero del datore di lavoro nei confronti del lavoratore.

Cosi, se l’Università di Chieti installa dei software di controllo individuale per conoscere preferenze, discussioni, ricerche e letture on line dei tecnici-amministrativi e dei docenti con la scusa della sicurezza, per fortuna (ribadiamo pura fortuna!) il Garante della privacy, a seguito dell’inchiesta istituita su sollecitazione dei dipendenti, ha vietato tale utilizzo perché il software raccoglieva dati sensibili in nessun modo utili alla sicurezza o all’interesse dell’Università.

Almaviva, invece, preferisce chiudere 2 sedi (Roma e Napoli) dove guarda caso l’accordo sul controllo a distanza era stato rigettato dalle assemblee in maniera netta, preferendo mettere per strada 2000 persone circa. Ree non solo di non acconsentire all’abbattimento del costo del lavoro ma che pretendono “impunemente” di lavorare senza essere trattati come si fa in un campo di concentramento. Perciò la capacità di “rieducazione” di tale gruppo di lavoratori è talmente scarsa che Almaviva non ritiene opportuno cercare strade alternative alla chiusura delle sedi ribelli e lasciare in piedi la sola sede dichiaratasi più pronta a farsi stuprare la dignità.

Telecom Italia, dal canto suo, nella trattativa per il rinnovo del contratto integrativo richiede non solo il controllo nei luoghi produttivi dove operano circa 50mila dipendenti, ma anche di tutti gli strumenti messi a disposizione dalla stessa azienda che non vengono considerati legati all’attività lavorativa come web, mail, social, ecc- Ora, ammesso che non siano legati all’attività lavorativa, ci chiediamo perché l’azienda spende soldi per mettere a disposizione tali strumenti, e ancora qual è il bramoso interesse per conoscere usi e costumi di ogni singolo dipendente se ciò non è strettamente connesso all’attività lavorativa?

La verità è che la cospicua giurisprudenza considera tali strumenti per loro natura promiscui in quanto utili alla comunicazione di ognuno di noi che, come noto, non è univoca ma afferente alla sfera di relazioni che abbiamo e che per la maggior parte degli esseri umani spazia da quella lavorativa a quella affettiva fino ad arrivare oggi ad ambiti quali l’e-commerce. Ancora il 15 settembre di quest’anno il Garante per la protezione dei dati personali nel pronunciarsi sull’ateneo di Chieti ha specificato quali siano gli strumenti per i quali è possibile trovare un’intesa sindacale per il controllo a distanza e quali, invece, siano fuori dalla portata di questi accordi in quanto riguardanti diritti GARANTITI costituzionalmente. Il Garante della privacy esclude quindi il monitoraggio costante e sistematico di mail, instant messagging, registrazione di indirizzi IP e dati personali, ma questo non pare fermare l’appetito padronale.

Un sistema di annientamento personale che, certificato dalla legge, mina la tenuta democratica del paese. Parliamo del controllo totale di una persona che ha la sola sfortuna di lavorare sotto padrone! Di una società in cui il datore di lavoro, per il fatto stesso che “ti concede” di lavorare per lui, ha diritto di sapere ogni cosa dei propri dipendenti e quindi, volenti o nolenti, di costruire il proprio giudizio su una serie di questioni che esulano dall’ambito lavorativo. Si potrebbe obiettare che tali strumenti basta non usarli ma l’era digitale ormai impone l’utilizzo quasi giornaliero di strumenti come quelli citati, ed ove anche fosse possibile l’auto-coercizione del proprio pensiero, ciò risulta abbastanza spaventoso.

Non è un caso che il Garante si esprima in contrasto con tali utilizzi non solo rispetto alle norme sulla privacy ma anche in riferimento agli aspetti costituzionali relativi al divieto di discriminazione delle persone in base al sesso, razza, religione, ideologia . E non è un caso che personaggi come Briatore, Squinzi e simili affianchino il governo Renzi nell’azione di destrutturazione della carta costituzionale ultimo relitto di una legislazione costruita nel conflitto e nella mediazione di classe, a favore un nuovo sistema di regole totalmente sbilanciato per il Capitale e i fruitori dei suoi privilegi.

22/10/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

Fonte  LACITTAFUTURA.IT

L’ultima lezione di Noam Chomsky: un pacato invito alla rivolta

 

 

L’ultima lezione di Noam Chomsky: un pacato invito alla rivolta
Il documentario, intitolato Requiem for the American Dream, descrive una società frantumata, individualista e votata alla diseguaglianza.  di

«Durante la Grande Depressione, che io sono vecchio abbastanza da ricordare, la maggior parte dei membri della mia famiglia erano lavoratori disoccupati. Si stava male, ma c’era la speranza che le cose potessero andare meglio. C’era un grande senso di speranza. Oggi non c’è più». Iniziano così i 112 minuti di Requiem for the American Dream, frutto del lavoro di 4 anni di Peter Hutchison, Kelly Nyks e Jared P. Scott, un prodotto che più che un documentario somiglia alla lezione finale di un grande interprete dei nostri tempi, forse il più grande: Noam Chomsky.

Professore al MIT di Boston, ma soprattutto attivista e anima della sinistra americana per più di mezzo secolo, Chomsky, che ora ha 87 anni, parla con la calma e la tranquillità di un grande vecchio che, senza fretta e senza quel pathos tipico dell’indignazione, unisce i puntini che il capitalismo americano ha lasciato dietro di sé e descrive limpidamente l’esatta dimensione della sfida che abbiamo davanti. O della tragedia.

Al centro del discorso di Chomsky c’è il terrificante — seppur preannunciato — risveglio di una nazione dal cosiddetto “sogno americano”, quell’American Dream che ha lasciato sul campo una delle più gravi e profonde disuguaglianze della Storia moderna.

Chomsky parte dall’inizio della storia americana, dai giorni i cui i padri fondatori costituivano il Senato sulla base della missione molto precisa di proteggere la minoranza delle classi abbienti e limitare la democrazia, ovvero il potere della maggioranza. Una missione poi rafforzata e rilanciata negli anni Sessanta, come reazione alle proteste e all’organizzazione della popolazione. Una reazione potente, precisa, disarmante, che nemmeno lui stesso all’epoca seppe riconoscere, e che oggi lascia un mondo in rovina, con un sistema economico ridisegnato sulle esigenze della finanza, ma soprattutto con la programmatica trasformazione di una classe — i lavoratori — in una galassia informe di precari.

Disinformati da una informazione che da cane da guardia del potere si è trasformata in cane da guardia al servizio del potere, alienati dalla frammentazione del tessuto sociale e commerciale, isolati nell’economia del lavoro e nella stessa vita privata: la creatura sociale che ha preso il posto di quei lavoratori che tanto hanno spaventato la classe dirigente nel Novecento è franta, alienata, depressa e sempre più ignorante. È diventato un popolino che non sa più chi votare, schiavo dell’intrattenimento, marginalizzato nella vita politica.

Lo spettro che si aggirava per l’Europa a metà dell’Ottocento, ovvero quelle prima generazioni di lavoratori che seppero rispondere alla prima industrializzazione e che convinsero Marx a credere che potessero essere il motore del cambiamento e la materia umana dell’uomo nuovo, è ormai diventato il fantasma di se stesso. Un esercito di fantasmi sfruttati, ma soprattutto — ed è l’ultimo punto del decalogo di Chomsky — un esercito marginalizzato.

«Il 70 per cento della popolazione», dice Chomsky, «non ha alcun modo di influenzare la politica». L’attivismo esiste, ma è sempre più morbido, isolato, rannicchiato e di conseguenza inutile. La rabbia della gente si sta accumulando, conclude Chomsky, e «sta prendendo la forma di una rabbia non focalizzata, frustrata». Il risultato ce l’abbiamo già tutti davanti agli occhi tutti: la disintegrazione sociale, la lotta non più di una classe sfruttata e subalterna contro una classe superiore e abbiente, ma una lotta intestina tra poveri.

fonte l’INKIESTA che ringraziamo .