La Grecia sta progettando un sistema di sorveglianza automatizzato da 40 milioni di euro ai confini con la Macedonia del Nord e l’Albania

 

Fonte Algorithmwatch

 

 

 

 

La Commissione europea vuole che la Grecia costruisca un muro automatizzato per impedire ad alcune persone di lasciare il Paese. La gente del posto non è entusiasta, ma la loro opinione conta poco.

Molte persone con passaporto siriano, afghano, somalo, bengalese o pakistano che cercano asilo nell’Unione europea lasciano la Grecia quando hanno la sensazione che la loro situazione amministrativa non migliorerà lì. Il percorso verso altri paesi dell’UE attraverso i Balcani inizia nel nord della Grecia, prosegue verso la Macedonia del Nord o l’Albania. La polizia greca, si dice, è piuttosto rilassata nei confronti delle persone che lasciano il paese.

“Molte persone che passano dalla nostra zona vogliono andare in Europa”, dice Konstantinos Sionidis, sindaco di Paionia, un comune operaio di 30.000 abitanti al confine settentrionale della Grecia. “Non è una situazione piacevole per noi”, aggiunge.

Una mappa della Grecia settentrionale con evidenziata la posizione del comune di Paionia.

Ma uscire da via Paionia si fa sempre più difficile. Nel maggio 2023, le guardie Frontex hanno iniziato a pattugliare il confine con la Macedonia del Nord. Vicino all’autostrada, una giovane donna della Sierra Leone ha detto che lei e la sua amica hanno tentato di andarsene quattro volte nell’ultimo mese. Una volta arrivarono fino al confine serbo. Le altre volte sono stati arrestati immediatamente di notte nella Macedonia del Nord, mentre uscivano dalla foresta, da agenti di Frontex che chiedevano “Vuoi andare in Germania?” (No.) “Non ci vogliono qui [in Grecia]”, dice. “Andiamo!”

Tuttavia, la Commissione europea ha in programma di rendere più difficile per le persone viaggiare attraverso la Macedonia del Nord (e altre parti della rotta dei Balcani occidentali). Secondo un documento di programmazione nazionale per il finanziamento UE della “gestione delle frontiere” per le autorità greche nel periodo 2021-2027, sono stanziati 47 milioni di euro per costruire un “sistema automatizzato di sorveglianza delle frontiere” ai confini della Grecia con la Macedonia del Nord e l’Albania. Il nuovo sistema sarà esplicitamente modellato su quello già implementato al confine terrestre con la Turchia, lungo il fiume Evros.

Il muro di confine virtuale

Evros è descritta come un “banco di prova” di sorveglianza. All’inizio degli anni 2000, la polizia utilizzava termocamere e binocoli per individuare le persone che tentavano di attraversare il confine. Mentre la Grecia e altri Stati membri aumentavano i loro sforzi per tenere le persone fuori dall’UE, sono arrivati ​​più finanziamenti per droni, rilevatori di battito cardiaco, più guardie di frontiera – e per un “sistema automatizzato di sorveglianza delle frontiere”.

Nel 2021, il governo greco ha inaugurato decine di torri di sorveglianza, dotate di telecamere, radar e sensori di calore. I funzionari hanno affermato che questi sarebbero in grado di allertare le stazioni di polizia regionali nel caso in cui rilevassero persone che si avvicinano al confine. All’epoca, i media erano entusiasti di questo “scudo elettronico” 24 ore su 24 che avrebbe “sigillato” Evros con telecamere in grado di vedere “fino a 15 km” in Türkiye.

Leggi tutto

Polonia: il legislatore deve affrontare le accuse per la protesta a favore della scelta

 

Fonte :  HUMAN RIGHT WATCH

(Berlino) – Il governo polacco dovrebbe immediatamente ritirare le accuse contro un membro del parlamento che ha partecipato a una protesta a favore della scelta e smettere di prendere di mira gli attivisti per i diritti riproduttivi, ha affermato oggi Human Rights Watch.

Il 29 novembre 2022, l’ufficio del procuratore di Toruń ha accusato Joanna Scheuring-Wielgus, membro del partito di sinistra (Lewica), di “offesa ai sentimenti religiosi” e “ingerenza dolosa nel culto religioso”. Ogni reato comporta una pena fino a due anni di reclusione. Si è dichiarata non colpevole.

“Incriminare un parlamentare per una protesta pacifica è innegabilmente un’escalation allarmante negli sforzi del governo polacco per criminalizzare non solo l’aborto, ma chiunque sostenga apertamente i diritti riproduttivi”, ha affermato Hillary Margolis , ricercatrice senior sui diritti delle donne presso Human Rights Watch. “Tali sfacciati tentativi di mettere a tacere gli attivisti per i diritti delle donne e calpestare le protezioni per la libertà di parola mostrano quanto siano fragili tutti i diritti in Polonia oggi”.

Il 25 ottobre 2020, insieme a suo marito Piotr Wielgus, Scheuring-Wielgus ha portato uno striscione in una chiesa di Toruń con la scritta “Donna, puoi decidere da sola” per protestare contro una sentenza del Tribunale costituzionale che sostanzialmente ha eliminato l’accesso all’aborto legale in Polonia. Nel dicembre 2020, il procuratore generale Zbigniew Ziobro ha avviato una mozione per privare Scheuring-Wielgus della sua immunità legale parlamentare per la protesta.

Il 4 novembre 2022, il parlamento ha votato a favore della mozione e il pubblico ministero ha intentato causa contro Scheuring-Wielgus anche se il tribunale distrettuale di Toruń nell’ottobre 2021 ha confermato l’ assoluzione del marito per “offesa al credo religioso” in relazione allo stesso incidente.

Nell’ottobre 2020, il Tribunale costituzionale della Polonia, politicamente compromesso , ha stabilito che l’aborto sulla base di “difetto fetale grave e irreversibile o malattia incurabile che minaccia la vita del feto” è incostituzionale, eliminando virtualmente l’accesso all’aborto legale nel paese. In precedenza, oltre il 90% dei circa 1.000 aborti legali praticati ogni anno in Polonia avveniva su questo terreno.

L’aborto è ora consentito solo per salvaguardare la vita o la salute di una donna o se la gravidanza è il risultato di un crimine, come lo stupro o l’incesto. In pratica, molteplici ostacoli rendono quasi impossibile ottenerne uno per coloro che possono beneficiare di un aborto legale. Le prove dimostrano costantemente che le leggi che limitano o criminalizzano l’aborto  non lo eliminano , ma piuttosto  spingono le persone a cercare l’aborto attraverso mezzi che possono mettere a rischio la loro salute mentale e fisica e diminuire la loro autonomia e dignità.

Da quando il partito Legge e giustizia (Prawo i Sprawiedliwość, PiS) è salito al potere nel 2015, il governo polacco ha portato avanti un attacco continuo ai diritti sessuali e riproduttivi, in particolare l’accesso all’aborto , e agli attivisti per i diritti all’aborto. Gli attivisti per l’aborto affermano che il governo sta usando sempre più la legge per prenderli di mira. Justyna Wydrzyńska , di  Abortion Dream Team , è stata accusata di aver assistito qualcuno ad abortire e di aver “commercializzato” illegalmente farmaci senza autorizzazione dopo aver presumibilmente aiutato una donna a ottenere pillole per un aborto farmacologico nel 2020. Wydrzyńska rischia fino a tre anni di carcere.

I dati del governo hanno mostrato un aumento delle accuse di “offesa ai sentimenti religiosi” ai sensi di Legge e Giustizia. Nel 2020, il governo ha utilizzato questa disposizione per perseguire tre attivisti per aver pubblicato immagini di un’icona religiosa con un alone arcobaleno, spesso associata all’attivismo per i diritti delle persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender (LGBT). A gennaio, una corte d’appello ha confermato la loro assoluzione.

Sotto la guida di Ziobro, che è anche ministro della giustizia, il partito di estrema destra Solidarna Polska – che fa  parte della coalizione di governo conservatrice polacca – ha presentato a ottobre una legge che modificherebbe il codice penale per includere l’insulto pubblico o il ridicolo della chiesa come reato punibile fino a due anni di carcere

Il governo polacco dovrebbe ritirare le false accuse contro Scheuring-Wielgus e altri attivisti per i diritti delle donne e LGBT, e invertire la rotta per garantire l’accesso all’aborto sicuro e legale e ad altre cure essenziali per la salute riproduttiva, ha affermato Human Rights Watch.

Scheuring-Wielgus è già stato preso di mira. Il parlamento ha votato ad aprile per rimuovere la sua immunità legale dall’accusa per aver appeso un poster sulla porta della cattedrale di Toruń che diceva “Ricorda le scarpe da bambino. Fermiamo la pedofilia”. Si riferiva a rivelazioni di abusi sessuali da parte di religiosi cattolici in Polonia. A novembre, il capo della polizia nazionale ha chiesto la rimozione dell’immunità di un altro parlamentare del partito di sinistra per aver appeso manifesti a sostegno dello sciopero delle donne sulle porte degli uffici dei politici di diritto e giustizia a Iława nel novembre 2020.

Sotto Legge e giustizia, gli attacchi ai diritti delle donne e delle persone LGBT da parte di alti funzionari governativi , gruppi ultraconservatori e media hanno favorito un ambiente sempre più ostile per attivisti e difensori dei diritti. Gruppi come Abortion Dream Team sono stati oggetto di bombe e minacce di morte.

Nel dicembre 2017 la Commissione europea ha avviato un’azione contro la Polonia ai sensi dell’articolo 7 del trattato dell’Unione europea (UE) – la disposizione in base alla quale è possibile intraprendere un’azione contro gli Stati che mettono a rischio i valori dell’UE – in risposta alle minacce all’indipendenza della magistratura. La Commissione dovrebbe aggiornare e ampliare il suo parere motivato ai sensi dell’articolo 7 per riflettere le minacce alla libertà di parola e il crescente impatto dell’erosione dell’indipendenza giudiziaria sui diritti delle donne e LGBT, ha affermato Human Rights Watch. Gli Stati membri dell’UE dovrebbero adottare raccomandazioni sullo stato di diritto e votare ai sensi dell’articolo 7 per stabilire che esiste un chiaro rischio di una grave violazione dei valori dell’UE in Polonia.

“I leader dell’Unione europea non dovrebbero semplicemente stare a guardare e tollerare uno stato membro che prende di mira i rappresentanti eletti per esercitare la libertà di parola e sostenere pacificamente i diritti umani fondamentali delle donne”, ha affermato Margolis. “Il governo polacco sta solo diventando più audace nei suoi sforzi per minare i diritti delle donne e i difensori dei diritti, e un’azione decisiva per fermarlo non può aspettare”.

Il drone dell’UE è un’altra minaccia per migranti e rifugiati

 

Fonte :  Human Rights Watch

La sorveglianza aerea di Frontex facilita il ritorno agli abusi in Libia

Mappa che mostra le rotte delle barche nel Mar Mediterraneo

Ricostruzione dell’intercettazione del 30 luglio 2021 facilitata dal drone Frontex. Oltre alla traccia del drone Frontex, la mappa mostra la traccia di Seabird (un aereo Sea-Watch) che ha assistito all’intercettazione. Mostra anche la nave della ONG Sea Watch 3 nelle vicinanze. Non ci sono dati di localizzazione della nave per la motovedetta della guardia costiera libica Ras Jadir o per la nave intercettata. Mappa per gentile concessione di Border Forensics.

“Non sapevamo che fossero i libici finché la barca non si è avvicinata abbastanza e abbiamo potuto vedere la bandiera. A quel punto abbiamo iniziato a urlare e piangere. Un uomo ha cercato di buttarsi in mare e abbiamo dovuto fermarlo. Abbiamo lottato il più possibile per non essere ripresi, ma non potevamo farci nulla”, ci ha detto Dawit. Era il 30 luglio 2021 e Dawit, dall’Eritrea, sua moglie e la giovane figlia stavano cercando rifugio in Europa.

Invece, erano tra le oltre 32.450 persone intercettate dalle forze libiche l’anno scorso e riportate a detenzioni arbitrarie e abusi in Libia .

Nonostante le prove schiaccianti della tortura e dello sfruttamento di migranti e rifugiati in Libia – crimini contro l’umanità , secondo le Nazioni Unite – negli ultimi anni l’Unione Europea ha sostenuto gli sforzi delle forze libiche per intercettare le barche. Ha ritirato le proprie navi e installato una rete di risorse aeree gestite da società private. Da maggio 2021, l’agenzia di frontiera dell’UE Frontex ha schierato un drone fuori Malta e i suoi schemi di volo mostrano il ruolo cruciale che svolge nel rilevamento delle barche vicino alle coste libiche. Frontex fornisce le informazioni del drone alle autorità costiere, inclusa la Libia.

Leggi tutto

La crisi del Coronavirus e le conseguenze per le politiche europee

FONTE TRANSFORM-ITALIA.IT

Preambolo

La crisi sanitaria che il mondo sta affrontando alza il velo sui di una crisi strutturale già esistente e che il Partito della Sinistra Europea (PGE) non ha cessato di denunciare. Il Partito della Sinistra Europea si è assunto il compito di proporre un modello alternativo per questa Europa a seguito della diffusione del Covid-19. Per questo, è stata creata una piattaforma e stiamo lavorando molto attivamente per svilupparla, il più rapidamente e nel miglior modo possibile, concentrandoci non solo sulle soluzioni all’attuale crisi, ma anche in una prospettiva a lungo termine, per una trasformazione della economica in senso pubblico, sociale ed ecologico. È importante ripensare il ruolo delle istituzioni europee e globali, garantire investimenti nella direzione di un nuovo patto verde e sociale, proteggere i lavoratori e promuovere un futuro centrato sui bisogni umani e non solo sul profitto.

La situazione causata dalla pandemia di COVID-19 sta sconvolgendo tutta l’umanità. Quasi tutti i paesi hanno adottato misure drastiche per evitare la contrazione della malattia e contenere la pandemia. Tutti gli sforzi possibili devono, in effetti, essere fatti per proteggere la popolazione. Tali misure richiedono un coordinamento. Ma manca ancora un efficace coordinamento europeo da parte delle sue istituzioni, così come una risposta globale. In questo modo, i paesi più colpiti vengono lasciati a se stessi. Il rischio è quindi che il Patto di stabilità limiti la solidarietà tra i paesi di fronte alla crisi economica, portando a una dicotomia tra paesi privilegiati e paesi già colpiti dall’austerità in passato.

La diffusione del virus COVID-19 ha anche conseguenze significative per l’economia: accelera la globalizzazione neoliberista come modello egemonico della società e, quindi, il processo di ristrutturazione del capitalismo. La pandemia di coronavirus è una chiara prova del fallimento del modello economico e sociale neoliberale dominante. A causa della politica di austerità neoliberista perseguita attraverso la privatizzazione dei servizi pubblici, i sistemi sanitari non sono in grado di soddisfare le esigenze della popolazione durante una pandemia.

Il Partito della Sinistra Europea chiede misure immediate per combattere le conseguenze della crisi e un cambiamento radicale della politica, aprendo una nuova strada per lo sviluppo della società, ponendo al centro le persone.

E’ necessario agire globalmente su cinque assi: tutto deve essere fatto per proteggere la popolazione. È urgente una trasformazione dell’economia in direzione pubblica, ambientale e sociale. Le istituzioni e i diritti democratici non devono essere messi a repentaglio dalle misure adottate per combattere la crisi: al contrario, in questi tempi difficili, la democrazia e i diritti civili devono essere difesi ed estesi. Non esiste altra risposta che la solidarietà internazionale di fronte alla dimensione globale della crisi: ora è il momento di una nuova iniziativa sul disarmo e di una politica di distensione.

Protezione della popolazione

Tutti gli sforzi possibili devono essere fatti per il miglior funzionamento dei sistemi sanitari. Abbiamo bisogno di risorse aggiuntive per i sistemi di sanità pubblica, nonché di una convergenza di standard in tutti i paesi in termini di personale, strutture e attrezzature negli ospedali pubblici e nei sistemi di prevenzione, nonché ‘un aumento della capacità produttiva degli strumenti di protezione della salute. È inoltre indispensabile disporre di servizi pubblici europei su tutto il continente che siano efficienti e coordinati con il resto del mondo. Chiediamo la creazione immediata di un fondo sanitario europeo finanziato tramite la BCE con titoli centenari non negoziabili sui mercati e la possibilità di ottenere più servizi pubblici abolendo il Patto di stabilità e crescita.

Sia socialmente che economicamente, le persone hanno bisogno di protezione. Migliaia di lavoratori e lavoratori sono a rischio di perdere il lavoro e il reddito, e molti li hanno già persi. Il virus colpisce i più deboli nel modo più brutale: le persone più colpite sono quelle che lavorano in condizioni precarie, mal pagate in particolare per il personale delle pulizie e coloro che fanno lavori di cura.

I governi di tutta Europa chiedono il telelavoro, ma questo non si applica a tutti, e in troppi casi è un privilegio. I lavoratori dei servizi essenziali o delle catene di produzione essenziali la cui presenza è richiesta sul posto di lavoro devono essere garantiti e protetti dalla diffusione del virus.

Chiediamo l’adozione di un piano di salvataggio economico per i lavoratori e le loro famiglie, compresi tutti i lavoratori precari, i disoccupati e privi di documenti, i migranti e i rifugiati o simili. In caso di perdita di reddito, è necessaria una compensazione finanziaria. Gli affitti e i mutui dovrebbero essere sospesi per coloro che non possono permetterseli a causa della perdita di reddito. Ci opponiamo a qualsiasi tentativo di peggiorare le condizioni di lavoro, come la sospensione dei contratti collettivi e la riduzione dei diritti dei lavoratori. I sistemi di protezione sociale, salari e pensioni dovrebbero essere adattati al massimo livello che abbiamo in Europa.

Le donne sono principalmente colpite da condizioni di lavoro precarie, in particolare babysitter, cassiere o governanti. La situazione delle donne migranti è particolarmente dura, nei campi o nei paesi in cui sono arrivate. Le donne non dovrebbero pagare il prezzo più alto per questa crisi: abbiamo bisogno di un piano concreto incentrato sulla protezione di tutte le donne (lavoratrici, disoccupate, migranti), specialmente quando sono vittime di violenza (in particolare di violenza domestica).

Ci opponiamo fermamente alla pressione esercitata dal mondo economico e industriale sui decisori affinché mettano fine alle misure di contenimento e riaprano le produzioni non essenziali senza garantire le condizioni di base della sicurezza dei lavoratori al fine di evitare l’aumento del contagio.

Abbiamo bisogno di un’azione urgente non solo per le grandi aziende, ma in particolare per le piccole e medie imprese e i lavoratori autonomi. Il sostegno finanziario per le imprese dovrebbe mirare a mantenere posti di lavoro, rispettando salari, orari e oneri Al fine di far fronte ai problemi di ridefinizione della produzione, va incoraggiata la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.

Recupero economico e trasformazione ecologica e sociale

Come misura immediata, abbiamo bisogno di maggiori investimenti nei servizi pubblici. Fin dall’inizio, dobbiamo porre fine alle politiche di austerità abbandonando l’intero Patto di stabilità e crescita. L’Europa deve abbandonare questo strumento, che è stato utilizzato per imporre l’austerità alla spesa pubblica, minando in tal modo l’assistenza sanitaria e altri servizi pubblici a danno delle persone che, di conseguenza, oggi soffrono nella crisi del coronavirus.

La Banca centrale europea (BCE) dovrebbe essere lo strumento per garantire oggi le enormi risorse necessarie per affrontare l’immensa emergenza sociale, economica e medica.

I soldi della BCE dovrebbero essere utilizzati per aiutare le persone a uscire dall’emergenza sanitaria e per combattere le conseguenze della crisi, non per mantenere il tasso di rendimento del capitale. La BCE deve assumersi la sua responsabilità per lo sviluppo economico e adottare tutte le misure necessarie per evitare speculazioni finanziarie. Questo è un prerequisito per garantire il coordinamento delle azioni nazionali e l’istituzione di un solido sistema di solidarietà per affrontare la crisi del coronavirus. La BCE e le banche nazionali dovrebbero essere utilizzate per aumentare la spesa per i servizi sociali e proteggere la popolazione. Inoltre la BCE deve finanziare un piano di investimenti europeo in grado di favorire l’occupazione e garantire un’evoluzione del modello ambientale e sociale della produzione e dell’economia. Abbiamo bisogno di un programma per ricostruire le capacità produttive, incluso la ricollocazione di industrie strategiche. Chiediamo un fondo di stimolo europeo, finanziato da obbligazioni emesse dal fondo stesso o dalla Banca europea per gli investimenti e acquisite dalla BCE. Allo stesso tempo, il meccanismo europeo di stabilità (MES), che rappresenta un modo inutile e dannoso di intervenire nei bilanci pubblici dei diversi paesi europei, dovrebbe essere abolito.

La Corte costituzionale tedesca ha messo in discussione le competenze della BCE e della Corte di giustizia dell’Unione europea e ignora i requisiti economici di cui abbiamo bisogno per lo sviluppo europeo. La sua decisione rappresenta per noi solo l’altra medaglia dell’austerità e del progetto neoliberista. La sua funzione è di scoraggiare ed evitare azioni di solidarietà e di minare la strada verso qualsiasi progetto di Europa sociale.

Proponiamo una moratoria generale sui debiti pubblici. I debiti detenuti dalla BCE dovrebbero essere cancellati. Inoltre, stiamo proponendo una conferenza europea sulla cancellazione della parte illegittima dei debiti pubblici e una discussione aperta sui criteri per la classificazione del debito.

Questa crisi COVID-19 mostra che il mercato non soddisfa affatto le esigenze dei cittadini. Non è nemmeno in grado di fornire il minimo necessario per la vita. Vogliamo rilanciare il ruolo pubblico, perso durante il periodo di privatizzazione, in tutti i settori: sistema creditizio, produzioni strategiche, sistema di ricerca e servizi. Abbiamo bisogno di un modello economico incentrato sul benessere pubblico e l’immenso accumulo di capitali da parte di pochi deve essere fermato. Per il maggior numero, non solo per pochi! (“Per molti, non solo per pochi!).

Il finanziamento dell’aumento della spesa sociale e gli investimenti nella riconversione del settore richiedono una politica di giustizia fiscale: chiediamo un nuovo modello di riscossione delle imposte che tassi le grandi fonti di capitale e ricchezza, sulla base criteri di progressività fiscale e che pone fine ai paradisi fiscali all’interno e all’esterno dell’UE. È necessaria una tassa su GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) e NATU (Netflix, Airbnb, Tesla, Uber).

La crisi fornisce ragioni sufficienti per mettere in discussione il nostro modello socioeconomico e cambiare radicalmente la politica. È necessario un profondo cambiamento, perché affrontiamo enormi sfide ecologiche come il cambiamento climatico, che ha gravi conseguenze sociali. Per la sinistra, il legame tra requisiti ecologici e bisogni sociali è cruciale. Abbiamo bisogno di una transizione nel settore verde. Tuttavia, abbiamo anche l’obbligo di proteggere i lavoratori e i dipendenti interessati da questo processo.

Il concetto di “giusta transizione” promosso dalla Confederazione internazionale dei sindacati ( CIS) intreccia transizione ecologica e protezione sociale. È necessaria una nuova politica industriale che includa concetti innovativi in ​​materia di energia e mobilità. Abbiamo bisogno di un piano di riconversione ambientale e sociale per l’economia che garantisca una piena e buona occupazione e protegga i diritti di tutti, a cominciare dalla parità di genere. Dal punto di vista di sinistra, una nuova politica industriale deve includere la partecipazione diretta dei lavoratori e, pertanto, andare di pari passo con la democrazia economica.

Democrazia

Il Partito della Sinistra Europea ritiene che la crisi COVID-19 possa minacciare le democrazie e il rischio che un’azione irresponsabile porti all’emergere dell’estrema destra e alla sua retorica della totale non solidarietà. Contro i tentativi di sfruttare la situazione di emergenza per limitare o sospendere i nostri diritti, Il Partito della Sinistra europea difende la democrazia e le sue istituzioni. Ad esempio, i parlamenti dovrebbero rimanere in carica e non essere sospesi, come nel caso dell’Ungheria. Sappiamo che sono necessarie misure molto severe per contenere la pandemia. Ma dobbiamo essere vigili e garantire che le restrizioni alla libertà ritenute necessarie per fermare la progressione della pandemia rimangano misure eccezionali.

Il PSE respinge anche fortemente ogni tentativo di abuso della pandemia di coronavirus per demagogia xenofoba o nazionalista.

Disarmo e pace

L’impegno incondizionato per la pace e il disarmo è uno degli elementi essenziali della politica di sinistra. Senza pace, non c’è futuro per l’umanità.

L’emergenza del coronavirus deve essere vista come un’opportunità per riportare il disarmo e la pace al centro della elaborazione politica. Le spese militari devono essere notevolmente ridotte a favore dell’assistenza sanitaria e della soddisfazione dei bisogni sociali. È tempo di prendere l’iniziativa per una nuova politica di distensione.

La manovra di guerra “Defender” fu interrotta dall’epidemia di coronavirus, ma non fu completamente cancellata. Pertanto, dobbiamo continuare e intensificare la nostra resistenza contro questi pericolosi esercizi militari. La NATO non è un’organizzazione che difende gli interessi degli europei. Con le sue attività aggressive, è un’organizzazione pericolosa. La NATO deve essere sciolta a favore di un nuovo sistema di sicurezza collettiva, che comprende anche la Russia.

Solidarietà europea e internazionale

Abbiamo bisogno di un’uscita sociale dalla crisi che vada oltre l’attuale modello di integrazione europea. Il nostro obiettivo è un’uscita sociale dalla crisi. Per fare ciò, ogni proposta deve includere diversi componenti:

– La nuova integrazione internazionale dell’Europa dovrà diversificare le sue relazioni internazionali con relazioni commerciali eque basate sul reciproco vantaggio e non sulla concorrenza a scopo di lucro.

– Sosteniamo la promozione di un processo di cooperazione paneuropea tra cui la Russia.

– Lo sviluppo di un modello di Stati socialmente avanzati caratterizzato da solidarietà e cooperazione “orizzontali”, con un programma di ricostruzione produttiva e sostenibile volto a raggiungere la sovranità alimentare attraverso un maggiore sostegno e innovazione per ‘Agricoltura.

– Sostegno all’OMS, in particolare finanziariamente, per svolgere un ruolo più efficace in tali crisi.

– La difesa delle Nazioni Unite minacciata dall’amministrazione degli Stati Uniti nell’interesse del multilateralismo.

– Non è solo un compito per l’Europa ma per il mondo intero. I paesi del sud hanno bisogno di un sostegno finanziario per proteggere le loro popolazioni e migliorare i loro sistemi sanitari.

Dobbiamo garantire che i rifugiati e i migranti siano trattati in conformità con il diritto internazionale ed europeo, che i loro diritti umani e civili siano pienamente rispettati e che la loro vita non sia minacciata dalla detenzione illegale , respingimenti, espulsioni nascoste al pubblico, o per mancanza di assistenza sanitaria, alloggio inadeguato, condizioni di vita inaccettabili, reazioni razziste e xenofobe, sfruttamenti, discorsi o atti di odio di violenza. Dobbiamo concentrarci sulla loro buona istruzione, sulle opportunità di lavoro dignitose e paritarie, sul loro sviluppo personale e sulla loro integrazione sociale.

– Avviare una risposta umanitaria alla situazione di milioni di esseri umani in tutto il mondo che devono lasciare le loro case per sfuggire alla povertà, alla fame, alle malattie e alla guerra e che ora vedranno peggiorare la loro situazione.

– Il mondo deve rimanere unito e la chiave per superare la crisi è la solidarietà internazionale. Vi è una particolare necessità di rafforzare la solidarietà con i popoli del Medio Oriente, Africa, Asia e America Latina, che sono maggiormente a rischio di essere gravemente colpiti dalla pandemia di COVID-19.

– Sottolineiamo un nuovo accento da porsi sui principi culturali e fondato su valori che consentano il pieno sviluppo dell’essere umano in una società egualitaria ed ecologicamente protetta.

In questa prospettiva, il Partito della Sinistra europea invita tutte le organizzazioni delle forze progressiste, ecologiche e di sinistra, e in particolare quelle che partecipano al Forum europeo, a lavorare insieme per sviluppare una risposta progressiva comune all’attuale crisi nell’interesse delle persone.

Il mostro storico del «rovescismo» unisce il Pd e Orbán

AUTORE: Angelo D’orsi

FONTE ILMANIFESTO

La risoluzione del Parlamento europeo, fondata sulla equiparazione tra nazifascismo e comunismo, rappresenta insieme un mostro storico e una bestialità politica. Ma è anche una clamorosa conferma della superfluità “esistenziale” di questo organismo.

Se davvero si vuole una Europa unita, e se la si vuole come si dovrebbe, rifare a fundamentis, il Parlamento europeo sarà semplicemente da eliminare. Un gruppo di signori, godenti di privilegi, che hanno poco o nulla da fare nella vita, sono riusciti a formulare un testo basato su un modesto imparaticcio scolastico, senza capo né coda, un documento lunghissimo, farcito di premesse, di riferimenti interni alla legislazione eurounitaria, ma ahinoi, purtroppo, anche con una serie di ragguagli che pretendono di essere storici, ma sono un esempio di revisionismo ideologico all’ennesima potenza: insomma, il mai abbastanza vituperato «rovescismo», fase suprema del revisionismo, ed è il frutto finale di un lungo lavorio culturale, che dalle accademie è trapassato nel dibattito pubblico, tra giornalismo e politica professionistica.

Il rovescismo riesce a produrre esiti a cui il revisionismo tradizionale non ha avuto il coraggio di spingersi: questo documento è un esempio preclaro di questi esiti.

La linea di fondo, che il rovescismo ha raggiunto, e di cui in Italia abbiamo avuto numerose manifestazioni, è il rovesciamento della verità storica, sulla base di un equivoco parallelismo, che ha illustri precedenti nella filosofia politica, tra fascismo e comunismo, tra fascismo e antifascismo, tra partigiani e repubblichini (per concentrarsi sul nostro Paese): e questo sulla base della nefasta teoria delle memorie condivise, nel documento “europeo” riproposta al singolare, come fonte della “identità” del Continente, a cui l’organo legislativo di una sua parte, sebbene numerosa, pretende di sovrapporsi. L’Unione europea, sarà opportuno ricordare, non è l’Europa, e il Parlamento della Ue non esprime sentimenti, pensieri, sensibilità e, aggiungo, volontà, di alcune centinaia di milioni di cittadini e cittadine dei 27 Stati aderenti.

Ciò detto, la risoluzione, con temerario sprezzo della verità, attribuisce paritariamente la responsabilità della Seconda Guerra mondiale alla Germania nazista e alla Russia sovietica, e in particolare sarebbe la «conseguenza immediata» del Patto Ribbentrov-Molotov, e avendo sottolineato, di nuovo con un esempio di grottesca violenza alla realtà fattuale, che l’istanza unitaria nel Vecchio Continente nasce come risposta alla «tirannia nazista» e «all’espansione dei regimi totalitari e antidemocratici», si richiama alla legislazione di alcuni Paesi membri, che ha già provveduto a «vietare le ideologie comuniste e naziste», e invita gli Stati dell’Ue a prenderli ad esempio.

Leggi tutto

Centinaia di europei, tra cui vigili del fuoco e sacerdoti, arrestati per “solidarietà” ai rifugiati: lo rivelano i dati

May Bulman, Independent – Sabato 18 Maggio 2019
– Link all’articolo originale (ENG)

Stando ad alcune ricerche, sono in netto aumento le persone incriminate per aver fornito cibo, riparo, trasporti ed altri “gesti elementari di gentilezza umana” ai richiedenti asilo in tutta Europa.

Traduzione a cura di: Giuseppina Ferrari, Alessandro De Blasio

Fonte: Meltingpot.org

Vigili del fuoco, sacerdoti e donne anziane sono tra le centinaia di europei arrestati, o indagati, per aver dimostrato “solidarietà” ai rifugiati e ai richiedenti asilo negli ultimi cinque anni. Casi del genere sono nettamente in aumento negli ultimi 18 mesi, lo dimostrano nuove ricerche.

Un database realizzato da openDemocracy, sito web su temi di attualità mondiali, rivela che 250 persone, in tutta Europa, sono state arrestate o incriminate, a vario titolo, per aver fornito cibo, riparo, trasporti e altri “gesti elementari di gentilezza umana” ai migranti.

Il numero di questi casi è aumentato notevolmente nel 2018, con oltre 100 casi registrati lo scorso anno: il doppio rispetto al 2017. Nella maggior parte dei casi del 2018, si è trattato di arresti e accuse per aver fornito cibo, trasporti o altro genere di supporti ai migranti irregolari.

Tra i casi identificati ci sono: un vigile del fuoco spagnolo che rischia fino a 30 anni di carcere per aver salvato alcuni migranti che stavano annegando in mare in Grecia, un olivicoltore francese arrestato per aver sfamato e offerto riparo ad alcuni migranti al confine con l’Italia e una donna anziana danese di 70 anni che è stata condannata, e multata, per aver offerto un passaggio a una famiglia con bambini piccoli.

Leggi tutto

Rossana Rossanda: Macron l’americano

di Rossana Rossanda

Fonte Inchiestaonline.it

 

Diffondiamo da sbilanciamoci.info del 26 aprile 2018

Grande frastuono mediatico in Francia per la visita di Emmanuel Macron al presidente degli Stati Uniti: in questo momento, mentre scrivo, sta concludendosi con un discorso in inglese al congresso. Si sono sprecati gli abbracci, i baci e altre carinerie.

Tutti e due, il Donald e l’Emmanuel, avevano bisogno di una immagine rinfrescata; ma il bilancio politico del presidente francese appare modesto. Soprattutto sono emersi i dissensi a proposito del Medio Oriente e in particolare dell’Iran: Macron era molto più mite di quanto non sia stato il suo ospite americano, che ha addirittura alzato la voce contro i fatali persiani. “Abbiamo riempito il Medio Oriente con miliardi di dollari, senza averne nulla in cambio: adesso la musica cambia!” Macron ha cercato di rimediare la violenza di Trump, proponendo un rinnovo del contratto a suo tempo firmato da Obama, ma Trump non ha ceduto: la scadenza del vecchio contratto è il 12 del mese prossimo. In quel giorno, Trump farà sapere il suo parere.

Neanche sul problema dei dazi su acciaio e alluminio esportati dalla Francia si è lasciato commuovere, ma questo è secondario rispetto alle ambizioni di Macron di svolgere un ruolo internazionale come rappresentante degli stati europei. Effettivamente, è più lui ad aver bisogno dell’amico americano che il reciproco: Trump ha l’aria di stare benissimo anche da solo, mentre Macron si trova in una difficile situazione nel proprio paese.

Lo sciopero dei ferrovieri non declina, anche se è molto difficile da sopportare per gli utenti: anzi, i ferrovieri hanno segnato un punto rifiutandosi di continuare il dialogo fra sordi con la ministra dei trasporti Elisabeth Bornet. Hanno interrotto i rapporti con lei chiedendo di trattare direttamente col presidente del consiglio Edouard Philippe, e dopo qualche diniego, lo hanno ottenuto: l’incontro fra tutte e tre i sindacati e Philippe avrà luogo il 7 maggio. Sono in ballo non soltanto le sorti della SNCF e in particolare il suo ingente debito, ma anche lo statuto speciale dei ferrovieri, che il governo intende rinnovare: effettivamente, era diversa la condizione di lavoro quando i macchinisti dovevano riempire di carbone le locomotive in mezzo a un sudiciume e un calore asfissiante, tuttavia il pensionamento anticipato rispetto ad altre categorie e i vantaggi salariali non sono “privilegi” cui è facile rinunciare. Lo sciopero che si rinnova ogni 10 giorni e dura ogni volta 48 ore, non declina e fino ad oggi è appoggiato anche dall’opinione pubblica che continua ad amare i suoi cheminots. Non solo, ma la compagnia aerea di bandiera Air France si è aggiunta all’agitazione della SNCF, sia pure senza l’andamento a singhiozzo della mobilitazione dei ferrovieri. Anche alcune università si sono inserite nel movimento: niente però di simile alle molte rievocazioni del ’68.

In questa situazione, a Macron giova vantarsi di essere il primo rappresentante di un paese europeo che Trump ha invitato, non senza stendere il tappeto rosso e tutti gli onori del cerimoniale. Anche le due consorti Brigitte e Melania hanno fatto la loro parte: mentre gli uomini si occupavano di politica, cioè delle cose serie, esse, bianco vestite, visitavano una esposizione di Cézanne oppure (Melania) si occupavano del menu e della decorazione del tavolo serale. Naturalmente la stampa degli Stati Uniti ha dato all’evento minore rilievo di quella francese, che non ci ha risparmiato nulla dei tre giorni di visita.

Si taglia tutto, ma mai la spesa per le armi: nel 2018 aumenta del 7%

Fonte MILEX

Articolo di addioallearmi.it del 6 aprile 2018

Tagli alla sanità, ai servizi pubblici, alle pensioni. Tagli ovunque, spesso orizzontali, ignorando le necessità dei cittadini: il tutto nel sacro impegno dei risparmi per le casse dello Stato. Ma nessuno ha pensato di concentrarsi su un capitolo ricco, che non conosce crisi: le spese militari; che nel 2018 sfioreranno (salvo eventuali ritocchi al rialzo) i 25 miliardi di euro. Né tantomeno il governo Gentiloni ha previsto specifiche riduzioni di spesa per gli armamenti. Anzi, al contrario: rispetto allo scorso anno è stato messo in conto un incremento del 7%. Una questione che si pone al prossimo governo e al nuovo Parlamento, peraltro già gabbato sulle reazione per l’export delle armi made in Italy.

L‘Osservatorio Mil€x ha sintetizzato lo studio realizzato sull’ultima legislatura, in relazione alla spesa militare complessiva.

Nei cinque bilanci dello Stato 2014-2018 di diretta responsabilità di questa legislatura c’è stata una crescita di circa il 5% delle spese militari, valutate secondo la metodologia Mil€x. Si è passati da 23,6 miliardi annui ai quasi 25 miliardi appena deliberati, con una crescita avviata due anni fa dai Governi Renzi e Gentiloni che hanno deciso una risalita dell’8,6% (quasi 2 miliardi in più) rispetto al bilancio Difesa del 2015 (l’ultimo a risentire degli effetti della spending review decisa nel 2012 dal Governo Monti e applicata dal successivo Governo Letta anche al Ministero della Difesa).

Leggi tutto

FALLIMENTO A DAVOS – R.Prodi – più disoccupazione e diseguaglianze, Eu 150mld? –

FONTE SINDACALMENTE 

Romano Prodi su Il Messaggero rifletteSul fallimento a Davos: più disoccupazione e disuguaglianza se il mondo rimane in mano ai big di Internet”. Silenzio a Davos.  L’iniquità del mercato se dilagano i big del web. Il compito che erano chiamati a svolgere a Davos i grandi della terra era quello di costruire un futuro condiviso in un mondo fratturato. Un compito nobile, la cui urgenza era sottolineata dalla contemporanea presentazione del rapporto Oxfam sulle disparità.

Rapporto in cui si legge che l’1% della popolazione mondiale controlla oltre la metà della ricchezza dell’intero pianeta e, soprattutto, che questo 1% ha incamerato l’82% della ricchezzacreata nello scorso anno. Lo stesso rapporto insiste sul fatto che a “coloro che cuciono i nostri vestiti, producono il nostro cibo quotidiano  e assemblano i nostri telefoni” è andata una parte trascurabile della ricchezza da loro stessi prodotta. (…)

Sul sito romanoprodi.it, nei giorni precedenti a Davos, è stato pubblicato un articolo in risposta all’articolo di Rita Querzè su Il Corriere della Sera del 24 gennaio 2018 in cui si legge:Oggi in Europa (a 28) si spendono 170 miliardi di euro l’ anno per tre fondamentali capitoli di spesa: educazione continua, salute e cura, alloggi con canoni accessibili. Il problema è che questi 170 miliardi non bastano a soddisfare i bisogni dei cittadini. Lo stato sociale arranca (non solo in Italia). Il risultato è che per questi tre capitoli di spesa mancano all’ appello altri 150 miliardi. Dove trovare questi soldi? …).

In allegatoIl Piano Prodi per l’investimento in infrastrutture sociali”. Alla domanda di Quarzè risponde il «Piano Prodi» per l’ investimento in infrastrutture sociali. Tutto è partito un anno fa, quando l’ Elti – l’ Associazione europea degli investitori di lungo termine di cui per l’ Italia fa parte la Cdp – ha chiesto al «professore» di presiedere una task force con un compito ambizioso: delineare i bisogni sociali insoddisfatti dell’ Europa e indicare una via per la loro soddisfazione. Ieri lo studio è stato presentato a Bruxelles. La stima dei fondi mancanti sarebbe di per sé frustrante se non venisse indicato il modo per reperire queste risorse. E la via sta nella finanza a impatto sociale. In grado di mettere insieme fondi pubblici con risorse private. Dando però a queste ultime una remunerazione di mercato proporzionata al rischio. (…)

Per più informazione aprire gli allegati.

Allegato Dimensione
fallimento_a_davos_piu_disoccupazione_e_diseguaglianze_prodi.doc 196 KB
il_piano_prodi_150_mld_per_welfare.doc 173.5 KB
 

Né generazione Erasmus, né fuga dei cervelli: cosa ci dicono le migrazioni interne in Europa?

fonte dinamopress 

Le favole sulle migrazioni interne all’Ue diffuse dalla stampa, nascondono la realtà di un fenomeno epocale: la costituzione di un mercato del lavoro europeo fatto di sfruttamento e razzializzazione contro cui si scontra il desiderio politico della fuga

Le favole sulle migrazioni interne all’Ue diffuse dalla stampa, nascondono la realtà di un fenomeno epocale: la costituzione di un mercato del lavoro europeo fatto di sfruttamento e razializzazione contro cui si scontra il desiderio politico della fuga. Nei primi anni Duemila, quando ancora i radar statistici faticavano a intercettare i partenti, si parlava dei migranti italiani come Generazione Erasmus; dopo il 2008 con la crisi strutturale del sistema universitario il tema è diventato la Fuga dei Cervelli. Siamo passati nel giro di un decennio da una visione delle migrazioni come dei brevi viaggi a scopo culturale, all’allarme generale per la perdita di un consistente numero di ricercatori e studiosi. Ancora oggi molti giornali come ad esempio “La Repubblica” e “Il Fatto Quotidiano” dedicano intere rubriche alle storie di successo dei nostri connazionali all’estero. Il messaggio, non si sa quanto volontario, è chiaro: l’Italia fa schifo, ma è solo un’eccezione perché altrove la norma è il paradiso. Una bella favoletta da raccontare a tutti i disoccupati e sotto-occupati italiani. La realtà ha tinte molto meno definite, nessuno ci sta aspettando per ricoprirci d’oro ma di sicuro chi decide di vivere nella penisola tra stipendi da fame, welfare decadente e costo della vita in aumento accetta, suo malgrado, di sacrificarsi.

Leggi tutto

Germania, l’ultima trattativa ventotto pagine prima del buio

 fonte strisciarossa.it

Ventotto pagine, buttate giù in cinque ore di negoziati tra gli sherpa. Questo, per ora, è l’esito delle difficili trattative tra il partito di Angela Merkel, la sua sorella bavarese CSU e la SPD per la formazione di un governo di grosse Koalition a Berlino. Il documento, che è stato annunciato insieme dai tre massimi capi dei partiti, la cancelliera, il cristiano-sociale Horst Seehofer e il presidente socialdemocratico nonché candidato (perdente) alla cancelleria nelle elezioni di settembre Martin Schulz, non è un programma. Il programma vero e proprio deve essere ancora negoziato e secondo le previsioni, se tutto va bene, non sarà pronto prima di marzo. Si tratta di una dichiarazione di intenti. I tre partiti hanno messo nero su bianco i punti più controversi sui quali hanno trovato un’intesa di massima. Sui dettagli, il che fare, quando e con quali strumenti legislativi, si discuterà dalla settimana entrante.

Leggi tutto

Marsili: “DiEM25 alla prova del voto: saremo la Podemos europea”

FONTE MICROMEGA

“Non si tratta di fondare l’ennesimo partito ma di costruire ciò che ci è sempre sfuggito: una vera forza politica europea”. Lorenzo Marsili – 32enne fondatore della ong European Alternatives – ha le idee chiare per DiEM25. Le votazioni sul sito del movimento si sono appena concluse. Il 92% ha scelto di andare avanti sul cammino elettorale. Ha vinto dunque l’opzione caldeggiata insieme al frontman Yanis Varoufakis: “Vogliamo costruire un’alleanza capace di portare una lotta senza quartiere tanto contro l’establishment quanto contro la deriva nazionalista, DiEM25 è pronta per la sfida elettorale”. segue  >>> intervista a Lorenzo Marsili di Giacomo Russo Spena

I Paradise Papers sono molto più rivelatori di quanto si pensi

FONTE PRESSENZA.COM

07.11.2017 DiEM25

Quest’articolo è disponibile anche in: Inglese

I Paradise Papers sono molto più rivelatori di quanto si pensi

Ormai nessuno resta più sorpreso dalle rivelazioni sul modo in cui le persone più ricche del mondo nascondono i loro soldi nei paradisi fiscali. Nel 2016 abbiamo visto i Panama Papers e ora ecco una nuova fuga di notizie: i Paradise Papers, che coinvolgono la Regina d’Inghilterra, il Presidente americano Donald Trump, lo Stato russo, multinazionali e personaggi famosi, mostrando anche i legami tra di loro.

Il vero scandalo, come disse Glenn Greenwald quando scoppiò il caso dei Panama Papers, è che tutte queste azioni sono legali. Non restiamo sorpresi perché conosciamo benissimo la mancanza di trasparenza dei potenti, dei ricchi e dei governi. Questa è una conseguenza diretta delle nostre democrazie sbiadite o assenti: la gente ha un potere elettorale limitato, soprattutto nell’Unione Europea.

Le rivelazioni di Snowden e i Panama e Paradise Papers ci mostrano quello contro cui ci troviamo a lottare. Mantenere scappatoie legali per questi paradisi fiscali non è solo immorale, ma offre anche un vantaggio economico a chi nasconde il suo denaro. I paradisi fiscali sono l’ennesimo esempio di un’Europa che mantiene lo status e distoglie lo sguardo mentre allo stesso permette alle élite di continuare con il loro comportamento rapace.

L’Unione Europea deve dare l’esempio ed eliminare i paradisi fiscali nei suoi territori periferici. Tutte le possibilità devono essere considerate: confisca dei beni, divieti di élite viaggio e controllo dei capitali.

I responsabili politici però non lo faranno di loro iniziativa – dobbiamo spingerli e organizzarci per rendere l’alternativa una realtà. Come DiEM25, lottiamo per un’Unione Europea giusta e democratizzata. Vogliamo coinvolgerti e sentire le tue idee, così che i prossimi Paradise Papers ci trovino più uniti!

Aris Telonis è un membro e un volontario del movimento DiEM25.

Fatti non foste a viver come bruti: la resistenza culturale di Sarajevo

 

 

 

La traduzione italiana del libro Sopravvivere a Sarajevo è finalmente acquistabile. Il 18 Ottobre la pubblicazione è stata presentata alla libreria Arcadia di Rovereto da Nicole Corritore e Marco Abram di Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa (OBCT), e da Matteo Pioppi della casa editrice Bébert.

Questo libro raccoglie le testimonianze degli abitanti assediati di Sarajevo, dall’Aprile del 1992 per i successivi quattro anni. Si tratta di una collezione di idee originali per rispondere a bisogni primari, come mangiare e lavare i panni, fino alla realizzazione di concerti, installazioni artistiche e spettacoli teatrali, dando vita ad una vera e propria forma di resistenza culturale. Durante l’assedio, ad esempio, il Festival del Cinema di Sarajevo contò più di 20.000 visitatori, che uscivano di casa sotto le granate per raggiungere le sale cinematografiche.

“La guerra ha causato la morte di circa 11.500 persone a Sarajevo, tra cui più di 1.000 bambini. Nel libro si racconta quel che di “altro” è accaduto in questi anni in città” spiega Nicole Corritore, giornalista di OBCT. “In quegli anni, l’esercizio della creatività è stato estremamente importante”. “Importante quanto il pane, le medicine e l’acquaspiega Suada Kapić, autrice e curatrice di Sopravvivere a Sarajevo, nell’introduzione al libro. La Kapić è parte del collettivo di artisti bosniaci FAMA Collection, che nel 1994 divenne noto per aver realizzato la “Sarajevo Survival Guide”, una guida turistica per chi visitasse la città durante l’assedio, contenente informazioni al limite dell’assurdo, quali il costo di un taxi in centro dovendo correre sotto il tiro dei cecchini. Il materiale raccolto dal collettivo- foto, interviste audio, e molto altro- è stato riordinato nel 2012 in un museo virtuale visitabile online ed ora si concretizza in questo libro. “Sopravvivere a Sarajevo. Condizioni urbane estreme e resilienza: testimonianze di cittadini nella Sarajevo assediata (1992-1995)” è dunque l’ultimo anello di un percorso di raccolta di testimonianze lungo vent’anni.

Leggi tutto

Bolkenstein, De Magistris a testa bassa contro la norma in una lettera all’Anci: “Restringere il campo di applicazione. Pericolo speculazione da parte delle lobbies”

Autore :fabrizio salvatori

FONTE : CONTROLACRISI.ORG

Il Sindaco di Napoli Luigi de Magistris ha inviato al Presidente dell’ANCI Antonio De Caro una nota riguardante la direttiva dell’ UE Bolkenstein. C’è molta agitazione su questa norma, che di fatto sta liberalizzando la gran parte delle attività lavorative di piccolo cabottaggio, più o meno corrispondenti al lavoro autonomo e al commercio. Nei mesi scorsi ci sono state diverse proteste da parte degli ambulanti.

Proteste che portarono il Governo Renzi a concedere una piccola proroga spostando il focus sulle amministrazioni regionali. Ora sta accadendo che ogni regione sta facendo per conto proprio, come in Liguria dove intendono salvare, tra gli altri, gli stabilimenti balneari. Le Regioni, va detto, su questo rischiano, come il caso dell’Emilia Romagna, il ricorso al Tar da parte dell’Antitrust. Il Pd, intanto, ha fatto passare alla Camera una mozione che ha l’obiettivo di “mitigare” gli effetti della direttiva europea. Cosa vorrà dire lo sanno solo loro. Cosa strana, però, Mdp no ha votato a favore mantenendo la sua linea fortemente liberalizzatrice. E’ chiaro che la lettera di De Magistris suona a questo punto come un segnale riscossa. 

Leggi tutto

E’ uscito il numero 98 del Settimanale di Punto Rosso-Lavoro21

E’ uscito il numero 98 del Settimanale di Punto Rosso-Lavoro21

Lo potete scaricare qui:
http://www.puntorosso.it/uploads/1/7/0/3/17033228/lav21-sett-n98-s.pdf

In questo numero:

28 e 30 settembre: le donne si riprendono la piazza

“Il Movimento 5 Stelle? Centrista e non estremista”
La politologa Nadia Urbinati a Lumsanews
di Christian Dalenz

La CGIL e il referendum per la “Autonomia” della Lombardia

L’apocalisse dei socialdemocratici. La Linke cresce, Berlino est è sua
di Jacopo Rosatelli

Ken Loach: «Sto con Corbyn, rifonderà la sinistra»
di Luigi Ippolito

Arnaldo Otegi: “la sinistra non può avere dubbi sul referendum catalano”
di Andrea Quaranta

Buona lettura e diffondete!

***

Referendum “autonomista” in Lombardia, federalismo fiscale, regionalismo.
Milano 24 luglio 2017. Interessante seminario di Articolo 1 Lombardia con una introduzione di Onorio Rosati sull’iter del referendum, del prof. Alessandro Santoro sul cosiddetto federalismo fiscale e della prof.essa Maria Agostina Cabiddu sugli aspetti costituzionali e giuridici. Molto utile per orientarsi in vista della data del 22 ottobre quando in Lombardia e Veneto ci sarà il referendum…
http://www.puntorosso.it/seminari.html

***

EGITTO: LA STAMPA IMBAVAGLIATA, MEDIA PRIVATI SEMPRE PIÙ CONTROLLATI DALLO STATO 

 FONTE NIGRIZIA.IT

I media privati ??in Egitto sono sempre più dominati da uomini d’affari legati al governo e alle sue agenzie di intelligence. A denunciarlo è Reporters senza frontiere (Rsf), in un rapporto diffuso martedì.

“Il dominio del regime sui media continua a crescere e sta anche interessando i media pro-governativi” avverte l’organizzazione per la difesa della libertà della stampa, secondo la quale praticamente tutti i mezzi di comunicazione egiziani sono apertamente a sostegno del governo, che negli ultimi mesi ha bloccato centinaia di siti web, tra cui molti gestiti da giornalisti indipendenti e organizzazioni per i diritti umani. A partire da maggio, le autorità hanno bloccato l’accesso ad almeno 424 siti e ai portali dei servizi VPN, che consentono agli utenti di aggirare tali blocchi. Anche il sito di Reporters senza frontiere è stato bloccato a partire dalla metà di agosto.

Le autorità, inoltre, controllano il lavoro dei giornalisti criminalizzando chi denuncia “false notizie” e arrestando chi è considerato “non allineato”.
La soppressione dei media indipendenti fa parte di una più grande repressione del dissenso, lanciata dopo il golpe militare che ha rovesciato il presidente eletto, Mohamed Morsi, nel luglio 2013.

Il rapporto fa notare che la rete televisiva popolare ONTV e i giornali locali Youm al-Sabea e Sout al-Omma, sono tutti di proprietà di Ahmed Abu Hashima, un imprenditore pro-governativo. Poco dopo aver acquisito la rete nel 2016, le autorità hanno deportato Liliane Daoud, un presentatore televisivo britannico-libanese, critico nei confronti di alcune politiche governative.
Rsf cita anche i casi di Al-Asema TV, di proprietà di un ex portavoce militare, e di Al-Hayat TV, acquistata da una società di sicurezza egiziana. (News 24)

Terminal

di Alessandra Daniele

Sbaglia chi accusa Macron di scarso europeismo perché tratta l’Italia a pesci in faccia. Macron è ancora europeista, solo che non considera l’Italia parte dell’Europa, la fortezza carolingia della quale è impegnato a difendere gli interessi commerciali e coloniali.
E non è certo il solo.
“Fuori dall’Europa”. Cosa prometteranno adesso i nostri abbronzati demagoghi? Siamo già fuori dall’Europa.
Dopo più d’un ventennio di sanguinosi sacrifici, imposti sempre agli stessi lavoratori dalle stesse classi dirigenti in nome dell’europeismo, siamo fuori dall’Europa che conta qualcosa, e ci resteremo per sempre.
Allo Château Macron-Merkel serviamo ancora solo come buttafuori.
Il buttafuori che sta fuori.
Questo compito infame e meschino è l’approdo terminale della stirpe italica: stare sulla soglia del terminal a respingere quelli che i nostri padroni ritengono indegni d’essere ammessi al loro servizio.
Renzi, Salvini, Di Maio, il coro è unanime: “Anneghiamoli a casa loro“.
Siamo i nuovi Gheddafi.
Cosa ci fa credere che alla fine non subiremo la stessa sorte?
Che negando la salvezza agli altri compreremo la nostra?

Per tutta la nostra Storia, per quanto la situazione potesse sembrare disperata, ci siamo sempre illusi che all’ultimo minuto l’avremmo fatta franca. L’Arca non sarebbe partita senza di noi.
E invece sta succedendo.
Chi ci salverà stavolta, Michelangelo, Buffon, Sophia Loren, Sorrentino?
Di certo non Renzi, che non è più in grado di salvare neanche se stesso.
Come i replicanti sintetici a sviluppo accelerato di Blade Runner, il Cazzaro è invecchiato alla stessa velocità alla quale era cresciuto. Adesso è politicamente più vecchio di Berlusconi, e ogni suo tentativo di recuperare il controllo non fa altro che accelerare la decomposizione della sua leadership e del suo partito, che ogni giorno perde un brandello putrefatto.
Per citare Blade Runner: “I topi abbandonano la nave che affonda. E poi la nave affonda”.
Che fine faremo?
Se dalle prossime elezioni non uscirà una maggioranza accettabile per le élite, il paese sarà definitivamente commissariato.
L’Italia sarà divisa in una good company, che comprenderà le bellezze naturali e artistiche, e una bad company, della quale faranno parte gli italiani.
La good company sarà venduta per un euro. La bad company sarà smantellata.

Barca: “Renzi ha fallito. Il cambiamento passa per la società civile”

 FONTE MICROMEGA

Dopo aver tentato senza successo di riformare il Pd, l’ex ministro si è focalizzato sulla cittadinanza attiva: “Bisogna recuperare spazi di confronto e di democrazia nella società. Reclamarli, al limite occuparli perché è necessario l’antagonismo anche duro”. E questo weekend sarà a L’Aquila per il Festival della Partecipazione: “Solo dal basso può rinascere qualcosa ma i tempi saranno lunghi”. Pisapia? “Un progetto perdente”.

intervista a Fabrizio Barca di Giacomo Russo Spena

E’ ancora iscritto al Pd ma il suo impegno politico è altrove. “E’ la mia contraddizione personale” ammette, ridacchiando, Fabrizio Barca il quale, da mesi, trascorre il suo tempo nel capire, ed organizzare, le ragioni dell’associazionismo diffuso nel Paese. Sì, perché dopo aver fallito nel tentativo di riformare il Pd partendo dai circoli e dalla base del partito – tentativo spazzato via da Renzi e i suoi adepti – Barca intravede, adesso, nella cittadinanza attiva l’unico motore per un cambiamento possibile: “Nella società civile esiste quel giusto mix tra teoria e prassi. E da lì che può rinascere qualcosa”. Non a caso, questo weekend sarà a L’Aquila per il Festival della Partecipazione – promosso e organizzato dal 6 al 9 luglio da ActionAid, Cittadinanzattiva e Slow Food Italia – dove terrà una lectio magistralis su “Disuguaglianze: cittadini organizzati, partiti, Stato”.

Leggi tutto

E’ uscito il numero 90 del Settimanale di Punto Rosso-Lavoro21

E’ uscito il numero 90 del Settimanale di Punto Rosso-Lavoro21

Lo potete scaricare qui:
http://www.puntorosso.it/uploads/1/7/0/3/17033228/lav21-sett-n90-s.pdf

In questo numero:

Soffiano in Italia e in altri paesi dell’Europa venti e venticelli nuovi e importanti
di Luigi Vinci

Il salto del Grillo nella pancia del neofascismo europeo
di Roberto Mapelli

Articolo Uno-Mdp sbarra la strada a Renzi (e alla sua idea di fare le primarie con Pisapia)
Enrico Rossi: “L’ex premier è un piazzista”.

Salario minimo e minijob in Germania
di Toralf Pusch, Hartmut Seifert

Buona lettura e diffondete!

***

Riccardo Petrella: La tragedia della lotta al terrorismo

Riccardo Petrella: La tragedia della lotta al terrorismo

 

Quanto più gli Stati, soprattutto Usa e Ue, intensificano e ampliano le proprie azioni di guerra contro il terrorismo – in particolare di matrice islamica, jihadista – all’interno dei paesi considerati i focolai principali del terrorismo globale, più si assisterà alla distruzione di vite umane, alla devastazione economica e ambientale, senza neanche riuscire ad eliminare le cause del problema. Anzi, il contrario.

La tragedia si è consumata di nuovo durante il G7 a Taormina (26 e 27 maggio) in cui l’unico risultato di cui possono rallegrarsi i capi di Stato e di governo partecipanti è la “Dichiarazione comune sulla lotta contro il terrorismo”. Cosi, la prima ministra britannica May si è scapicollata a tornare nel suo paese per vendere come un gran successo la firma della dichiarazione. Gli attentati di Manchester e le elezioni politiche di giugno dettano le priorità. Dal canto suo, il guerrafondaio presidente americano Trump, ha riportato a casa non solo quella firma, ma anche numerosi contratti di vendita di armi all’Arabia Saudita, siglati il 21 maggio, per un valore di 110 miliardi di dollari. Secondo i firmatari, le costose armi sono assolutamente necessarie per aiutare l’Arabia saudita a sconfiggere il terrorismo nella regione e difendersi dalle “minacce” dell’Iran. Va tutto bene pure per gli altri capi di Stato e primi ministri europei, membri Nato, che hanno votato il 25 maggio a Bruxelles (ivi compreso il dittatore turco) per l’entrata della Nato nella “coalizione mondiale contro Daesh”, contravvenendo alle regole dello Statuto. Quante “iniziative” militari in soli cinque giorni! Ma tutto è permesso se fatto nel nome della lotta globale al terrorismo, per la “nostra” sicurezza.

Leggi tutto

LE CONDIZIONI DEL LAVORO NELLE CATENE EUROPEE DI PRODUZIONE. IL CASO DELL’AUTOMOTIVE

Tansform Europa, Punto Rosso, Fondazione C. Sabattini e Fiom Lombardia
organizzano

LE CONDIZIONI DEL LAVORO NELLE CATENE EUROPEE DI PRODUZIONE.
IL CASO DELL’AUTOMOTIVE

Milano Venerdì 9 giugno ore 9,30 – 14
CGIL Lombardia, via Palmanova 22 (MM2 Udine)

Saluti: Aimilia Koukouma (Transform Europa), Alessandro Pagano (FIOM Lombardia), CGIL Lombardia

Introduzione: Matteo Gaddi (Punto Rosso/Fondazione Claudio Sabattini)

Intervengono:

Michele De Palma (Responsabile Nazionale Automotive FIOM)

Delegati di fabbriche automotive del territorio

Romain Descottes (CGT Francia)

Carlos Chicano Sanchez (CC.OO. Catalogna)

Stratos Kapetanios (Sindacato dell’Acciaio Grecia)

Krzysztof Laszczak (OPZZ Polonia)

Roland Kulke (Fondazione Rosa Luxemburg Germania)

Tibor Mesman (Magyar Szakszervezetek Orszagos Szovetsege Ungheria)

Conclusioni: Francesco Garibaldo (Direttore Fondazione Claudio Sabattini)

Lingue: Italiano – Inglese (traduzione simultanea)
info@puntorosso.itwww@puntorosso.it

Grecia, la battaglia sul debito

L’accordo tecnico raggiunto tra il govero greco e i creditori il 2 maggio porta a compimento il processo di accordo politico intrapreso dal premier Alexis Tsipras fin dal vertice di Malta

L’accordo tecnico raggiunto tra il govero greco e i creditori il 2 maggio porta a compimento il processo di accordo politico intrapreso dal premier Alexis Tsipras fin dal vertice di Malta: usando la consueta strategia di rifiutare sempre ogni concezione “tecnica” e “puramente economica” delle strategia imposta al paese, Tsipras aveva sollecitato la cancelliera Merkel e i massimi responsabili dell’UE a mettere freno al pericoloso gioco che portava avanti il FMI con la complicità del ministro tedesco delle Finanze Wolfgang Schauble. Il risultato è stato un compromesso, doloroso per Atene, ma necessario per portare avanti lo scottante problema del debito.

Si può dare per scontata la conclusione favorevole della seconda valutazione, che era in sospeso fin dalla fine di novembre, alla prossima riunione dell’Eurogruppo. Obiettivo importante per Atene, non tanto per la tranche di quasi 8 miliardi che saranno versati per il pagamento di varie scadenze del debito. L’importanza consiste nel fatto che la Grecia può ragionevolente sperare di potere oramai entrare nel programma Quantitative Easing della BCE.

Leggi tutto

Macron-Le Pen, non votare il male minore è una scelta assurda e tragica

Riprendiamo integralmente dal sito www.micromega.net”,  © Paolo Flores d’Arcais

di Paolo Flores d’Arcais

Il 25 aprile, festa nazionale perché festa della Liberazione, cioè della vittoriosa insurrezione antifascista, la testata on line dell’Espresso ha pubblicato una intervista all’economista di sinistra Emiliano Brancaccio (realizzata da Giacomo Russo Spena), il cui titolo, perfettamente perspicuo, recitava: “Perché io, di sinistra, non voterei Macron per fermare Le Pen”.

L’intervista era in realtà stata proposta a MicroMega, cui Brancaccio collabora (un suo saggio uscirà sul prossimo “Almanacco di economia” a metà giugno), e di cui Giacomo Russo Spena è anzi una colonna. Ma ho deciso di rifiutarla, proprio per non dare spazio a una tesi che ritengo logicamente assurda e politicamente tragica (nel senso attivo di foriera di tragedie).

Credo che di fronte al dilemma tra un banchiere liberista (espressione dunque del capitale finanziario internazionale, che ormai è mera speculazione selvaggia e produzione di azzardi tossici, responsabile della crisi in cui il mondo è avvitato,) e un politico fascista, la scelta dovrebbe scattare automatica, istintiva, addirittura pavloviana: si vota il banchiere, benché sia voto orripilante, perché il fascismo resta il male assoluto. Questa consapevolezza dovrebbe essere una sorta di anticorpo, di difesa immunitaria, presente come incancellabile DNA nell’organismo neuronal-ormonale di ogni democratico.

Una difesa immunitaria che invece sta rovinosamente venendo meno, e nelle giovani generazioni sembra ancor più che nelle altre, benché il fenomeno sia ormai generale. Il fascismo è visto solo come un male tra gli altri, una forma di sfruttamento tra le altre, per cui tra due mali diventa possibile e anzi auspicabile e perfino doveroso e infine gioioso (così un intellettuale della sinistra francese) astenersi.

L’argomentazione di Brancaccio (l’intervista ha avuto sul web una eco enorme, è stata ripresa da “Mediapart”, continua a circolare, e del resto è in sintonia con lo sciagurato ponziopilatismo di Melanchon) in sostanza è la seguente: la politica finanziaria iperliberista è la causa del lepenismo, dunque sarebbe assurdo immaginare di combattere l’effetto sostenendo la politica che l’ha causato.

L’argomento ha fatto presa, sembra accattivante, come del resto tutte le più efficaci fallacie logiche. Perché di violazione della logica innanzitutto si tratta.

La politica finanziaria (ma anche economica in tutti i suoi aspetti) liberista, infatti, non è la causa del lepenismo, è la responsabile della crisi economica, della mostruosa hybris di diseguaglianza che avvilisce e mina la democrazia in Europa e negli Usa, della crescente e giusta rabbia di masse popolari sempre più vaste, del loro anelito sacrosanto e razionale a punire gli establishment. Il lepenismo è solo una delle risposte a questa situazione. La politica di Sanders, di Podemos, e altre che potranno nascere, costituiscono altrettante risposte possibili alla mostruosità sociale e all’inefficienza economica che il liberismo sempre più selvaggio (ma egemone ahimè da tre decenni e mezzo) incuba e produce.

Insomma, il liberismo finanziario sfrenato, di cui Macron è grand commis, non produce una risposta politica (il lepenismo), produce una catastrofe sociale, il cui esito politico dipende dalla capacità delle culture, dei cittadini, e soprattutto delle elités politiche, che quel liberismo combattono.

Se la conseguenza del liberismo fosse il lepenismo, se il rapporto fosse di causa-effetto, vorrebbe solo dire che ogni agire a sinistra (non le “sinistre” di establishment, sia chiaro, che sinistre non sono e almeno dai tempi di Blair sono solo un’altra forma di destra), ogni impegno per giustizia-e-libertà è mera velleità, è un inconcludente e patetico agitarsi. Che insomma siamo davvero alla famosa fine della storia: hybris liberista o fascismo, il destino è ormai unico e in atto.

La domanda che a sinistra (la sinistra della società civile e della coerenza e intransigenza) ci si deve porre è perciò: la lotta per una crescente giustizia-e-libertà, dove diritti sociali e diritti civili vanno di pari passo inestricabilmente intrecciati, è più difficile se Presidente diventa un fascista o se vince un banchiere liberista? Quale delle due prospettive minaccia costi umani più grandi, sofferenze, sacrifici, per i cittadini e la lotta giustizia-e-libertà?

Qualcuno proclamerà che comunque anche un Presidente fascista non significherà il fascismo … che le istituzioni in Francia sono troppo solide … Vogliamo fare l’elenco di quanti in Italia mentre emergeva Mussolini, in Germania mentre crescevano i consensi per Hitler, hanno avanzato analoghi ragionamenti? Naturalmente è vero che la storia non si ripete mai tale e quale, ma che la prima volta sia tragedia e la seconda farsa è una generalizzazione di Karl Marx tanto brillante sul piano retorico quanto calamitosamente infondata.

Sia chiaro, che personaggi come Macron risultino a un cittadino di sinistra (ma direi a ogni cittadino coerentemente democratico) detestabili financo antropologicamente, è alquanto ovvio. Sarebbe anzi anormale, e segno di insensibilità etica e cecità politica, se non fosse questa la reazione standard, giustificatissima sul piano emotivo e addirittura ancor più sul piano razionale. Ma trarne l’equivalenza con il fascismo sarebbe razionalmente buio ed emotivamente misero. Vorrebbe dire, oltretutto, disconoscere il fondamento delle democrazie europee (di quel che ancora ne resta), la loro Grundnorm, che come insegnava Kelsen regge tutto l’edificio normativo ma non può essere a sua volta una norma, bensì un fatto storico. Quella Grundnorm è la Resistenza antifascista, che vieta di equiparare anche il più reazionario e detestabile dei politici al politico fascista.

(4 maggio 2017)

Workers Memorial Day – Remembering the dead and fighting for the living

28 Apr 2017, By

 

 

Every year more people are killed at work than in wars. Most don’t die in tragic “accidents”. They die because an employer decided their safety or health just wasn’t that important a priority. The total number of people whose lives are cut short because of an illness or injury that results from work is over 20,000. Most are cancers and lung diseases. Workers’ Memorial Day commemorates those workers.

Workers’ Memorial Day is held on 28 April every year. All over the world workers and their representatives conduct events, demonstrations, vigils and a whole host of other activities to mark the day, which is intended to serve as a rallying cry to “remember the dead, but fight for the living”.

This year International Workers Memorial Day will have the theme “Good health and safety for all workers whoever they are” and will focus on inequalities in occupational health and the role unions play in narrowing the inequalities gap.

This fits in well with what is happening in the UK with the rise of precarious and vulnerable employment, bogus self-employment and the growth of the GIG economy. All of these have the effect of depriving workers of their right to a safe workplace as employers deny responsibility for those who work for them or who operate “under the radar” of the diminishing number of health and safety inspectors and other regulators.

Leggi tutto

I banchieri, i fascisti e la società dei due terzi che diventa di uno soltanto di Alfredo Morganti – 26 aprile 2017

FONTE : ATLANTIDE.ORG

Pubblicato il 28 aprile 2017 | di Alfredo Morganti

I banchieri, i fascisti e la società dei due terzi che diventa di uno soltanto

di Alfredo Morganti – 26 aprile 2017

Hanno già pronto il capro espiatorio, tanto per portarsi avanti col lavoro. Nel caso, improbabile, che la Le Pen prevalga, la colpa si riverserà su Mélenchon, che non avrebbe fornito indicazioni di voto per il secondo turno delle presidenziali. Copione facilissimo, quasi banale. Titolo del film: colpa della solita vecchia sinistra. Dopo di che andate a vedere come stanno davvero le cose. Secondo il politologo Henri Vernet (Repubblica di oggi) “molti elettori di Mélenchon provengono dal Front National. Sono quegli ex comunisti che avevano virato nel tempo verso l’estrema destra e che il candidato gauchiste ha saputo sedurre”, sottraendoli di fatto a Le Pen.

La verità è esattamente l’opposto, quindi. Senza l’azione di Mélenchon oggi la destra sarebbe più forte, senza questa sottrazione di consensi a sinistra adesso guiderebbe il primo turno, con effetti psicologici rilevantissimi sulla sfida finale. Certo, i sondaggi dicono che un terzo di elettorato gauchista è pronto a sostenere Le Pen, perché non vuole banchieri (il nuovo!) al potere, ma questa è un’altra storia, o almeno sempre la stessa: in assenza di un argine credibile a sinistra, molti ceti popolari sono suggestionati dalle sirene di destra e dal programma sociale della candidata del Front National.

Qual è la lezione? Che ci sono forze politiche che svolgono compiti essenziali, come quelli di filtrare e trattenere il consenso e la ribellione antisistema che altrimenti si radicalizzerebbe a destra, e così di tenere fuori i ceti popolari dal fronte fascista o razzista, impedendo che si sviluppi una saldatura completa tra popolo e radicalismo anche violento e antidemocratico. È una funzione che in Italia svolge ancora Grillo, per dire, ma che in Francia è compito soprattutto della sinistra radicale. Una funzione ben svolta peraltro da Mélenchon, il cui risultato è stato davvero eccellente. In virtù della semplificazione indotta dal ballottaggio a due, adesso quei voti ritornano però a ‘ballare’, e riconfluiranno in parte verso la Le Pen. D’altra parte di tratta di un sistema, quello del ballottaggio personalistico, che costringe a scegliere il meno peggio oppure richiede voto ‘utile’, spingendo con ciò alla radicalizzazione a destra anche del voto che tale non è.

Più in generale la grande complessità, il grande disagio, la società del due terzi che diventa società di un terzo soltanto, invocando il maggioritario per garantire la ‘governabilità’ con una scelta secca, di spirito comunque plebiscitario, toglie di fatto rappresentanza a vasti certi popolari, li costringe a una modalità di voto che, quando la crisi morde, spinge all’astensionismo oppure al voto rabbioso, antisistema, di destra. La crisi di rappresentanza è frutto di un sistema che ‘sfronda’ il consenso, lo taglia con l’accetta, lo bipolarizza a forza, sperando che ciò basti a far vincere i ‘banchieri’, ottenendo spesso, invece, l’effetto contrario, con i violenti, gli xenofobi, i razzisti, i nazionalisti a prevalere. In un gioco delle parti, sempre più scoperto, che inorridisce.

Nella crisi di rappresentanza casca l’asino della politica

fonte  NUOVATLANTIDE.ORG  che ringraziamo

di Alfredo Morganti – 25 aprile 2017

Il suo ghostwriter ha 27 anni. Il suo stratega 29. Il coordinatore della sua campagna appena 24. Macron è l’uomo nuovo, ed è al vertice di una cordata di collaboratori nemmeno trentenni. È bene, è male? Dite voi. Va pure detto che è un uomo senza partito, o almeno con un partito personalissimo, praticamente cucito indosso. Ha un programma molto vasto, di cui si tratterà di capire le priorità, come ha già evidenziato D’Alema. Mettere in un calderone tutto, anche cose buone, non vuol dire nulla, bisogna vedere da dove si parte. Al primo turno ha raccolto meno di un quarto dei voti. Secondo Marc Lazar, si è già trattato di voto utile, prodotto nel timore che la sua avversaria potesse prevalere da subito, anche al primo turno. Pare che sia stato votato in massima parte per il programma, a differenza degli elettori di Le Pen, che hanno scelto lei con convinzione. Macron prende voti nelle grandi città, nei territori più prosperi e coesi, tra le professioni e le eccellenze. Il suo elettorato è soprattutto di centrosinistra, ma, dice sempre Lazar, dovrà cercare voti a destra al secondo turno. Le Pen, al contrario, prende voti nei ceti popolari, nella Francia dove la crisi morde di più, nei territori più svantaggiati. Mélenchon invece ha sfondato tra i giovani di 18-24 anni, dove è stato primo. Se questa è la geografia del voto, donde tanto ottimismo?

Tant’è che lo stesso Lazar oggi su ‘Repubblica’ avanza qualche dubbio, e a ragione. Non c’entrano il fascismo e l’antifascismo, o almeno non bastano a spiegare la fenomenologia possibile del voto. Le ragioni sono altre, sociali, legate alla crisi, alle divaricazioni sociali, territoriali, al disagio diffuso, alla provincia che guarda in cagnesco i ceti urbani. Insomma, nessuno si porta da casa nulla, tanto più in una situazione di tale marasma politico. Ripetiamolo: i partiti politici cosiddetti tradizionali (ma io direi i partiti politici tout court) in Francia non sono andati al ballottaggio. Si parla esplicitamente di populismo vs europeismo-globalizzazione, non più di destra vs sinistra. E se c’era nel mondo politico un elemento di effettiva stabilità erano proprio i partiti politici e la divisione tra una destra e una sinistra ad assicurarla in massima parte. Non la legge elettorale garantiva maggioranze, ma parlamenti rappresentativi e ben funzionanti. La connessione tra istituzioni e popolo, non altro, contrastava il dissesto politico.

A forza di sparare su tutti questi elementi, nell’unico intento di offrire la strada spianata al neoliberismo e a una società individualizzata e mediatizzata, oggi la concreta rappresentanza politica e la stabilità che ne conseguiva non esistono più. È una società peggiore e meno coesa quella che abbiamo davanti. La politica non fa più 2+2: ci sono gli algoritmi più astrusi a governare il nostro destino di utenti e consumatori. E allora ditemi come potrebbe Macron dormire tra due guanciali? E come fanno a Bruxelles a sentirsi tanto sereni? Ma il punto è un altro: come potrà Macron presiedere il Paese, nel caso, con questa risicata minoranza elettorale e sociale dalla sua parte? Ed è proprio qui, nella debolezza del maggioritario in tempi di crisi come questi, nella mancanza di rappresentanza e legittimazione, e nella sciocca idea della governabilità, che casca l’asino della politica.

#Io sto con Gabriele. Libertà per il giornalista arrestato in Turchia

di Anna Polo

fonte PRESSENZA.COM

Organizzato in due giorni dal gruppo “Io sto con la sposa”, spostato all’ultimo momento da Piazza Scala a Largo Cairoli, il presidio milanese per la liberazione del documentarista Gabriele del Grande, attualmente in isolamento nel centro di identificazione ed espulsione di Mugla, in Turchia, ha attirato centinaia di persone.

Cartelli colorati posati per terra, striscioni e tanti fogli che riproducono le fattezze della gente che Gabriele ha incontrato nei suoi viaggi e di cui ha raccontato la storia, trasformando le vittime in eroi, esaltandone la bellezza, la forza e la determinazione.

Uno degli organizzatori, amico di Gabriele, ripercorre i giorni seguiti all’arresto al confine con la Siria, la raccomandazione di “tenere un profilo basso” e di “aspettare Pasqua e poi il referendum in Turchia”, la scoperta che Gabriele non sapeva niente dell’interessamento del console italiano, che non è ancora riuscito a incontrarlo e gli interrogatori senza avvocato e senza un capo d’accusa preciso. A quel punto, racconta,  abbiamo deciso di smetterla con il profilo basso e lanciato una mobilitazione che si è diffusa in tutta l’Italia. Cita l’appello per la liberazione di Gabriele, da sottoscrivere scrivendo alla mail iostocongabrielelibero@gmail.com e la visita prevista per domani del console italiano e di un avvocato – un primo successo, ottenuto grazie alla pressione.

Parla poi la sorella della compagna di Gabriele, Alexandra, ringraziando tutti, a nome della famiglia, per la presenza e la solidarietà. Segue l’invito a sollevare i fogli con i visi disegnati e l’hashtag #Iostocongabriele e la zona pedonale si trasforma in una moltitudine di braccia alzate.

Intervengono quindi i rappresentanti delle associazioni che hanno aderito al presidio, tra cui Razzismo brutta storia, la rete Milano senza Frontiere, da anni impegnata nella denuncia delle migliaia di morti nel Mediterraneo e Amnesty International, che ricorda le gravissime violazioni della libertà di stampa in Turchia, con centinaia di giornalisti in carcere. Gli amici di Gabriele si alternano al microfono nella lettura dei suoi scritti, lucide e umane denunce delle ingiustizie di cui è stato testimone nel corso del suo instancabile lavoro di documentazione, delle leggi sbagliate che impediscono di viaggiare in aereo, con un visto e che sono responsabili di migliaia di morti ai confini europei. E’ tempo di disobbedire, di ribellarsi, di dichiarare che nessun essere umano è illegale, concludono.

Poesie e testimonianze di siriani e curdi e poi la Banda degli Ottoni, per un finale musicale che piacerebbe molto a Gabriele. In attesa di rivederlo libero, al più presto possibile.

Leggi tutto

E’ uscito il numero 82 del Settimanale di Punto Rosso-Lavoro21

E’ uscito il numero 82 del Settimanale di Punto Rosso-Lavoro21

Lo potete scaricare qui:
http://www.puntorosso.it/uploads/1/7/0/3/17033228/lav21-sett-n82-s.pdf

In questo numero:

Giorni di festa ma non per tutti. L’illusione del commercio senza limiti
di Enrico Rossi

Pensioni in Brasile
a cura di Teresa Isenburg

“Il mondo al tempo dei quanti”. Perché il futuro non è più quello di una volta
Recensione del libro di Mario Agostinelli e Debora Rizzuto di Luigi Mosca,
direttore laboratorio Fisica delle Particelle di Modane (France)

Geopolitica : le intenzioni della Serbia di acquistare S-300

Il portavoce del presidente russo Dmitry Peskov ha commentato i piani della Serbia di comprare dalla Russia i sistemi missilistici S-300; ha dichiarato che il tema della cooperazione tecnico-militare (VCO) appare nell’agenda delle comunicazioni di alto livello.

“Il tema della cooperazione tecnico-militare è legato ad una serie di questioni molto sensibili. Certamente esso si trova all’ordine del giorno nelle comunicazioni di alto livello” ha risposto Peskov alla domanda se la questione delle consegne degli S-300 sia stata discussa con il presidente serbo.

La scorsa domenica il Premier serbo Aleksandr Vucic ha dichiarato che Belgrado ha bisogno di due divisioni di sistemi missilistici antiaerei S-300 e un reggimento di comando, e il loro acquisto è in corso di valutazione con la Russia e la Bielorussia. Il presidente serbo ha personalmente parlato con il presidente russo Vladimir Putin e il presidente bielorusso Alexander Lukashenko.
FONTE SPUTNIK

Commento di Editor
Inquietante questa volontà del governo serbo di acquistare missili S-300 russi. Chi sono nell’immaginario del governo serbo i nemici da cui difendersi con questo sistema d’arma ?
Sulle concrete motivazioni per un acquisto importante di un sistema d’arma così potente da un paese economicamente modesto sarebbe opportuno avere maggiori conoscenze. Cosa dice in merito  la rappresentante dell’Europa Mogherini ? La crescita delle tensioni proprio nell’area balcanica, zona faglia tra occidente e medio oriente è motivo di seria preoccupazione. 

Alcune caratteristiche di questo sistema d’arma.

Leggi tutto

Chomsky: “Stati Uniti la più grande minaccia per la pace nel mondo, non l’Iran”

Fonte : Nuovatlantide.org

di Cristina Amoroso – 7 aprile 2017

Il mondo è concorde. Non è l’Iran la più grande minaccia per la pace nel mondo, ma gli Stati Uniti. Da tempo lo sostiene Noam Chomsky, il dissidente politico di fama mondiale, linguista, autore di un centinaio di libri, professore emerito presso il Massachusetts Institute of Technology, dove ha insegnato per più di mezzo secolo. Nel corso dei primi 75 giorni dell’Amministrazione Trump, la Casa Bianca ha imboccato più passaggi per aumentare la possibilità di una guerra degli Stati Uniti con l’Iran. Trump ha incluso il Paese del Golfo in entrambi i divieti di viaggio per i Paesi musulmani. Come candidato alla presidenza, Trump ha minacciato di smantellare l’accordo nucleare con l’Iran.

A settembre del 2015, in un discorso alla New School di New York, Noam Chomsky, spiegando il motivo per cui egli riteneva gli Stati Uniti la più grande minaccia alla pace nel mondo, parlava degli Usa come di “uno Stato canaglia, indifferente al diritto e alle convenzioni internazionali, con il diritto a ricorrere alla violenza a volontà”.  In questi giorni in uno show televisivo, Democracy Now, condotto dal giornalista Juan González, Chomsky ha ripreso il tema dei rapporti statunitensi con l’Iran, sulla questione: “Perché gli Stati Uniti insistono su come impostare le potenziali cause di guerra con l’Iran?”.

E’ una vecchia questione che va avanti da molti anni. Proprio nel corso degli anni di Obama, l’Iran è stato considerato come la più grande minaccia alla pace nel mondo. “Tutte le opzioni sono aperte”, frase di Obama, che significa, se vogliamo usare le armi nucleari, siamo in grado, a causa di questo terribile pericolo per la pace. I motivi di preoccupazione vengono articolati molto chiaramente e ripetutamente da alti funzionari e dai commentatori negli Stati Uniti.

Ma esiste un mondo là fuori che ha le sue opinioni, che sono facilmente rintracciabili da fonti standard, come la principale agenzia di sondaggi statunitense; la Gallup che raccoglie sondaggi regolari di opinioni internazionali. Alla domanda: quale Paese pensi sia la più grave minaccia per la pace nel mondo? La risposta è inequivocabile: gli Stati Uniti con un margine enorme, rispetto agli altri Paesi. Molto distanziato il Pakistan, gonfiato sicuramente dal voto indiano. Ancora più distanziato l’Iran, appena accennato. Questa è una di quelle cose che non vanno dette, infatti i risultati che si trovano nella principale agenzia di sondaggi statunitense, non vengono riportati in quella che chiamiamo stampa libera.

Allora, perché l’Iran viene considerato la più grande minaccia alla pace nel mondo?

La risposta ci viene – afferma Chomsky – da una fonte autorevole di un paio di anni fa, la comunità di intelligence che fornisce valutazioni periodiche al Congresso sulla situazione strategica globale. Al centro del loro rapporto, naturalmente, c’è sempre l’Iran con relazioni abbastanza coerenti. Riferiscono che Teheran ha spese militari molto basse, anche per gli standard della regione, molto più basse dell’Arabia Saudita, di Israele e di altri Paesi. La sua strategia è di difesa. Vogliono scoraggiare gli attacchi abbastanza a lungo, perché siano trattati dalla diplomazia. La conclusione dell’intelligence, che è di un paio di anni fa, é la seguente: “Se si stanno sviluppando armi nucleari, che noi non conosciamo, sarebbero parte della loro strategia di dissuasione”.

Ora, quale è il motivo per cui gli Stati Uniti e Israele sono ancora più preoccupati per un deterrente?

Chi è preoccupato per un deterrente? Coloro che vogliono usare la forza. Coloro che vogliono essere liberi di usare la forza sono profondamente preoccupati per un potenziale deterrente. Quindi, “Sì, l’Iran è la più grande minaccia alla pace nel mondo, potrebbe scoraggiare il nostro uso della forza”, conclude Chomsky.

di Cristina Amoroso

 

Turchia: chieste condanne fino a 43 anni di carcere per giornalisti e dirigenti del quotidiano ‘Cumhuriyet’, accusati di aver sostenuto Gulen e il Pkk attraverso l’uso “fazioso e strumentale della libertà di stampa”

Dopo 151 giorni di carcere preventivo, deciso sulla base dello stato di emergenza seguito al tentato golpe dello scorso luglio, la procura di Istanbul ha accusato di golpismo giornalisti e dirigenti del quotidiano Cumhuriyet e presentato la richiesta di rinvio a giudizio per 19 imputati, in testa alla lista dei quali figura l’ex direttore Can Dundar, attualmente in Germania e già in carcere tra novembre 2015 e gennaio 2016 per un’altra vicenda.

Le richieste del pubblico ministero, segnala sul suo sito la Fnsi, variano tra i 7 anni e 6 mesi e i 15 anni di reclusione per Dundar, il suo successore alla direzione del quotidiano Murat Sabuncu e i membri del consiglio direttivo Kadri Gursel, Aydin Engin, Gunseli Ozaltay e Bulent Yener, tutti accusati di far parte di un’organizzazione terroristica armata e aver fornito sostegno a organizzazioni terroristiche senza esserne membri.

SEGUE SU FONTE  PRIMA

Piigs: critica dell’economia suina

Autore: Luca Cangianti

Fonte  Carmillaonline

Veder  scorrere una bibliografia di teoria economica nei titoli di coda non è qualcosa di comune, soprattutto se il documentario cui si è assistito aggancia l’attenzione dello spettatore su un tema ritenuto per soli addetti ai lavori: l’austerità europea e i suoi effetti nefasti sulla vita quotidiana di milioni di persone. Dopo cinque anni di studio sui testi, di riprese e di lavoro in post-produzione, Piigs – Ovvero come imparai a preoccuparmi e a combattere l’austerity sarà in sala il prossimo aprile. Realizzato anche grazie a un’azione di crowdfunding, il lungometraggio è diretto da Adriano Cutraro, Federico Greco e Mirko Melchiorre, mentre la voce narrante è quella di Claudio Santamaria.1
Intervistando alcuni noti economisti, saggisti e scrittori di orientamento eterodosso (tra cui Noam Chomsky, Yanis Varoufakis, Warren Mosler ed Erri De Luca) il film decostruisce il pensiero economico dominante e le sue applicazioni incorporate nella struttura istituzionale europea. Il montaggio è incalzante con molte sottolineature ironiche, l’esposizione è fluida e divulgativa anche grazie a grafici, animazioni e a una grande quantità di materiale audiovisivo d’archivio. Piigs si concentra sulla pars destruens, cioè sulla dimostrazione che le regole dei trattati europei sul deficit, sul debito e sull’inflazione sono frutto di casualità, pressapochismo e perfino di cialtroneschi errori di calcolo su file Excel. Ciò nonostante un effetto, e non di poco conto, tali regole finiscono per produrlo: Chomsky sostiene che la struttura dell’Ue sia stata un’arma fenomenale per distruggere lo stato sociale e riaffermare il più rigido comando sul lavoro; Vladimiro Giacché aggiunge che i trattati europei hanno finito per rappresentare una costituzione parallela in contrasto con molti dei diritti sociali sanciti da quella italiana.2 Nel frattempo, a causa delle politiche economiche previste dai trattati, i “paesi maiali”, i Piigs per l’appunto (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna), sono confinati in una condizione semicoloniale nei confronti delle economie centrali guidate dalla Germania, mentre aumentano disoccupazione, povertà e desertificazione industriale.

Tale versante teorico è intersecato dalla storia esemplare della cooperativa sociale Il Pungiglione e della sua combattiva presidente Claudia Bonfini. Questa organizzazione non profit si occupa di erogare servizi sociali impiegando anche persone disabili e in condizioni di disagio, ma a causa dei vincoli imposti dal patto di stabilità ha maturato un credito nei confronti degli enti locali che rischia di condurla alla chiusura. Le vicende della cooperativa, i dialoghi con un’amministrazione pubblica incapace di gestire la catastrofe umana in corso, le voci dei lavoratori rotte dalla commozione durante le assemblee, la musica e i balli di chi riscopre vita e dignità nella protesta, sono enzimi emotivi che accompagnano il ragionamento macroeconomico.
Cutraro, Greco e Melchiorre ci dimostrano che nei palazzi di vetro e acciaio a Bruxelles e a Francoforte c’è qualcuno che ci sta prendendo per i fondelli. Piigs è un dispositivo filmico fatto per scatenare il dibattito: quando in sala si accendono le luci non si torna a casa in silenzio, è impossibile non discutere, non sentirsi chiamati in causa, non arrabbiarsi, magari proprio con quei tre registi che ci sottraggono alle narrazioni consolidate, che sostengono che basterebbe uscire dall’euro e stampare moneta perché tutto andasse per il verso giusto… In verità non è questa la tesi del documentario, anche se alcuni interventi sembrano sostenerla, perché il film non ha una posizione precisa da difendere. Gli intervistati sono europeisti critici, sostenitori della necessità di uscire dall’Eurozona, liberali, keynesiani e marxisti. Sappiamo che ognuno di questi ha la sua pars construens, ma qui si tratta di smontare un dogma tossico, poi verrà il resto. Pur all’interno di quest’approccio principalmente decostruttivo è comunque innegabile che il taglio prevalente sia quello del sottoconsumismo keynesiano: lo si può vedere per esempio nel richiamo a Roosevelt omettendo di segnalare che le sue politiche di stimolo alla domanda aggregata funzionarono solo con la ripresa degli investimenti bellici e dunque con la guerra; oppure nell’affermazione che gli Usa grazie alla sovranità monetaria hanno saputo affrontare meglio la crisi rispetto ai giri di valzer fatti da una banca senza stato come quella europea e da uno stato senza moneta come quello italiano.

Infine va segnalata la scelta d’inserire nelle ultime battute del film una frase malinconica e provocatoria di Erri De Luca. Lo scrittore rivolgendosi a chi sta dietro la telecamera dice: “il problema è che siete pochi, mentre noi negli anni settanta eravamo molti“. Qui, una volta completata l’inchiesta di controinformazione, il documentario diventa autoriflessivo e s’interroga sul perché di fronte alla messa in chiaro della realtà non si scateni una reazione adeguata, non subentri la soggettività sociale e politica. Chissà che dopo realizzato un documentario originale e godibile di teoria economica gli autori di Piigs non vogliano cimentarsi anche con la sociologia della composizione di classe. Ce ne sarebbe altrettanto bisogno.

Milagro Sala e la perseverante ostilità dello Stato argentino – intervista a Paola García Rey di Amnesty International

fonte pressenza.com

Milagro Sala e la perseverante ostilità dello Stato argentino – intervista a Paola García Rey di Amnesty International

Amnesty International Argentina è stata una tra le primissime organizzazioni di Diritti Umani a interessarsi del caso di Milagro Sala e ad agire con determinazione e risolutezza per richiedere da un lato la sua immediata scarcerazione e dall’altro per denunciare la criminalizzazione della protesta e della libertà di espressione portate avanti sistematicamente dal governo di Gerardo Morales nelle provincia di Jujuy.

Contestualmente, insieme al CELS (Centro de Estudios Legales y Sociales) e a ANDHES (Abogados y Abogadas del Noroeste Argentino en Derechos Humanos y Estudios Sociales), Amnesty ha reso possibile l’internazionalizzazione della vicenda di Sala grazie alle istanze presentate alla Commissione Interamericana dei Diritti Umani (CIDH). La convergenza di tali forze ha così permesso che le Nazioni Unite si esprimessero molto nettamente in merito alla vicenda sollecitando lo Stato argentino all’immediata liberazione di Milagro Sala.

La sua detenzione e la grave situazione di violazione dei diritti umani diventano sempre più tristemente note su scala mondiale e permettono di tenere alta l’attenzione e la pressione sul governo di Mauricio Macri. Ma con che risultati? E quali sono le azioni e le misure prese più recentemente da Amnesty International?

Nell’intervista rilasciataci da Paola García Rey, direttrice di Protezione e Promozione dei Diritti Umani di Amnesty Argentina, abbiamo ripercorso la vicenda di Milagro e fatto un punto sulla situazione ad oggi.

Tra attese, speranze e pressioni nazionali e internazionali sia il governo di Jujuy che quello nazionale di Mauricio Macri non solo sembrano sordi e indifferenti, ma perseverano in comportamenti di ostilità nei confronti degli organismi dei diritti umani

L’intervista a Paola García Rey di Amnesty International

Sinistra italiana allo sbando totale

di Loris Campetti
Dentro il trolley, niente di nuovo. Il viaggiatore può incollarci gli adesivi più improbabili – la foto di Gramsci o la parola “compagno” o il “noi” al posto dell’”io”– ma dentro c’è sempre e solo un toscano arrogante, corpo estraneo alla tradizione democratica italiana, persino a quella poliedrica democristiana.

Matteo Renzi è ripartito con il suo trolley dal Lingotto, ex fabbrica, miracolo architettonico cantato da Le Corbusier, con la pista di prova sopra il tetto e la scala elicoidale, per più di mezzo secolo cuore della sofferenza e del riscatto operaio. Ma il Lingotto del rottamatore di valori e speranze è un altro, quello nato dopo la sua chiusura, ipermercato di merce, cultura e postmodernità, a cento metri da Eataly del suo sodale Farinetti, “maître à penser”, astro un po’ sfocato nella stagione di Masterchef. È il Lingotto-non-luogo il punto di ripartenza di un politico sconfitto che non ci sta a gettare la spugna mentre eccelle nel gettare in discarica idee, persone e democrazia.
Renzi figlio ha in mente l’uno-due, la vittoria alle primarie a tre del Pd e poi quella alle elezioni che quasi nessuno vuole più anticipare, da Gentiloni a Mattarella, da Berlusconi a molte anime del Pd. Uno-due per riprendere le due posizioni di comando che la sberla presa al referendum l’aveva costretto a lasciare. Ma Renzi non è Cincinnato e a tutto pensa tranne a darsi all’agricoltura. Renzi figlio si illudeva di liberarsi dai “gufi” con la fuoriuscita di Bersani, D’Alema, Speranza, Errani, Epifani e altri leader che si sono chiamati Dp, il palindromo del Pd, salvo poi aggiungere davanti una M proprio per non sembrare un palindromo o, peggio, la vecchia Democrazia proletaria. Invece deve fare i conti con altri oppositori, pezzi di “sinistra” interna guidati dal ministro Orlando, cavalli pazzi come il presidente della Puglia Emiliano, quello che “me ne vado, anzi resto e sbaraglio Renzi”. Non c’è pace in quel che rimane del Pd. Capire quali contenuti divida il Pd dal Mdp richiede impegno: tutti e due giurano fedeltà al governo, si scontrano più sul metodo e sulle regole interne che sulle politiche per il lavoro, fisco, ambiente, immigrazione. Un po’ più liberista chi resta di chi se ne va. Più favorevole a un’apertura a sinistra il Mdp, che pure continuerà a votare con Alfano. E di nuova legge elettorale, per la quale era stato varato il governo Gentiloni, chi ne parla più? Poi c’è l’ex sindaco Pisapia che, allontanato l’abbraccio (mortale) con Renzi si propone come mediatore e chiede come Orlando aperture a sinistra. Poi c’è Sinistra italiana che dopo aver perso un po’ di pezzi in fuga verso Renzi si interroga sul rapporto con i fuoriusciti dal Pd, ma polemizza sul sostegno al governo.
Anche Renzi padre, Tiziano per l’anagrafe e la procura, si è dovuto dimettere. Lui la sberla l’ha ricevuta non dai cittadini come il figlio ma dalla magistratura, imputato in una loffia vicenda di appalti e traffico di influenze che ha portato in galera l’imprenditore Romeo e indagato, oltre a lui stesso, Luca Lotti, ministro-portaborse di Matteo. Secondo i giudici erano in combutta tra di loro e con il gotha dei carabinieri e del Consip, la società che si occupa di tutti gli acquisti della pubblica amministrazione. Così Renzi padre si è dovuto dimettere da segretario del Pd di Rignano, ridente centro toscano e retrovia della famiglia. Per riprendersi dallo choc è tornato dalla sua amata madonna di Medjugorje: perché mai, tra le tante madonne a disposizione, avrà scelto proprio quella i cui miracoli sono contestati persino dal Vaticano, mentre nessuno mette più in dubbio i legami dei frati che la accudiscono con le peggiori correnti ustascia durante la guerra in Bosnia, traffici d’armi inclusi? Tommaso R. non si limita ai viaggi individuali, organizza pellegrinaggi. Ma questa è un’altra storia. O no?
Nei sondaggi l’implosione politica, morale e umana del Pd non premia quel che di confuso si muove a sinistra di Renzi. I ceti sociali abbandonati a sé stessi non sognano più uscite collettive dalla crisi, tentano di aggiustarsi, ognun per sé. Perciò, nonostante i suoi disastri amministrativi, a vendemmiare consensi è Grillo, vissuto come una scopa: que se vayan todos. O peggio, Salvini con il suo odio razzista in difesa del quale si è compattato l’establishment: lo si lasci parlare, ha diritto a berciare contro “negri” e napoletani “che puzzano” fomentando ultrà padani che negli stadi invocano il Vesuvio per spazzar via, con Insigne e Mertens l’intera comunità partenopea. Povero Salvini, contestato dai centri sociali strumentalizzati dal sindaco De Magistris. Renzi dal Lingotto, dopo aver deriso chi canta Bandiera rossa, si è scatenato contro uno dei migliori sindaci italiani. Il nemico non è il razzismo ma la maleducazione napoletana.

Pubblicato il 

16.03.17 ..

New White Paper Underlines Why Europe Needs To Be More Open by Vivien Schmidt and Matt Wood on 13 March 2017

 

This post originally appeared on the European Politics and Policy (LSE) blog.

 

The European Commission’s new white paper ‘On the Future of Europe’ recognises how serious the EU’s crisis of legitimacy is. Perhaps for the first time from the Commission itself, there is an acknowledgement that the Union faces a number of options for its future, not merely involving greater integration but potentially a reigning in of regulatory competences and a greater focus on areas where EU-level regulation works best. It even floats the option of a movement back to solely focusing on the single market.

While assertively neutral on five options, the paper seems to support a multi-speed approach, with more integration for member states who want it, and more opt outs for those who don’t. Our view is that this ‘differentiated’ approach is pragmatically useful, but it carries a number of risks for transparency and accountability. Better inclusion and openness for the public in EU decision-making must accompany any kind of differentiated integration, along with further democratisation, if the EU wishes to rebuild the trust and legitimacy the white paper acknowledges it has lost.

Matt Wood

Matt Wood

The ‘Democratic Deficit’ – Old Problem, Old Solution?

Discussion about the EU’s ‘democratic deficit’ has been going on for decades, so the issues the white paper brings up are not new. However, for the first time there seems to be a genuine recognition of the need for change. The Commission’s discussion paper is remarkably candid about widespread public distrust of Brussels, stating for example that “citizens’ trust in the EU has decreased in line with that for national authorities. Around a third of citizens trust the EU today, when about half of Europeans did so ten years ago.” Overcoming this trust issue will not be easy, the white paper states: “Communities are not always aware that their farm nearby, their transport network or universities are partly funded by the EU.”

At its heart, the white paper emphasises managing expectations as being critical for future success. Where the Commission builds up expectations for economic growth and cross-border harmony driven from Brussels, it makes itself vulnerable to attack. When suggesting faster and stronger integration as one option (the fifth and final), the Commission notes ‘there is the risk of alienating parts of society which feel that the EU lacks legitimacy or has taken too much power away from national authorities’. But at the other extreme, it makes clear that going back to the single market alone is not a good (second) option. Moreover, its first option, going along pretty much as it currently does, although presented very positively, is equally a non-starter, given the difficulties of reaching agreements under the current unanimity rules.

Therefore, the more nuanced approaches the Commission itself seems to favour involving ‘differentiated integration’ – contained in especially the third but also the fourth options – would be preferable. This could involve, on the one hand, some member states deepening cooperation in core policy areas while others stay on the sidelines, at least initially. Or it could mean the Union focusing on what it does well and trying to do it better, while returning other competences back to the member states.

The Appeal Of Pragmatism

Differentiated Integration at this point may be an attractive and viable option to the Commission, given that deeper integration seems to have hit a brick wall over the past five years as a result of member-state divisions over how to respond to the EU’s ‘polycrisis’. It may be the easiest way to implement a solution as well. Allowing strongly pro-European states to integrate further where possible makes good sense, in particular since different member-states may prefer to integrate more (or less) in different areas.

One significant omission from the white paper is how such differentiated integration would work within existing institutional arrangements. The original reason for harmonising policies at the EU level was to introduce clearer accountability and transparency through consistent and clear decision making routes. Allowing member states to pick and choose could damage core normative commitments to integration and fundamental rights, while at the same time it could also create even more complexity and blurred lines. Moreover, enabling member states to speed up integration in some areas, for example in fiscal policy, while permitting dis-integration in another, such as immigration policy, potentially creates new unforeseen tensions, arguably even worse than those which exist at the moment.

So how does the EU ensure accountability and transparency in a multi-speed Europe? The Commission does not address this issue, despite its statement of concern. Accountability and transparency require clear and consistent procedures with an obvious centre of authority to ensure accountability, or at least a clear ‘paper trail’ regarding who made what decision, when and with what advice.

This is an issue the EU already struggles with. As some academics describe it, the EU faces an ‘accountability overload’ of reporting and paperwork, not to mention its lack of transparency or its democratic deficit. To deal with these questions, it is also important to make certain that all member-states are sitting around the table, with a voice if not always a vote, as new policy initiatives are considered. But even this is not enough.

The Need For Openness And Inclusion

To address the problems of accountability as well as transparency, the EU needs to find ways to devise more inclusive and open processes of public engagement at the European level, providing clear links into the policy making process. In many respects, the EU is actually considered a normal and unproblematic part of people’s lives across Europe. Common standards in food, medicines, aviation safety and other areas of EU responsibility are largely supported by all relevant members of the public. The key, as the Commission itself in some ways notices, is to make a connection in terms of identity at the local level, and to provide better and clearer channels of engagement from national parliaments and local civil society.

Anyone who’s been to Brussels will tell you it is a ‘bubble’, perhaps even more so than national capitals often are. Corporate lobbyists and NGOs abound, and ‘the public’ are left out of the equation. Paradoxically, there are various ways the public can contribute in principle to EU legislation via online public consultations at various stages. Yet, these processes are already obscure and monopolised by lobbyists – the ‘expert stakeholders’ EU bodies like to talk about.

In some ways then, EU institutions are more transparent and accountable than their national counterparts. Yet, there are few channels through which these institutions speak to the public. The European Citizens’ Initiative, launched in 2012, is barely known across the continent and needs at least 1 million people to sign a petition for anything useful to happen. Where there have been successful Initiatives, these have been monopolised by lobbyists and NGOs.

The Way To Legitimacy

We recently interviewed a Dutch MEP who said that “the Commission works very well, the experts work well. But where are the public?” His off-the-cuff solution was to have the Parliament take Committees and MEPs out of Brussels and spend most of their time in local communities engaging with the public and learning about their issues and opinions. This could be facilitated through national parliaments and promoted by political parties. All very idealistic, and given recent populist developments we might be sceptical about its viability. But inclusion and openness have to start somewhere.

For decades, academics and EU politicians assumed the ‘outputs’ the Union provides – economic stability and social harmony – would be enough to secure ‘ever greater Union’. They have been proved wrong, but the solution is not to reinforce the very obscurity and complexity that fuel distrust in Brussels in the first place. While a good start, the Commission’s suggestion of more ‘differentiation’ could exacerbate rather than close the ‘expectations gap’ so long as it does not find ways to ensure greater accountability and transparency. The EU needs to find ways to be more democratic – open and inclusive – so as to allow the European public genuine participation in the process of EU decision making, as it progresses through the Commission, Parliament and Council. Internal political reform is remarkable for its absence in the white paper, but it will be crucial in any strategy to renew trust in the Union.

This post originally appeared on the European Politics and Policy (LSE) blog.

Viva il populismo di sinistra

Viva il populismo di sinistra
di
Franco Cavalli
Fonte area7.ch
Non ne posso ormai più di vedere quasi tutti i media trattare dispregiativamente di populista Sanders, Mélanchon, Podemos e simili equiparandoli a squallidi personaggi quali Trump, Le Pen o il fascistoide Orbán. Questa evidente confusione concettuale dimostra l’ignoranza abissale di questi commentatori: potremmo quindi lasciar perdere, senonché c’è il grosso pericolo che la si usi contro chiunque voglia rilanciare un vero progetto di sinistra.

Il 15 dicembre ho visto che Thomas Piketty aveva intitolato la sua colonna su Le Monde “Vive le populisme!”. Se lo fa lui, mi sono detto, perché non farlo anche io? Secondo Piketty il populismo non è nient’altro che una risposta confusa ma legittima al sentimento di abbandono delle classi popolari dei paesi sviluppati di fronte alla mondializzazione e alla crescita delle disuguaglianze. Il trionfo degli xenofobi potrà quindi essere evitato solo se gli “internazionalisti” (Sanders, Mélanchon, Iglesias etc.) sapranno trovare delle soluzioni in grado di correggere le cause del fenomeno. Sin qui Piketty. La sua critica riecheggia in fondo quella di chi pensa che il trionfo del nazi-fascismo durante la crisi degli anni 30 del secolo scorso sia stata favorita anche da una sinistra non solo divisa, ma anche poco concreta e non sufficientemente empatica.

È quindi giunto il momento di riprendere a discutere sui vari tipi di populismo, visto anche che c’è tutta una corrente filosofica (Lacau, Mouffe) che di fronte al venir meno di chiare distinzioni di classe ed in una situazione di “società liquida”, dove la contraddizione maggiore sembra sempre più essere quella tra l’élite ed il popolo, da tempo sta ispirando l’azione politica per esempio di Podemos o del movimento bolivariano in America latina. Chiaramente questo movimento non ha niente a che fare con il populismo di destra, che vede come causa di tutti i mali non il sistema capitalista ma bensì “l’inferiore” (ebreo, musulmano, rifugiato etc.) focalizzandosi quindi su un discorso puramente identitario che nella sua totale irrazionalità arriva a negare anche evidenze scientifiche: si veda per esempio cosa dice Trump della crisi climatica o dell’efficacia delle vaccinazioni. Il populismo di sinistra invece, partendo da un’analisi oggettivamente corretta, cerca di semplificarla e radicalizzarla, onde scuotere le coscienze delle persone ormai spesso anestetizzate dalla cagnara mediatica controllata dai grandi poteri economici.

Questo atteggiamento parte da precise indagini sociologiche, che hanno mostrato come di fronte alle post-verità del populismo di destra a ben poco servano le dimostrazioni dettagliate e precise del contrario, il cosiddetto fact checking. Faccio un esempio per farmi capire. Se voglio presentare un’analisi ineccepibile su come risolvere i problemi della LAMal, il mio discorso diventerà presto abbastanza incomprensibile per molte persone. Se invece mi limito a dire “se introduciamo premi proporzionali al reddito, almeno il 60% delle persone si vedranno i premi ridotti alla metà”, tutti mi capiranno. Questa mia affermazione, anche se tendenzialmente giusta, non è esattissima al centesimo. E quindi Cassis ed il Corriere del Ticino potranno accusarmi di essere populista. A quel punto, ne sarei abbastanza fiero.

Pubblicato il
22.02.17 ..
Edizione cartacea
anno XVI, n° 3 – 24 febbraio

Dopo l’Unione Europea di Franco Berardi Bifo

Fonte  effimera.org

Il filo aggrovigliato del possibile

È possibile ridurre l’infinita complessità delle forme sociali in caotica evoluzione a una tendenza centrale, a un attrattore universale del divenire del mondo? Dal punto di vista filosofico non è legittimo farlo, perché occorre mantenere ben fermo il principio di un eccesso infinito e perciò irriducibile del divenire rispetto al conosciuto.

Ma dal punto di vista dell’orientamento nel divenire sociale sì, possiamo anzi dobbiamo farlo. Un gesto interrompe il regresso ad infinitum e inaugura l’azione di cui parla Virno in E così via all’infinito.

Dobbiamo cercare un bandolo dell’intricata matassa, per sapere su quali leve agire, ammesso che siamo in tempo per farlo (e non è detto), ammesso che possediamo la potenza per farlo (e non è detto).

La celebratissima undicesima tesi su Feuerbach, il pilastro centrale della metodologia rivoluzionaria dell’ultimo secolo e mezzo forse andrebbe semplicemente rovesciata.

“Finora i filosofi hanno interpretato il mondo si tratta ora di cambiarlo.” scriveva Marx, e i filosofi dell’ultimo secolo ci hanno provato. I risultati sono catastrofici, se guardiamo al panorama del secolo ventunesimo che ormai dispiega le sue fattezze orribili, più orribili di quanto fosse lecito aspettare.

Compito dei filosofi non è cambiare il mondo, che è anche una frase del cazzo se me lo permettete, visto che il mondo cambia continuamente e non c’è bisogno né di me né di te per cambiarlo. Compito dei filosofi è interpretarlo, cioè cogliere la tendenza e soprattutto enunciare le possibilità che vi sono iscritte. È compito precipuo dei filosofi perché l’occhio dei politici non vede il possibile, attratto com’è dal probabile. E il probabile non è amico del possibile: il probabile è la Gestalt che ci permette di vedere quel che già conosciamo, e al tempo stesso ci impedisce di vedere ciò che non conosciamo eppure è lì davanti ai nostri occhi.

Cogliere il possibile, vedere dentro l’intrico del presente il filo che permette di sciogliere i nodi. Se non cogli quel filo allora i nodi si stringono, e prima o poi ti strangolano.

Abbiamo pensato che fosse più importante cambiare il mondo che interpretarlo, così che nessuno ha interpretato il groviglio che si è costituito a partire dal decennio della grande rivolta. Qualcuno sì c’ha provato, minoritario e quasi solitario. Qualcuno ha detto: il filo essenziale del groviglio presente è quello che collega il sapere la tecnologia e il lavoro.

Il filo essenziale è quello che libera il tempo dal lavoro grazie all’evoluzione del sapere applicato in forma tecnologica.

Il solo modo per evitare che il filo si aggrovigli fino a diventare un nodo inestricabile è seguire il metodo che Marx suggerisce in un altro (meno celebrato ma più attuale) testo, il Frammento sulle macchine. Trasformare la tendenza verso la riduzione del tempo di lavoro necessario in processo attivo di riduzione del tempo di lavoro a parità di ricchezza. Liberare il tempo di vita dal vincolo del salario. Scollegare la sopravvivenza dal lavoro, abbandonare la superstizione centrale dell’epoca moderna, quella che sottomette la vita al lavoro.

Nel Frammento Marx interpreta, non pretende di cambiare, vuole semplicemente indicare quello che è possibile leggendo nelle viscere del rapporto tra sapere tecnologia e tempo di lavoro. Abbiamo pensato che si potesse sfuggire alla catastrofe incaponendoci a cambiare il mondo, e dimenticando la questione centrale, l’unica capace di dirimere il groviglio.

Di fronte alla tendenza verso la riduzione del tempo di lavoro necessario, che si manifestò fin dagli anni ’80 come tendenza principale, il movimento operaio ha pensato che si trattasse di resistere. Mai parola fu più disgraziata, più perniciosa per l’intelligenza. Resistere alla tendenza e cambiare il mondo: bella coppia di scemenze.

La riscossa degli impotenti

Il movimento operaio ha difeso l’occupazione e la composizione esistente del lavoro, così che la tecnologia è apparsa come un nemico dei lavoratori, e il capitale se n’è impadronito per accrescere lo sfruttamento e per legare a un lavoro inutile i destini della società.

Tutti i governi del mondo hanno predicato la necessità di lavorare di più proprio quando era il momento di organizzare la fuoriuscita dal regime del lavoro salariato, proprio quando era il momento di trasferire il tempo umano dalla sfera della prestazione alla sfera della cura di sé.

L’effetto è stato un enorme sovraccarico di stress, e un impoverimento della società. Dato che di lavoratori non ce n’era più bisogno il lavoro si è deprezzato, costa sempre meno ed è sempre più precario e disgraziato.

I lavoratori ci hanno provato con la democrazia e con la sinistra a fermare l’offensiva liberista, ma hanno soltanto misurato l’impotenza della democrazia mentre la sinistra predicava la competizione, la privatizzazione, prometteva lavoro e procurava precarietà.

Alla fine i lavoratori si sono imbestialiti, e il risultato è la riscossa degli impotenti che sta rovesciando l’ordine liberista, la riscossa di coloro che il neoliberismo ha privato della gioia di vivere. Costretti a lavorare sempre di più, a guadagnare sempre di meno, privati del tempo per godere la vita e per conoscere la dolcezza degli altri esseri umani in condizione non competitiva, privati di accesso al sapere, costretti a rivolgersi alle agenzie mediatiche di propagazione dell’ignoranza, e infine convinti per ignoranza che il loro nemico sono quelli più impotenti di loro.

Si fermerà questa onda idiota? Non si fermerà fin quando non avrà esaurito la sua energia che proviene dall’impotenza, e dalla rabbia che nasce dall’impotenza. La classe sociale che ha portato al potere Trump per reagire alla depressione non ci guadagnerà molto. Qualcosa sì, all’inizio. Per esempio invece di assumere 2.200 lavoratori in uno stabilimento messicano la Ford è stata costretta ad assumerne 700 in una fabbrica sul territorio degli Stati Uniti. Bel guadagno.

Ma se gli operai internazionalisti erano capaci di solidarietà, gli impotenti non conoscono quella parola, al punto che l’hanno ribattezzata buonismo. A un certo punto coloro che hanno votato per Trump (o per i molti Trump che proliferano in Europa) si accorgeranno che il loro salario non aumenta, e che lo sfruttamento si fa più intenso. Ma allora non si ribelleranno contro il loro presidente, al contrario daranno la colpa ai messicani, oppure agli afroamericani oppure agli intellettuali del New York Times. L’onda è solo all’inizio e chi si illude di poterla contenere non ha capito bene. Quest’onda sta distruggendo tutto: la democrazia, la pace, la coscienza solidale e alla fine la sopravvivenza.

Dobbiamo sperare nella sinistra?

Ora anche coloro che hanno governato nei governi di centro-sinistra si stanno accorgendo del disastro che hanno combinato. Se ne accorgono soltanto perché l’onda li sta spazzando via.

Tutt’a un tratto, come risvegliati da un sogno, gli attori politici dei governi che hanno riformato i paesi europei secondo le linee del neoliberismo, e che hanno imposto la gabbia del Fiscal compact, scoprono il disastro e si lanciano alla rincorsa di un treno che se n’è andato da un pezzo.

Cosa possiamo aspettarci dall’evoluzione delle sinistre europee?

Un bell’articolo di Marco Revelli sul manifesto del 14 febbraio descriveva la crisi del situazione politica italiana in termini di psicopatia, o piuttosto di entropia del senso.

Il discorso di Revelli non va inteso come una metafora. La psicopatia non è una metafora, ma la descrizione scientifica dell’onda trumpista e (in maniera rovesciata) della decomposizione della sinistra.

Le zone sociali in cui Trump trionfa in Nord America sono quelle in cui la miseria psichica è più devastante. L’epidemia depressiva e il diluvio degli oppioidi, il consumo di eroina quintuplicato in un decennio, il picco di suicidi: questa è la condizione materiale della cosiddetta classe media americana, operai spremuti come limoni, disoccupati devastati dall’impotenza. Il fascismo trumpista nasce come reazione dell’inconscio maschile bianco all’impotenza sessuale e politica dell’epoca Obama.

Il presidente nero si presentò sulla scena dicendo: Yes we can. Ma l’esperienza ha mostrato che invece non possiamo più niente, neanche chiudere Guantanamo, neanche impedire agli squilibrati di comprare armi da guerra dal droghiere qui sotto, né uscire dalla guerra infinita di Bush.

La destra si alimenta di questa impotente reazione all’impotenza, la sinistra comincia a rendersi conto di quel che ha combinato, ma è troppo tardi.

O forse non è troppo tardi, semplicemente non si riesce a vedere che la soluzione del problema sta esattamente nella direzione contraria a quella che ha imposto il liberismo con l’aiuto decisivo della sinistra.

Dov’è la soluzione? La soluzione sta nel rapporto tra sapere tecnologia e lavoro, che rende il lavoro umano superfluo ma non scioglie il nodo del salario. L’aumento di produttività reso possibile dalle tecnologie da molto tempo ha avviato l’erosione del tempo di lavoro, ma ora l’inserimento dell’intelligenza artificiale nei congegni di automazione spazzerà via il lavoro di milioni di persone in ogni ambito della vita produttiva, ed è inutile opporre a questa tendenza inarrestabile la difesa del posto di lavoro. Soltanto un’offensiva culturale e politica per la riduzione del tempo di lavoro e per la rescissione del rapporto fra reddito e lavoro può sciogliere il nodo.

Non è un problema politico ma cognitivo, e psichico: si tratta propriamente di un doppio legame, o ingiunzione contraddittoria chiamala come vuoi. L’ingiunzione cui la sinistra soggiace (e che impone all’intera società) è l’obbligo sociale al lavoro dipendente, l’obbligo di scambiare tempo di vita per sopravvivere. Sciogliere questo vincolo epistemico e pratico è la premessa per dispiegare liberamente le energie cognitive verso il bene di tutti.

L’estinzione del lavoro è un processo che non si riesce ad elaborare ma si tenta di contrastare con effetti culturalmente e politicamente disastrosi.

I popoli si sentono minacciati e si convertono al nazionalismo, che si risolve in una forma semi-consapevole di suprematismo bianco.

Il precipizio europeo

Su questo sfondo la crisi europea resta come sospesa sull’orlo di un precipizio.

Le misure di austerity che dovevano stabilizzare il quadro finanziario hanno disastrato il quadro sociale fino al punto che ormai per la maggior parte della popolazione europea l’Unione Europea è diventato sinonimo di trappola. La democrazia si è mostrata impotente a contenere l’invadenza del sistema finanziario, e la frustrazione si è trasformata in un’onda torva in cui la competizione economica prende forme nazionaliste e razziste.

Sulla questione europea è mancata una strategia autonoma dei movimenti.

Nel 2005 la sinistra critica europea scelse di sostenere il “sì” al referendum sulla costituzione (ma di fatto sulla liberalizzazione del mercato del lavoro) che si tenne in Francia e in Olanda, e in questo modo consegnò al Front National lepenista la direzione della rivolta anti-finanziaria.

Da quel momento i movimenti sono stati paralizzati nell’alternativa tra globalismo liberista e nazionalismo sovranista.

Durante l’estate dell’umiliazione greca lo abbiamo visto bene: non c’è stato nessun movimento europeo, nessuna solidarietà politica col popolo greco.

I dirigenti della sinistra europea (a cominciare dall’italiano Renzi) hanno mostrato tutta la loro pochezza, ma il silenzio della società è stato ancor più agghiacciante. L’umiliazione greca (e l’auto-disprezzo che ha accompagnato da quel momento tutta la sinistra europea) ha provocato un definitivo cambiamento di percezione. Da allora il processo europeo fa paura, percepito come un predatore da cui proteggersi. La conseguenza del tutto prevedibile (anzi così prevedibile da ripetere il copione degli anni ’20 del secolo passato) è il ritorno del sovranismo nazionalista.

L’emergente nazionalismo europeo va però inserito in un contesto globale di tipo nuovo, che Sergey Lavrov ha definito post-west-order.

L’ordine occidentale (fondato sulla difesa della democrazia contro il socialismo sovietico) pare dileguarsi, ora che l’opposizione ideologica contro la Russia è sostituita da una sorta di patto suprematista bianco.

In un articolo pubblicato da The American Interest nel giugno 2016, Zbignew Brzesinski descrive il panorama dei prossimi anni secondo uno schema allarmante: Daesh potrebbe essere solo il primo segnale di una sollevazione di lungo periodo a carattere di volta in volta terrorista, nazionalista, fascista: l’inizio di una sorta di guerra civile planetaria.

I popoli devastati dalla violenza del colonialismo stanno avviando una rivolta contro la supremazia bianca.

In questo contesto la politica di Trump verso la Russia rivela un disegno strategico di tipo bianco suprematista. Trump procede in maniera contraddittoria con la Russia, ma il suo disegno strategico va in direzione dell’unità dei cristiani, dei bianchi, della razza guerriera superiore. Se c’è un filo di ragionamento nell’incubo distopico che Trump ha in mente, questo filo è il suprematismo bianco.

L’Europa è marcia ma noi facciamone un’altra

E’ probabile che questo incubo stia per inghiottire l’Europa. L’Unione europea è in agonia da tempo, presto inizierà la sua decomposizione.

Gli antidoti sembrano esauriti, e l’austerity non attenua la sua stretta.

Il nazionalismo appare come una vendetta che i popoli imbestialiti dall’impotenza hanno scatenato contro le sinistre neoliberali. E’ difficile pensare che l’onda possa fermarsi prima di avere esaurito le sue energie nella direzione che già si può intravvedere.

L’esito più probabile nel medio periodo è la guerra civile europea, nel contesto della guerra civile globale.

C’è una via d’uscita?

Solo degli idioti possono indicare la strada del ritorno alla sovranità nazionale, della moneta nazionale. E’ la ricetta che ci porterà a ripetere la guerra civile jugoslava su scala continentale.

La via d’uscita non sta certamente nelle mezze parole di autocritica mai esplicita che vengono fuori dalle bocche dei dirigenti della sinistra tedesca, francese, italiana. Né la via d’uscita sta nella promessa di un improbabile impegno per il salario di cittadinanza in un paese, la Francia, in cui i socialisti non hanno quasi alcuna possibilità di raggiungere il ballottaggio. (E nel caso che Hamon raggiungesse il ballottaggio la prima cosa che cancellerebbe dal suo programma sarebbe proprio il salario di cittadinanza).

La via d’uscita non sta nella campagna contro il Brexit che ha lanciato Tony Blair, criminale di guerra ed esecutore della devastazione neoliberista della società. In molti hanno votato Brexit proprio per odio e per vendetta contro questa sinistra. Io voterei per il Brexit, se l’alternativa è Tony Blair, e molti altri farebbero come me.

Ma allora c’è una via d’uscita dalla guerra civile europea?

La via d’uscita sta soltanto in un movimento gigantesco, in un risveglio cosciente della parte pensante della società europea. Resta soltanto la speranza che una minoranza rilevante della prima generazione connettiva trovi la strada della solidarietà e del sabotaggio. Solo l’occupazione di cento università europee, solo un’insurrezione del lavoro cognitivo potrebbe avviare una re-invenzione del progetto europeo. E’ improbabile, ma il possibile non è amico del probabile.

Occorre un movimento che prenda atto del fallimento che non è il nostro fallimento, non è il fallimento della generazione Erasmus, non è il fallimento dei lavoratori precari e cognitivi, è il fallimento della sinistra neoliberale, del ceto politico sottomesso al sistema finanziario.

Grazie a costoro l’Europa è morta, ma noi facciamone un’altra. Immediatamente, senza por tempo in mezzo, un’Europa sociale, un’Europa dell’uguaglianza e della libertà dal lavoro salariato.

* * * * *

Intervento preparato per l’Incontro Nazionale Universitario che si terrà il 12 marzo 2017 a Bologna in via Zamboni 38: È Tempo di riscatto!, organizzato da Collettivo Universitario Autonomo Bologna
Immagine in apertura: un’opera di Blu, a Melilla, in Spagna

Stubborn Germans: Stuck In Austerity/Stability by Björn Hacker and Cédric Koch on 27 February 2017

Ringraziamo la fonte SOCIALEUROPE.EU 

He did it again: German finance minister Wolfgang Schäuble repeatedly reflected on a possible Grexit in February 2017, after having raised this threat already in the negotiations on the third bailout programme in summer 2015. International observers cannot believe Germany has started playing hardball again in this delicate affair just when the European idea is on the line due to growing support for populist nationalists in upcoming elections. So why is Schäuble forcibly creating new ripples on the seemingly quiet front of the Eurocrisis?

The German majority: Advocates of a stability union

Led by the current and previous federal government under Chancellor Angela Merkel and her CDU, the advocates of a stability union for the most part favour preservation of the status quo of the EMU architecture. The fundamental reasons for the Eurozone crisis are from this angle to be blamed on the failure of the crisis states to stick to existing rules and economic policies, thereby harming their competitiveness. Accordingly, the paramount objective in combating the crisis and further developing the Eurozone has been to correct these purportedly “wrong” policies in these countries and close possible loopholes in the rules. A whole host of measures have been implemented along these lines, from the launch of national debt brakes in the guise of the fiscal compact to stipulating quasi-automatic sanctions with the reversed majority voting in the reformed Stability and Growth Pact. Additionally, structural reforms promoting competition and fiscal consolidation in the Euro Plus Pact and in the European Semester as well as the enforcement of these if necessary within the framework of credit assistance programmes have been brought on the way.

Such views have been supported by a clear majority of actors from academia and employers representatives as well reflected within a media landscape that has only sporadically ventured any critical analysis. Indeed, centre stage in the debate has been occupied by topics like the consolidation of budgets, market-friendly structural reforms and corresponding mechanisms to enforce compliance at the Eurozone level.

The minority: Supporters for expanding or rolling back the Eurozone

While supporters of a stability union blame the Eurocrisis on these failings within those states hit hardest by the crisis, the much smaller grouping of proponents of a fiscal union point the finger at fundamental flaws in the EMU design. Critical scholars, intellectuals and journals along with the trade unions have urged that EMU be buttressed by elements of cross-border liability and coordinated policies. But these voices are weak in the German debate: The contours of the camp striving for more fiscal integration, with instruments such as Eurobonds, automatic stabilisers in form of a common insurance mechanism or a fiscal capacity to curb and contain asymmetric shocks, remain pale. This can be explained by the absence of a strong political body behind these alternative proposals. In particular, the Social Democratic Party (SPD) has manoeuvred between support for Keynesian and heterodox concepts on the one hand and positions firmly ensconced in the majority opinion in favour of a stability union on the other. Overall, the SPD can be considered to nestle within the fold of the CDU’s approach, and this might change only in 2017 with Martin Schulz aiming to break the peaceful coexistence of the two biggest parties in German politics on European affairs.

In addition, there is a new group of actors with the potential for obtaining a majority that is very heterogeneous in terms of both its composition and its specific demands, which rejects both the vision of a stability union as well as a fiscal union. The demand for a reversal of currency integration is being spearheaded from two diametrically different directions: conservative-liberal critics associated with the right-wing nationalistic party Alternative für Deutschland (AfD) view any ties to purportedly crisis- and debt-ridden states as posing a serious danger to German taxpayers. In contrast, critics from the far left of the political spectrum are raising the spectre of an erosion of national welfare states and democracies due to the increasingly radical market approach of the Euro regimes. This heterogeneous camp and its growing support in the population are putting pressure on the established actors, who increasingly tend to shy away from policy proposals supporting deeper European integration.

Not sustainable: Schäuble on repeat

This constellation in the continuing political discourse, as described in more detail in a study recently published by Friedrich-Ebert-Stiftung, is why the debate on the Eurocrisis, the review of the one-sided austerity approach and possible reform options for EMU remain stuck in Germany. The stability union is supported by a solid group of actors and benefits from the relative mild impact of the crisis as perceived by the German population. As long as growth and employment in Germany remain higher than in many neighbouring states, a change in course despite a stagnating economy, deflationary threats and high levels of unemployment in many crisis countries is highly unlikely. Thus, again and again we will hear Schäuble grumbling at Eurozone countries out of line with his stability approach.

Very few factors could alter the terrain of the German debate over the future of the currency union One is the SPD’s positioning, which so far fails to shift to such an extent that it could breathe real life into a fiscal union as laid down in its party program. Another is the growing attractiveness of the camp supporting a roll-back. The sustainability of the stability-at-all-costs approach, fundamental to the beliefs of the finance minister, is an illusion. As partial stagnation in the Eurozone wears on, the question of expansion or roll-back of the currency union will clearly become ever more pressing. Forcing another Greek stand-off in the summer, with the harmful economic consequences so clearly exhibited already in 2015, will further undermine the status quo that Schäuble so desperately seeks to cement in the Eurozone.

About Björn Hacker and Cédric Koch

Dr. Björn Hacker is Professor of Economic Policy at the Berlin University of Applied Sciences (Hochschule für Technik und Wirtschaft). Cédric M. Koch works in the Department of Economics and Law at the Berlin University of Applied Sciences (Hochschule für Technik und Wirtschaft) as well as for the Deutsche Gesellschaft für Internationale Zusammenarbeit (GIZ).

I primi dieci giorni di Donald Trump

GB Zorzoli

 

donald-trumps-hairDurante le primarie repubblicane ci rassicuravano così: i discorsi sopra le righe gli servono per battere i competitors; ottenuto il risultato, modererà i toni.

Analogo ritornello nel corso delle elezioni presidenziali: dopo, dovrà fare i conti con la Realpolitik.

Adesso è la Realpolitik a dover fare i conti col presidente Donald Trump. E non solo lei. Per riuscirci, occorre però cambiare registro, lezione che i media tradizionali non hanno ancora imparato.

Giornali, radio, televisioni hanno addolcito la notizia sull’ executive order anti-migranti, accompagnandola con i servizi sulle manifestazioni di protesta. OK sul piano dell’informazione, ma – forse sono stato disattento – non è stato fatto notare che nessuna di queste iniziative si è svolta in Alabama o nell’Arkansas, cioè negli stati che hanno fatto vincere Trump. È un bene che l’America sconfitta reagisca; per fortuna c’è ancora una giudice federale a New York; fa piacere che i vertici di Google, Facebook, Netflix, Airbnb e di altre aziende digitali si siano espressi contro il blocco all’immigrazione. Tuttavia, agli occhi di chi ha votato Trump tutti costoro, come pure i media tradizionali, fanno parte dell’élite, che strilla perché alla Casa Bianca è arrivato qualcuno deciso a mantenere la promessa «America first», chiudendo le frontiere e riportando all’interno del paese la vecchia, buona industria.

Considerazioni analoghe valgono per il muro al confine col Messico o per la “Velocizzazione della valutazione ambientale e della successiva approvazione dei progetti infrastrutturali con alta priorità”, affiancata dalla revoca del blocco per i due controversi oleodotti Keystone XL e Dakota Access. Obiettivo che, tradotto dal latino in lingua volgare, significa realizzarli – con effetti positivi, seppur temporanei su economia e occupazione – fregandosene dell’ambiente e del rischio per i circa 8.000 membri della tribù Sioux di Standing Rock, derivante dal possibile inquinamento delle acque del lago Oahe, da cui dipendono anche le forniture idriche di molti altri cittadini americani.

Leggi tutto

L’avvento di Trump e il rischio per la democrazia nel mondo

Ringraziamo Luigi Troiani per questo articolo apparso sul Blog     Lavocedinewyork.com

Il nuovo presidente USA a parole per “gli uomini dimenticati”, nei fatti per il liberismo sfrenato di Reagan e Thatcher

Reaganomics e thatcherismo mutano il modello di società nata in Occidente nel dopoguerra per volontà anglo-americana. Sono i semi che hanno generato la folle situazione dell’economia mondiale attuale dove l’1% della popolazione mondiale detiene quasi il 55% della ricchezza. Danald Trump che modello seguirà? A parte la sua retorica, i segnali sono chiari
donald trump giuramento

Donald Trump giura sulla Costituzione degli Stati Uniti (Immagine ripresa da youtube)

di Luigi Troiani

Nel guardare come si va conformando la mappa dei governi nei paesi che contano, in attesa del responso del biennio elettorale europeo che coinvolgerà Germania, Francia, Olanda e forse Italia, ci si chiede verso quale tipo di regimi nazionali e di successive alleanze internazionali stiamo andando. e se il nuovo quadro politico mondiale potrà comportare la retrocessione delle nostre società democratiche a regimi semi-autoritari, con la fine della società “tana libera tutti” che dalle utopie del ’68 si è in qualche modo venuta affermando, non solo in occidente.

Occorre partire proprio dal termine “occidente”,  che scrivo da sempre con lettera minuscola, essendo la sua conformazione certa solo per quanto riguarda la geografia, non la politica. Pur avendo, quel termine, subito gli abusi della propaganda e delle umane presunzioni, ha tuttavia significato, nella cultura dei più, il riferimento di una civiltà, quella che parte dall’illuminismo, dal privilegio della ragione su ogni altra capacità umana, dalla liberazione degli esseri umani da poteri come le aristocrazie di ogni tipo e le superstizioni. Grazie a quelle premesse, nei secoli successivi, i paesi dove quella civiltà ha prevalso, hanno potuto avvantaggiarsi in termini di sviluppo tecnologico e progresso scientifico, ricchezza e progresso sociale, generando un potere mondiale che trova espressione ancora ai nostri giorni. Quell’occidente avrebbe rivendicato, in taluni pensatori, radici greco-romane; in altri cristiane. La diatriba qui non rileva.

Interessa che da quella vicenda storica siano venuti nei secoli successivi nel chiamato occidente, beni politici ritenuti essenziali come le  tante libertà di cui godiamo: di pensiero, parola, genere, religione, ricerca scientifica, impresa, associazionismo, e così via. Per affermare e difendere quei beni, in occidente si sono fatte terribili guerre e sanguinarie rivoluzioni, si sono promossi sommovimenti sociali e politici epocali. Nel Novecento, nel segno di quei beni, American  Boys hanno attraversato due volte l’Atlantico immolando le vite. Nello stesso segno, i presidenti degli Stati Uniti hanno tutti, coerentemente, combattuto e vinto prima il nazi-fascismo, poi negli anni del bipolarismo il totalitarismo comunista.

Dentro quel concetto, vigeva un elenco di undisputed given, che nessun governo, fino all’avvento di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, aveva immaginato di rimuovere. Tra i tanti, la separazione tra politica e affari, il ruolo dello stato come equilibratore delle più aspre diseguaglianze sociali e di barriera agli appetiti del grande capitale, il rafforzamento dei ceti medi come garanzia dell’ascensore sociale che avrebbe consentito a chiunque di migliorare la propria situazione socio-economica, una tensione all’apertura verso le altre nazioni e alla diplomazia multilaterale. A sostegno della realizzabilità di quel modello, stato e sue articolazioni come le autonomie locali e regionali, avrebbero finanziato un vasto settore di spesa pubblica a carattere “sociale” che avrebbe consentito ai percettori di basso reddito di far accedere i figli all’istruzione, ricevere assistenza sanitaria, disporre di pensioni, e così via. Sul piano internazionale, l’empatia sociale interna si sarebbe trasferita in politiche di aiuto ai paesi poveri, garanzie per i migranti, costruzione di istituzioni internazionali condivise.

Non si dimentichi che, in piena Seconda guerra mondiale, quando ancora le sorti del conflitto erano tutt’altro che scontate, Londra e Washington, una con un primo ministro come Winston Churchill ferocemente conservatore l’altra con il presidente forse più progressista d’America, Franklin Delano Roosevelt, giocano le carte di propaganda bellica in previsione del dopo, su due paralleli documenti: la Carta Atlantica (12 agosto 1941) e il Rapporto Beveridge (20 novembre 1942). Il primo promette diritti politici e sociali, l’altro il welfare state. Sorprenderà sapere che Hitler, che alla Germania sulle orme del Primo Reich guglielmino di Bismarck aveva regalato uno stato sociale che all’epoca non prevedeva confronti, temette soprattutto gli effetti del secondo (circolava alle grande tra i soldati alleati, ed era stato illustrato in più conferenze in America dallo stesso lord Beveridge), tanto da averne il testo, con annotazioni di suo pugno, nel bunker berlinese.

Reaganomics e thatcherismo mutano alla radice il modello di società che in occidente è nata nel dopoguerra per volontà anglo-americana.

Sono gettati nei loro anni di governo i semi che hanno generato la folle situazione dell’economia mondiale attuale dove l’1% della popolazione mondiale detiene quasi il 55% della ricchezza e 8 individui l’equivalente di ciò che hanno per vivere i 3, 6 miliardi di persone più povere. E’ dagli anni di Reagan e grazie ai cambiamenti strutturali che lui induce nella società e nell’economia, che i presidenti democratici non avranno capacità e/o volontà di violentare, che i salariati statunitensi si trovano a non intercettare un solo centesimo dell’arricchimento che nei decenni ha percorso l’America, finito tutto nelle tasche delle élite finanziarie ed economiche e delle loro propaggini politiche. E qui si riscontra il primo paradosso del voto americano del novembre 2016 e della retorica populista della quale il presidente ha infarcito il discorso d’insediamento. Si affida l’esigenza di miglioramento a chi ha scelto di porsi nel solco di Reagan, dimenticando che Obama aveva preso l’America con l’economia devastata da Bush W. e la lascia con disoccupazione al 4,5% e il Pil in crescita, su base annua, superiore al 3%. Il fatto che il primo decreto firmato da Trump riduca le misure di equità sanitaria fissate da Obama, illustra quanto possa essere vendicativo e sprezzante la risposta a quell’esigenza.

L’ipotesi dell’estremismo conservatore parte, soprattutto nella versione thatcheriana, da due principi: all’interno si distruggano i corpi intermedi e le loro rappresentanze, all’esterno l’interesse nazionale prevalga su ogni altra considerazione. E’ il sedimento sul quale germoglieranno, nei decenni successivi, tutti i movimenti populisti, compreso quello trumpiano, che, come si è scritto su questo giornale, sono essenzialmente nazionalismi della più bell’acqua, che si accompagnano all’inevitabile ingresso dei grandi interessi economici e finanziari nella stanza del potere politico.

Da quei principi, la guerra feroce ai sindacati dei lavoratori, ai giornali, alle autonomie universitarie e territoriali, alle imprese che non si identifichino nel progetto di stato chiuso. Sono gli unici soggetti che possono contrastare l’occupazione dello stato da parte delle forze economiche e finanziarie.

Cancellare il diaframma tra potere costituito e società, significa consentire ai poteri forti e ben strutturati, della finanza e dell’economia, della cultura e delle religioni, di fare ordine sociale, in combutta con il potere pubblico che essi stessi hanno contribuito a formare. Le tecnologie informatiche danno un grande strumento alla realizzabilità dell’obiettivo, consentendo il dialogo diretto con elettori e consumatori, senza alcun filtro dei corpi intermedi classici. Se l’elettore e consumatore casca nella trappola, non c’è più nulla che possa salvaguardarlo dal nuovo potere. Si guardi ai miliardari, espressi dai grandi gruppi finanziari e petroliferi, membri del nuovo governo statunitense. Quegli uomini, che hanno creato, le sperequazioni terribili della distribuzione della ricchezza in questa nostra contemporaneità, dovrebbero fare gli interessi dei lavoratori? Suvvia!

La capacità profetica di Baruch Spinoza, aiuta a capire cosa sia accaduto. Scriveva in Tractatus philosophicus: “E’ inoltre certo che una Città è sempre minacciata più dai suoi cittadini che dai nemici: perché i buoni sono rari. Da qui che colui al quale è attribuito il diritto tutto intero dello Stato, dovrà sempre temere i cittadini più dei nemici, e che di conseguenza si sforzerà, quanto a lui, di guardarsene, e quanto a detti soggetti, non di vegliare su di loro, ma di tendere loro trappole, soprattutto a coloro resi illustri dalla loro saggezza, o potenti dalla fortuna”.

Quando il presidente degli Stati Uniti celebra l’”America First”, i “prodotti americani”, il “lavoro per gli americani”, è in estrema coerenza con il modo populista di guardare le cose. Peccato che gli sfuggano le conseguenze, o che, se non gli sfuggono, le accetta e sollecita, il che rende persino più preoccupante la situazione. Il nazionalismo economico genera disordine e conflitti e, in ultima istanza, guerre, come ricordò François Mitterrand nell’ultimo discorso al Parlamento Europeo. Né è possibile rinchiudere nei confini un’economia, come quella statunitense, che è forte perché aperta, che ha bisogno di comprare e di vendere se vuole stare in piedi. Trump vuole un dollaro forte per attrarre capitali e remunerarli? Chi comprerà più merci americane se costeranno troppo? E se le merci non si vendono, cosa fanno i lavoratori che le producono se non starsene a casa? E come le nazioni che si sono indebitate in dollari (perché così Washington, D.C., e Banca Mondiale, anche’essa washingtoniana le hanno sollecitate a fare), ripagheranno i loro debiti? E la Cina messa in difficoltà dall’annunciato protezionismo americano come risponderà alla difficoltà nella quale viene cacciata, investendo negli Stati Uniti dal dollaro forte?

Sono solo alcuni degli interrogativi che sorgono spontanei, dopo aver ascoltato il discorso presidenziale dell’inaugurazione.

Alla vigilia si era anche sentito il rintocco della campana a morto dell’Unione Europea che, sull’onda dell’uscita britannica, dovrebbe, nel pensiero (?) del presidente Trump, disgregarsi e chiudere i battenti. Quantum mutata ab illa, America!, scriverebbe Virgilio! Neppure un anno fa, coerentemente con sette decenni di politica estera statunitense, ascoltavamo la rampogna di Obama ai britannici minacciati di irrilevanza nel caso di uscita dall’Ue. Oggi sentiamo gli attacchi ad Angela Merkel e alla Germania, paese leader di una Ue che, pur nelle sue difficoltà  e contraddizioni, resta, nella fascia geopolitica che parte dalla Cina e finisce in Mediterraneo, l’unica isola di democrazia e progresso socio-economico del quale disponiamo.

E non si considerino le insane idee espresse sulla Nato, unico strumento di sicurezza multinazionale disponibile. Se mai, si attenda, fiduciosi, l’annuncio della prossima chiusura del Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, noto edificio inutile e costosissimo, in quel di Manhattan.

Viene da chiedersi: davvero  Trump può ritenere che questa possa essere la visione politica di un presidente degli Stati Uniti ad inizio mandato, nel XXI secolo? Chissà che non abbia ragione Hannah Arendt quando ricorda: “Più un bugiardo ha successo, più gente riesce a convincere, più è probabile che finirà anche lui per credere alle proprie bugie”.

Leggi tutto

Comincia l’era di Trump: il rapporto Cina-Usa e il rischio di una guerra

fonte  analisidifesa.it  che ringraziamo

 

di Wei Jingsheng

Washington (AsiaNews) – L’Ufficio di propaganda del Partito comunista cinese ha ordinato ai media della Cina di “maneggiare con cura” ogni articolo legato all’inaugurazione della presidenza di Donald Trump, che avverrà oggi. “Ogni articolo su Trump – si legge nella direttiva – deve essere maneggiato con cura e non è permessa alcuna critica non autorizzata delle sue parole o azioni”.

La cautela espressa in questi ordini fa a pugni con l’ironia e le critiche riversate settimane fa, dopo che Trump ha accusato la Cina di essere “un manipolatore di valuta” e di voler tassare i prodotti cinesi da export, che distruggono i posti di lavoro negli Usa. In più vi è stata la battuta sul non sentirsi obbligati a mantenere la politica dell’unica Cina, accettando una conversazione telefonica con la presidente di Taiwan.
Il timore di una guerra commerciale – e forse anche una guerra reale per il controllo del mar Cinese meridionale – è espresso da molti analisti dell’Asia, i quali concludono – come George Yeo, ex ministro degli esteri di Singapore – che è meglio per le due superpotenze non scontrarsi.
Va aggiunto che diversi dissidenti cinesi negli Stati Uniti, come Yang Jianli, si sentono onorati di partecipare alla cerimonia di inaugurazione a Washington. Essi sperano che Trump sostenga la causa dei diritti umani in una maniera più forte di quanto abbia fatto Hillary Clinton e Barack Obama, sempre ricattati dalle lobby economiche.
Per Wei Jingsheng, il “padre della democrazia” in Cina, ora esule negli Usa, ci sarà una guerra fra Cina e Stati Uniti e la Cina sarà costretta a cambiare molti aspetti della sua economia e società. Presentiamo qui una sua riflessione. Sulla presidenza di Donald Trump siamo sicuri di alcune cose:

1) Donald Trump è il prossimo presidente degli Usa, ciò significa che una politica estera debole, come quella dell’amministrazione Obama è giunta a termine.
2) La politica fondamentale di Trump sarà quella di correggere relazioni commerciali irragionevoli e lo sforzo maggiore sarà di trasformare i rapporti di “libero scambio” in rapporti di “scambio equo”.
3) L’obbiettivo è fermo sulla nazione che ha il commercio più ingiusto, la Cina.
4) Donald Trump è pronto a evitare gli strumenti di negoziato usati in passato usando invece il blocco del mercato, cioè attuando una guerra commerciale, per forzare la Cina e altre nazioni ad accettare regole più eque.
5) La sua strategia internazionale si muove verso un alleggerimento del rapporto con la Russia per focalizzarsi sull’espansione della Cina.
6) Unirsi in alleanza con le nazioni in Asia e con l’India per sopprimere l’espansione strategica della Cina e per forzare o indurre le nazioni del Sudest asiatico a ritornare all’abbraccio con gli Stati Uniti.

Quanto elencato sopra è ciò che succede anche dapprima che Trump prenda possesso della casa Bianca. Per riassumere, possiamo vedere che il principale obbiettivo è il regime comunista in Cina. E vi sono due scopi fondamentali: uno è il rapporto commerciale Cina-Usa; l’altro è il controllo del mar Cinese orientale e meridionale. Donald Trump ha la possibilità di vincere queste due battaglie? Oppure Xi ha qualche possibilità di vincere una di queste? Proviamo a fare un’analisi un po’ rozza.
Trump deve riformare le relazioni commerciali fra Cina e Stati Uniti. L’esperienza del passato mostra che i negoziati con il governo cinese non cambiano il teppismo di quest’ultimo. Perfino il pacifista Mohandas Gandhi ha detto che quando una banda armata di ladri penetra nel villaggio, non c’è modo di negoziare, ma occorre buttarli fiori con la forza. E questo lo fa la polizia. Ora gli Stati Uniti sono in qualche modo la polizia mondiale.

Qual è l’arma degli Stati Uniti? È il mercato Usa. In passato la Cina metteva blocchi al proprio mercato invadendo gli Usa con i suoi prodotti. Ciò ha permesso ai capitalisti di Cina e Stati Uniti di avere profitti eccezionali, mentre negli Usa si perdevano un mucchio di posti di lavoro. Lo scopo finale di Trump è di equilibrare il commercio fra Cina e Stati Uniti e di accrescere il tasso di occupazione negli Usa.

Quale sarà la strategia di Trump? Premettendo che la Cina gode dei vantaggi del commercio, ma non è pronta ad aprire il suo mercato, Trump è pronto a guidare il lancio di una guerra commerciale, proteggendo il mercato Usa e bloccando gli economici prodotti cinesi dal raggiungere tale mercato. Qualunque sia la reazione della Cina, questa misura dovrebbe vincere, essa porterà a un accrescimento dell’industria manifatturiera Usa e a una crescita dell’occupazione.
Quale sarà la reazione di Xi Jinping?

Leggi tutto

La Germania nella crisi dell’Europa

L’austerità voluta dai tedeschi ha portato non solo al perdurare di una crisi economica senza precedenti ma anche all’affermarsi sempre più importante di sentimenti nazionalisti e xenofobi

L’anno da poco finito lascia, per unanime considerazione, diverse pesanti eredità a quello nuovo.

Tra di esse, vogliamo ricordare i problemi economici, sociali, politici, del nostro continente, che, tra l’altro, sembrano per alcuni aspetti aggravarsi con il tempo. Va in particolare sottolineato che chi, nel corso degli ultimi anni, ha almeno un po’ sperato che la Germania, i suoi politici, la sua opinione pubblica, alla fine arrivassero non solo a capire sino in fondo il quadro della situazione, ma anche a cercare di contribuire ad alleviare i rilevanti punti di crisi che la loro rigida politica di austerità ha portato all’Europa, ormai dovrebbe essersi ampiamente ricreduto; questo, a meno di rifiutarsi ancora, cosa che di frequente capita e a molte persone, di guardare in faccia la realtà e di arrendersi all’evidenza dei fatti, che, come è noto, sono testardi.

In effetti, l’analisi degli avvenimenti degli ultimi mesi sembra suggerire chiaramente che la costruzione europea si sta a poco a poco ormai letteralmente disfacendo. Non si tratta soltanto del fatto che l’economia di molti paesi non riesce più a riprendere veramente slancio, ma anche dello sviluppo di forti sintomi di rigetto della costruzione europea da parte di strati crescenti della popolazione del continente, dell’affermarsi sempre più importante di sentimenti nazionalisti e xenofobi, della mancanza di qualsiasi seria reazione al riguardo nell’UE e nell’eurozona. Tutte cose, peraltro, ampiamente note.

Certo, non sono soltanto i tedeschi ad avere delle colpe evidenti in quello che sta succedendo; così accuse molto rilevanti si possono giustificatamente addossare alla Francia e, per altro verso, i guai dell’Italia sono per una parte consistente colpa nostra.

Per quanto riguarda il paese transalpino, poi, si può aggiungere en passant che il candidato che più probabilmente dovrebbe conquistare la presidenza della repubblica alle prossime elezioni, François Fillon, promette, tanto per cambiare, di applicare un programma di austerità interna piuttosto duro. Egli minaccia, tra l’altro, di mandare a casa 500.000 funzionari pubblici e di intervenire pesantemente sulla sanità, oltre, ovviamente, a prendersela in ogni modo con gli immigrati.

Leggi tutto

Il fallimento del Jobs Act

Giacomo Forges Davanzati

fonte: sbilanciamoci.info

È ormai chiaro che, rispetto all’obiettivo dichiarato (accrescere l’occupazione), il Jobs Act si è rivelato fallimentare. Il provvedimento, che ha introdotto contratti a tutele crescenti (frequentemente ed erroneamente definiti a tempo indeterminato) è stato accompagnato da ingenti sgravi contributivi a favore delle imprese per la ‘stabilizzazione’ dei contratti di lavoro. Secondo la propaganda governativa, si sarebbe fatta marcia indietro rispetto alle misure di precarizzazione del lavoro messe in atto con intensità crescente negli ultimi decenni. Nei fatti, si è trattato di un provvedimento che ha semmai reso le condizioni di lavoro ancora più precarie, sia per l’introduzione di una nuova tipologia contrattuale (il contratto a tutele crescenti) che non stabilizza il rapporto di lavoro (ma rende più difficile e costoso il licenziamento al crescere dell’anzianità di servizio), sia per l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. In più, contrariamente agli obiettivi dichiarati, si è accentuato il dualismo del mercato del lavoro italiano, inserendo una inedita cesura – datata 7 marzo 2015 – fra lavoratori assunti con veri contratti a tempo indeterminato e lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti.

Come da più parti previsto, si è trattato di un provvedimento del tutto inefficace, e per alcuni aspetti controproducente, per la crescita dell’occupazione. Dopo un aumento dell’occupazione ‘a tempo indeterminato’, evidentemente determinato dalla convenienza da parte delle imprese a riconvertire i contratti per avvalersi della detassazione, riducendosi i fondi pubblici per gli sgravi fiscali alle imprese, si è registrata una rapidissima inversione di tendenza: è aumentato il tasso di disoccupazione e i contratti sono diventati sempre più precari. In sostanza, si è trattato di un’operazione che ha temporaneamente “drogato” il mercato del lavoro italiano. Nulla più di questo, se non si fosse trattato di un vero e proprio spreco di risorse pubbliche per un obiettivo non raggiunto e verosimilmente non raggiungibile con gli strumenti utilizzati. Terminata questa fase, ci si ritrova in una condizione sotto molti aspetti peggiore della precedente, una triste eredità del Governo Renzi, per due ordini di ragioni.

1.Secondo le ultime rilevazioni ISTAT, il tasso di disoccupazione, in Italia, torna nel 2016 a quasi il 12%, dopo una leggera flessione nel 2015, attestandosi a oltre due punti percentuali in più rispetto alla media europea (11.9% a fronte del 9.8%). Si registra anche una significativa riduzione del numero di inattivi, fenomeno che, di norma, viene valutato positivamente come segnale di dinamismo del mercato del lavoro. Si tende, cioè, a ritenere che una maggiore partecipazione nel mercato del lavoro sia, di per sé, desiderabile.

E’ bene chiarire che è, questa, una valutazione che riflette una visione del funzionamento del mercato del lavoro interamente declinata ‘dal lato dell’offerta’: in altri termini, più forza-lavoro disponibile dovrebbe implicare maggiore occupazione. Il che non è nei fatti, né oggi in Italia né è quasi mai accaduto da quando il fenomeno è oggetto di rilevazione statistica.

La riduzione del numero di inattivi, se letta in chiave macroeconomica, può non essere affatto un segnale di vitalità del mercato del lavoro e, in più, può essere il segnale di un meccanismo niente affatto virtuoso. Ciò a ragione del fatto che la riduzione del numero di inattivi è associato a un fenomeno noto come ‘effetto del lavoratore aggiunto’: in fasi recessive e di caduta della domanda di lavoro, con conseguente riduzione dei salari reali, entrano nel mercato del lavoro altri componenti dell’unità familiare per provare a garantire all’unità familiare il livello di consumi considerato ‘normale’. Il che significa che la riduzione del numero di inattivi è innanzitutto un segnale di impoverimento dei lavoratori occupati e, al tempo stesso, di erosione dei risparmi delle famiglie (dal momento che una condizione di inattività è consentita solo attingendo a redditi non da lavoro).

Vi è poi da considerare che l’aumento del numero di individui alla ricerca di lavoro, accrescendo la concorrenza fra lavoratori, contribuisce a ridurre i salari, in una spirale perversa per la quale la domanda interna continua a contrarsi, così come la domanda di lavoro e dunque i salari e i consumi. In altri termini, l’aumento dei tassi di partecipazione al mercato del lavoro è l’effetto della caduta dei salari e, al tempo stesso, contribuisce a generarla.

2. Il Jobs Act ha contribuito alla precarizzazione del lavoro anche per mezzo dell’estensione della platea di lavoratori pagati con buoni lavoro (voucher), per ogni settore produttivo e committente. I buoni lavoro, già presenti nella c.d. Legge Biagi, erano stati pensati per remunerare mansioni accessorie e occasionali, spesso prestate in condizioni di illegalità. Tipicamente: lavori domestici saltuari, badanti. Occorre ricordare che il lavoro con voucher non configura un contratto di lavoro e, per questa ragione, non dà al lavoratore diritto a ferie, maternità, né, in caso di non rinnovo del rapporto, si configura un licenziamento1. Il risultato dell’estensione della platea di potenziali beneficiari è impressionante: nel corso del 2016, sono stati staccati 115 milioni di tagliandi, coinvolgendo circa 700 mila lavoratori (a fronte di 25mila nel 2008) per un importo complessivo stimato intorno agli 800 milioni di euro.

La recente decisione della Consulta di consentire il referendum abrogativo dei voucher (uno dei tre proposti dalla CGIL) va accolta con favore, sebbene si tratti di una decisione opinabile e oggetto di critiche (http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=27177), avendo impedito ai cittadini italiani di esprimersi contro l’abolizione dell’art.18. I buoni lavoro costituiscono la nuova frontiera del precariato, e ogni azione di contrasto al precariato è da valutare positivamente sia per garantire dignità al lavoro, sia perché è ampiamente mostrato – sul piano teorico ed empirico – che la precarizzazione del lavoro non accresce l’occupazione, riduce la quota dei salari sul Pil, ed è un freno alla crescita2.

E’ lo stesso Governo ad ammettere che l’uso dei voucher va maggiormente regolamentato a ragione del fatto che di questo strumento le imprese avrebbero “abusato”. Ma è lo stesso Governo a continuare a reiterare l’argomento (falso) per il quale i buoni lavoro sono uno strumento efficace per contrastare il lavoro nero. Per decretare la falsità di questo argomento, può essere sufficiente considerare che, su fonte ISTAT, l’incidenza del sommerso sul Pil è costantemente aumentata negli ultimi anni, pur essendo stato fornito alle imprese lo strumento dei buoni lavoro. Ed è proprio l’ISTAT a imputare l’aumento del sommerso all’aumento del tasso di disoccupazione – non all’eccessiva rigidità del mercato del lavoro, come nell’interpretazione governativa e dominante – in linea con la posizione dell’INPS3.

È poi interessante osservare che, su fonte INPS, l’uso dei voucher è maggiormente diffuso al Nord (fatta eccezione per il boom di voucher venduti in Sicilia), dove, per le informazioni di cui si dispone, è normalmente minore l’incidenza del lavoro sommerso o irregolare. Il che potrebbe dipendere dalla maggiore numerosità di imprese lì localizzate e dalla loro crescente propensione a competere comprimendo i salari e accelerando (grazie alla massima flessibilità sui tempi garantita dai voucher) i tempi di produzione e vendita. E, per quanto attiene l’offerta di lavoro, è ragionevole ipotizzare che in quell’area sia presente, e in crescita, una platea di lavoratori disposti a lavorare a qualsiasi condizione. Il che, a sua volta, può innescare un fenomeno irreversibile. Lavoratori che hanno accettato di essere pagati con voucher saranno evidentemente considerati dalle imprese lavoratori disponibili a erogare le loro prestazioni con i minimi diritti in un ‘gioco al ribasso’ che i meccanismi spontanei di mercato non frenano, anzi promuovono.

1 La letteratura accademica sul fenomeno, per quanto attiene all’Italia, è ancora molto scarna. Per un inquadramento generale del fenomeno si rinvia a D. Serafin, V come voucher. La nuova frontiera del precariato, Report “Possibile”, novembre 2016.
2 Per una ricostruzione del dibattito, si rinvia, fra gli altri, a G.Forges Davanzati e G.Paulì, Precarietà del lavoro, occupazione e crescita economica, “Costituzionalismo”, 2015 n.1.
3 V. C. De Gregorio e A. Giordano, The heterogeneity of irregular employment in Italy, ISTAT working paper n.1 2015.

Hanno pagato caro, ma non hanno ancora pagato tutto

di Sandro Moiso

4-leader-sconfitti-no Si erano giocati tutto, convinti di vincere.
Hanno stravolto i vertici delle TV di Stato per impedire qualsiasi infiltrazione di dubbi sulla bontà della loro proposta politica ed economica. Hanno contribuito a cambiare anche i direttori di testate giornalistiche della Destra per accaparrarsene i favori. Hanno mentito, falsificato i dati economici e della Storia. Hanno portato in palma di mano camorristi e mafiosi e i progetti delle grandi opere inutili che più stavano loro a cuore.

Hanno insultato, denunciato, perseguitato, minacciato, coperto di infamia chiunque manifestasse il desiderio o anche solo l’idea di opporsi al loro progetto concentrazionario. Hanno promesso contratti pubblici che non contengono null’altro se non ulteriori fregature per i lavoratori. Hanno promesso denaro che non avrebbero mai avuto il coraggio di sequestrare davvero e in quantità adeguata per bonificare territori devastati da un’industrializzazione priva di regole.

Hanno preso per il culo milioni di giovani, lavoratori, disoccupati, inoccupati, pensionati sull’orlo del baratro con promesse inutili, ridicole e d offensive. Hanno riportato in auge i fasti mussoliniani e cercato di ridare fiato alle leggi promulgate tra il 1923 e il 1926.1 Hanno chiamato immaturi gli elettori che non la pensavano come loro. Hanno dichiarato che in alcuni casi è preferibile l’autoritarismo ad una democrazia che non giunga a realizzare i progetti della finanza internazionale e dei suoi lacchè.

>>> segue alla fonte CARMILLAONLINE

Trump e il futuro degli accordi commerciali

fonte Sbilanciamoci.info

L’atteggiamento del neopresidente Usa accentua la spinta in atto allo spostamento del nucleo centrale dell’economia mondiale verso il Pacifico e in particolare verso l’Asia del sud est e la Cina

Apparentemente, stando alle dichiarazioni fatte da Trump durante la campagna elettorale e anche dopo, i trattati “commerciali” che Obama aveva con tanta cura cercato di portare avanti nei suoi anni di presidenza, sembrano ormai saltati. Si va, come è noto, dal TPP, che riguardava i rapporti con l’America Latina e l’Asia, al TTIP, che investiva invece quelli con l’Europa, infine al CESA, che toccava il settore dei servizi.

In effetti, ogni attività politico-diplomatica in proposito sui vari fronti sembra essere cessata, o formalmente “sospesa”, in attesa di tempi migliori, mentre assistiamo anche alle dichiarazioni sconsolate dei molti che speravano che le cose andassero avanti ed anche a quelle di chi auspica ancora che le cose tornino ancora alla “normalità” di obamiana memoria. Non è certamente il nostro caso.

E’ noto che il TPP era stato ormai sottoscritto dai paesi interessati e mancava nella sostanza solo l’approvazione da parte del Congresso americano, mentre per il TTIP si era ancora in una fase di negoziazione tra le parti, in presenza comunque di una forte opposizione della società civile di diversi paesi europei e anche di quella di diversi ambienti politici, in particolare in Francia e in Germania. Il CESA, infine, si trovava in uno stadio ancora più arretrato del suo ciclo di messa a punto e comunque presentava tutti i difetti degli altri due, più qualcuno di suo.

E’ opinione diffusa che gli obiettivi di tali trattati, almeno in parte a torto definiti semplicemente commerciali, e che riguardavano in realtà una tematica molto più ampia, avevano come obiettivi principali quelli di far avanzare il dominio economico delle multinazionali statunitensi e quello politico degli Stati Uniti, mentre cercavano invece di frenare parallelamente l’avanzata della Cina, che era comunque non a caso esclusa dalla partita.

Ora che tutto questo sembra finito, cosa succederà? Come si rimedierà all’ horror vacui?

Asean, Apec, Ftaac, Rcep

Bisogna a questo punto ricordare che la gran parte dei paesi emergenti e anche delle realtà come l’Australia, la Nuova Zelanda, la Corea, il Giappone, vedono ancora come fondamentale il ruolo del commercio internazionale nelle loro politiche di sviluppo economico. Tale visione è in questo momento anche accentuata dal rallentamento economico di cui tali paesi soffrono.

Così all’incontro dell’Apec (si veda meglio più avanti) che si è concluso il 20 di novembre, il presidente del Perù, rispecchiando sostanzialmente il sentimento della gran parte degli altri paesi emergenti, ha sottolineato come la retorica protezionistica di Trump e il voto britannico per l’uscita dall’Unione Europea rappresentino degli sviluppi minacciosi per l’economia globale. “E’ fondamentale che il commercio internazionale cresca ancora e che il protezionismo sia sconfitto”, così egli ha dichiarato. Ed anche il primo ministro australiano, stretto alleato politico e militare degli Stati Uniti da sempre, ha usato in proposito toni allarmati.

Il sentimento generale è quello che non si vuole in nessun caso un ritorno al protezionismo.

Ricordiamo ancora, prima di procedere oltre, l’esistenza di due organizzazioni economiche importanti, quella dell’Asean, Association of South-East Asian Nations, che raggruppa dieci paesi del sud est asiatico e quella dell’Apec, Asia Pacific Economic Cooperation, che mette invece insieme diciassette paesi latino-americani ed asiatici, nonché Usa, Cina, Giappone, Russia.

Nell’ambito di tali organizzazioni si discute da tempo del varo di due distinti trattati commerciali; per quanto riguarda l’Apec, si tratta del FTAAP, Free Trade Area of the Asia-Pacific, mentre per quanto tocca all’Asean, si fa riferimento al RCEP, Regional Comprehensive Economic Partnership, che dovrebbe comprendere, oltre ai paesi membri dell’organizzazione, anche Cina, India, Corea del Sud, Giappone, Australia. Ambedue i trattati includono la Cina mentre almeno il secondo esclude gli Stati Uniti. Va sottolineato che almeno sette dei dodici paesi che avrebbero dovuto partecipare al TPP sono membri potenziali del RCEP.

La FTAAP è stata proposta per la prima volta nel 2006, mentre nel 2014 è stata messa a punto una sua road map, in pratica una strategia in fasi per arrivare all’obiettivo finale di ridurre le barriere commerciali tra i paesi. Ma gli Stati Uniti facevano resistenza e volevano che fosse data priorità ai negoziati per il TPP.

La RCEP è stata invece lanciata nel 2013 nell’ambito dell’Asean. Questo secondo trattato è in una fase relativamente avanzata e potrebbe essere varato in tempi relativamente brevi. Vi aderiscono in totale 16 paesi.

Si tratta di due possibili accordi che hanno obiettivi più modesti di quelli statunitensi e si limitano sostanzialmente alla riduzione delle barriere commerciali, mentre non coprono, al contrario del TPP e del TTIP, aree quali il ridimensionamento delle imprese pubbliche , i flussi di dati tra i vari paesi, o i tribunali speciali per le controversie commerciali.

Ora la Cina, cogliendo evidentemente la palla al balzo, ha cominciato a aumentare gli sforzi perché l’iter dei due trattati venga accelerato. Il suo Presidente ha subito dichiarato a Lima che il paese non è per il protezionismo, ma per aprire ancora di più le frontiere ed ha ufficialmente manifestato la volontà che le cose vadano rapidamente avanti. Diversi paesi vogliono associarsi al RCEP, pur non facendo parte dell’Asean, mentre la Cina viene vista in maniera crescente come leader naturale del processo. Persino l’Australia ha gettato tutto il suo peso dietro gli sforzi cinesi. Così il ministro del commercio di quest’ultimo paese ha dichiarato che qualsiasi mossa che riduca le barriere al commercio e lo faciliti è un passo nella giusta direzione.

Intanto l’India manifesta in modo molto chiaro la sua volontà di far parte in modo molto attivo del processo.

Ricordiamo anche, per sovrannumero, che nelle ultime settimane si va registrando un intiepidirsi dei legami con gli Stati Uniti di paesi come le Filippine, la Malaysia e la Tailandia ed un avvicinamento degli stessi alla Cina.

Conclusioni

Sembra intanto inevitabile cominciare a imparare a memoria le nuove sigle delineate nelle pagine precedenti. In effetti la mossa di Trump accentua la spinta in atto allo spostamento del nucleo centrale dell’economia mondiale verso il Pacifico e in particolare verso l’Asia del sud est e la Cina. La tendenza sembra ormai inevitabile.

Alla fine così ci potremmo trovare di fronte ad un paradosso: gli Stati Uniti avevano lanciato il TPP e il TTIP per escludere la Cina dai giochi e comunque per evitare che fosse la Cina a scriverne le regole. La Cina è ora al centro della scena dell’avvio dei nuovi trattati da cui gli Stati Uniti sono esclusi almeno in parte e tutti chiedono che sia la stessa Cina a scrivere le regole o almeno a collaborarvi in maniera importante.

Ma naturalmente non sono esclusi dei colpi di scena.

Speciale verso il referendum – Il nuovo senato, ovvero il bundesrat “de’ noantri”

fonte ManifestoBologna

di Piergiovanni Alleva

Nel corso di questa esasperata campagna elettorale, il sostenitore del “sì” non hanno mai davvero chiarito in cosa consista la riforma costituzionale, tanto rumorosamente propagandata, né quali siano i suoi supposti mirabolanti benefici, che dovrebbero “mettere le ali” alla nostra depressa situazione socio-economica.

Non si può davvero trattare di qualche risparmio finanziario sulle spese di funzionamento del Senato e di tempo sulla durata degli iter legislativi, perché altrimenti sarebbe stato semplicemente logico abolire il Senato invece che mantenerlo in vita, riducendolo ad una sorta di nano deforme ma comunque costoso.

Occorre, allora “esaminare dal di dentro” la riforma per comprenderne essenza e meccanismi e constatare come essa si risolva nel consueto inganno, già sperimentato con il Job’s Act tra una apparenza neutra o positiva e un contenuto reale pessimo e pericoloso. Il vero è, detto in breve, che la riforma costituzionale del governo Renzi consiste, essenzialmente in una cattiva imitazione del sistema bicamerale tedesco, con la trasformazione del nostro Senato in qualcosa all’apparenza molto simile alla seconda camera del parlamento tedesco, detta “Bundesrat”.

Il Bundesrat – come si sa – rappresenta i “Länder” (Regioni – Stato) e affianca la Camera dei deputati, detta Bundestag che rappresenta invece la nazione.

Il “nuovo Senato” ha infatti molte somiglianze formali con il Bundesrat, a cominciare dal fatto che i suoi membri non sono eletti direttamente dal popolo bensì provengono dai governi o assemblee regionali, ma la sostanza dell’operazione risulta, alla fine, ben diversa da una semplice importazione di un istituto da un ordinamento straniero ed è invece perfettamente coerente con un fine, tipicamente renziano, di accentramento dei poteri.

Sottolinieamo, per spiegare i termini della questione, che nella Repubblica Federale tedesca i Länder godono di ampia autonomia normativa su molte materie, anche in concorrenza con lo Stato Federale, e che il Bundesrat svolge in favore dei Länder una funzione di garanzia mediante la sua partecipazione alla formazione delle leggi nazionali, proprio allo scopo che queste non possano ledere gli interessi e i diritti degli stessi Länder. Non per nulla i membri (69 in tutto) del Bundesrat sono anzitutto membri dei Giverni dei Länder che li delegano.

Il Bundesrat svolge la sua funzione di garanzia nell’ambito della legislazione nazionale in due modi: esiste un nutrito elenco di leggi che tipicamente toccano gli interessi dei Länder, le quali devono essere approvate anche dal Bundesrat per poter essere emanate. È importante ricordare che hanno rappresentato, anno per anno, più della metà di tutte le leggi nazionali.

Ma anche per le altre leggi, diverse da quelle esplicitamente bicamerali il Bundesrat ha dei poteri reali perché, se ritiene che una legge possa avere una incidenza negativa sull’interesse dei Länder, può interporre un veto sospensivo all’emanazione della legge, ed è un veto che la Camera dei Deputati o Bundesrag può superare ma solo con maggioranza qualificata.

Qual è stata invece, la strategia del Governo Renzi nella operazione di importazione “finta” del Bundesrat?? Qui è fondamentale cogliere il nesso tra l’art. 117 del progetto di riforma che ridefinisce i rapporti Stato Regioni e l’art. 70 che definisce i residui poteri legislativi del nuovo Senato.

Il fatto è che da un lato l’art. 117 ha posto in essere una violenta operazione di accentramento, che riduce al minimo l’autonomia regionale, perché diventano di esclusiva competenza statale i 3/4 delle materie che oggi sono di competenza concorrente. Dall’altro lato, poi, a livello della legislazione nazionale il nuovo Senato non può svolgere le funzioni di garanzia svolte in Germania dal Bundesrat perché non ha sufficienti poteri.

Sono assai poche le materie in cui ha il potere di legiferare alla pari della Camera e per ironia riguardano assai più l’interesse nazionale (riforme costituzionali, referendum rapporti con l’Europa ) che quelli dei territori. Per le altre leggi “monocamerali” cioè decise solo dalla camera dei deputati, il Senato non può emettere alcun veto sospensivo ma solo proporre delle modifiche sulla quale la Camera può pronunciarsi negativamente a maggioranza semplice dei votanti.

In definitiva, il Senato ad onta della sua proclamata qualità di rappresentanza delle istanze territoriali, può solo emettere flebili lamenti in difesa di queste (ovvero dei “mugugni”) ma non può partecipare davvero alla produzione legislativa a tutela dei loro interessi.

Risultando alla fine simile ad un soldatino male in arnese messo a guardia, con un fuciletto caricato a salve, di un bidone vuoto o, per meglio dire svuotato. Il Bundesrat è ben diverso e molto meglio armato a tutela di un sistema fiorente di autonomia e, dunque, per questo e non per quello è giusto impiegare risorse.

È naturale infine chiedersi però perché il Governo insista tanto nel tentativo di imitazione con trasformazione del Senato in un falso Bundesrat visto che da ciò non può logicamente derivare alcun beneficio né al Pil né all’occupazione?

C’è una sola risposta: non importa, per così dire, al Governo Renzi ciò che si disegna, ma ciò che si cancella, e ciò che si cancella è qui un pezzo di sovranità popolare, cioè l’elettività del Senato, umiliando nel contempo anche l’autonomia regionale, altra sede di esercizio democratico.

La progressione del Governo è impressionante, via le Province elettive, via il Senato elettivo, riduzione all’irrilevanza delle regioni e loro consigli perché resti solo la camera dei deputati tuttavia drogata e truccata da un premio di maggioranza che a ben guardare da luogo ad una sorta di postulato antidemocratico.

Infatti, stante la situazione di reale tripartitismo o quadripartitismo nella società nessun partito riceverà più del 30% dei voti ma quello che in relativo né avrà di più, otterrà i 55% dei seggi ottenendo così di poter comandare al 70% dei cittadini elettori che si sono divisi tra gli atri partiti. Come chiamare allora, se non “anti-democrazia” un sistema nel quale la minoranza comanda istituzionalmente contro la maggioranza?

Comunicazione strategica o pastrocchio per giustificare una politica europea sbagliata verso la Federazione Russa ?

 
PDF 495k WORD 66k
Mercoledì 23 novembre l’Europarlamento ha adottato la risoluzione intitolata “Comunicazioni strategiche della UE come contrasto della propaganda di terze parti”, in cui si traccia un parallelo tra le attività dei media russi e quelle dei terroristi del Daesh. A sostegno del documento hanno votato 304 deputati, i no sono stati 179, mentre si sono astenuti in 208.

Comunicazione strategica o pastrocchio per giustificare una politica sbagliata verso la Federazione Russa ? Nel documento di maggioranza si confondono e si mettono sullo stesso piano la Federazione Russa e il Daesh . Si richiedono norme statuali a riduzione della libertà d’espressione : le opinioni divergenti dal pensierino unico potranno essere definite “armi propagandistiche” e censurate.

Il documento sulla ” Comunicazione strategica della UE ” approvato dalla maggioranza rappresenta una pericolosa tendenza verso  forme di riduzione della libertà d’espressione. editor

 

 

14 ottobre 2016

PE 582.060v03-00 A8-0290/2016
Relazione sulla comunicazione strategica dell’UE per contrastare la propaganda nei suoi confronti da parte di terzi

(2016/2030(INI))

Commissione per gli affari esteri
Relatore: Anna Elżbieta Fotyga
PROPOSTA DI RISOLUZIONE DEL PARLAMENTO EUROPEO
PARERE DI MINORANZA
PARERE della commissione per la cultura e l’istruzione
ESITO DELLA VOTAZIONE FINALEIN SEDE DI COMMISSIONE COMPETENTE PER IL MERITO

Leggi tutto

La riforma Renzi – Boschi è operazione di distrazione di massa

Intervista di Giulio Cavalli a Anna Falcone – 16 novembre 2016

«Questa riforma è ben diversa dalla propaganda che stiamo ascoltando» dice. E aggiunge: «Siamo di fronte a una preoccupante lesione del diritto dei cittadini di votare informati».

Anna Falcone, avvocato cassazionista e vice presidente del Comitato del No è uno dei volti “nuovi” di questa campagna referendaria. Impegnata sul fronte del referendum è attivissima negli interventi e nelle partecipazioni a dibattiti (televisivi e non).  Abbiamo voluto porle alcune domande sulle ultime polemiche di questi giorni.

La campagna referendaria si sta scaldando: scoppiano le polemiche contro la personalizzazione del referendum da parte del premier Renzi e l’ultima in ordine di tempo è la questione della lettera agli italiani all’estero che il premier ha inviato per perorare la causa del no. Come vede la situazione attuale?

Questo è l’effetto immediato e diretto di un’anomalia: il fatto che questa riforma costituzionale sia stata proposta dal governo. E questo è veramente all’origine di tutte queste disfunzioni: un esecutivo (di cui Renzi è responsabile) che si permette non di revisionare la Costituzione (così come previsto dall’articolo 138) ma addirittura di scriverla stravolgendola e toccando l’equilibrio di poteri e il loro principio di separazione. La Costituzione così cambia natura: le Costituzioni nascono proprio per limitare il potere esecutivo dandogli delle regole condivise da tutti per garantire che il potere esecutivo non venga attuato in maniera arbitraria ma in rispetto della sovranità popolare.

Ritenete quindi che il Governo abbia forzato la mano?

Avendo stravolto questa origine per cui le Costituzioni le scrivono i popoli e non i governi e se devono essere modificate così profondamente serve un’assemblea costituente o quantomeno un Parlamento eletto dal popolo con questo mandato (e non certo con una maggioranza eletta da una legge incostituzionale come questa). Essendo partiti da qui siamo arrivati all’anomalia per cui questo stesso governo (che dovrebbe preoccuparsi del diritto degli italiani di partecipare consapevolmente a una consultazione referendaria così importante) si occupa della propaganda. Noi stiamo affrontando questa stagione referendaria senza un soggetto garante dei diritti alla corretta informazione su entrambi i fronti.

Ma l’AGCOM non dovrebbe servire proprio a questo?

L’AGCOM non può sopperire. Ha già denunciato uno squilibrio a favore del sì ma non ha il dovere di garantire la corretta informazione essendo solo un organo di controllo.

E il Presidente della Repubblica?

Il Presidente della repubblica potrebbe intervenire ma è un potere neutro. Può intervenire nel processo legislativo (rimandando alle Camere una legge che non funziona) oppure potere di monito. Ma purtroppo il Presidente della Repubblica si è già rivelato particolarmente timido in queste vicende referendarie.

Del resto anche l’argomento non è di facile comprensione…

Sì, l’argomento è ostico ma purtroppo noi ci ritroviamo di fronte a una campagna, quella del sì, che si fonda su argomenti menzogneri. Riuscire a avere la par condicio solo nell’ultima parte della campagna referendaria (senza parità di mezzi) pone un problema di un’oggettiva sproporzione di mezzi, di visibilità e c’è un abuso di posizioni. Il Presidente del Consiglio dovrebbe preoccuparsi di garantire una corretta informazione: all’estero andava mandata una scheda con delle sintetiche ragioni del sì e del no. Inviare una lettera firmata solo “Matteo Renzi” è un modo per indirizzare il voto. Questo referendum sembra sempre di più una semplice ratifica di decisioni già prese.

Dice Renzi che i principi della Costituzione (la prima parte) non vengono toccati.

La seconda parte sono le braccia e le gambe: se le tagli di fatto rendi impossibile la piena attuazione dei principi della prima parte. Attenzione: noi diciamo da tempo che la Costituzione è modificabile ma bisogna cercare di migliorare la Costituzione e il collegamento tra la prima e la seconda parte. Noi lamentiamo la mancata attuazione di alcuni articoli fondamentali. Molte modifiche (come la riforma del titolo V e l’introduzione del pareggio di bilancio) sono servite a travisare il senso dei principi fondamentali e di alcuni diritti garantiti.

Tipo?

Penso al diritto alla salute: l’articolo 32 tutela il diritto alla salute come diritto universale. In questa riforma si dice che finalmente viene inserita una norma che garantirà a tutti i cittadini italiani lo stesso livello di cura. Noi partiamo da un’anomalia dell’ultima modifica del titolo V che aveva costituito diversi sistemi sanitari quante sono le regioni e che aveva portato a una mancanza di omogeneità. Essendo la salute un diritto economicamente condizionato le ragioni più povere ovviamente non riescono a garantirlo come altri. Con questa riforma si è duplicata la norma già prevista dall’articolo 117 2 comma lettera M che prevedeva già i LEA e i LEP (livelli essenziali di assistenza e prestazioni) secondo cui spettava allo Stato stabilire i principi essenziali di tutela alla salute ma se non costituzionalizzi una garanzia concreta, se non riempi di contenuti queste norme ma indichi solo una competenza vuota diventa l’ennesima norma di rinvio. Non c’è nessuna garanzia. Quando parlano di “farmaci antitumorali” si dimenticano di dire che hanno mantenuto in capo alle regioni le competenze di programmazione e organizzazione, proprio quelle fortemente condizionate dalle risorse economiche delle regioni. Tutta questa riforma è un’operazione di distrazione di massa disseminata di specchietti per le allodole che non garantisce efficienza e che mira semplicemente a un accentramento di poteri in campo al governo.

Dicono che in realtà il popolo però avrà più strumenti come iniziative di legge popolare o referendum.

Si parla di obbligo di calendarizzazione ma basterebbe guardare nella riforma per accorgersi che non c’è scritto da nessuna parte. Anzi, il rinvio della disciplina è vero i regolamenti parlamentari. Peccato che i regolamenti parlamentari siano approvati a maggioranza assoluta dal Parlamento e quindi noi ad ogni governo potremmo vedere cambiare questi meccanismi. Così come per il referendum propositivo e altro. Gli obbiettivi che il governo propaganda vanno verificati. Tutti.

Ora Renzi sembra avere preso una nuova piega “anticasta”. Togliere le bandiere dell’Unione Europea nei suoi ultimi video che significato ha?

È un tentativo di sfruttare a suo vantaggio la vicenda americana ma qui le situazioni non sono assimilabili. La lezione piuttosto è che la mancata partecipazione dei cittadini alla vita politica produca nei cittadini la voglia di un voto che sia schiaffo. Renzi ha poco da sorridere, non vuole capire che questa riforma da molta meno partecipazione (come il diritto di voto ai senatori, solo per fare un esempio). E poi c’è il modo: se il problema era la riduzione dei costi della politica sarebbe bastato diminuire il numero dei deputati. Qui si parla si un risparmio dello 0,10%.

Che aria tira sua questa campagna referendaria?

Mi preoccupa la rabbia. Mi fa molto sperare vedere come questa campagna sia stata capace di riportare all’impegno attivo tante persone che si erano allontanate, tanti giovani e tanti volontari.

continua su: http://www.fanpage.it/parla-anna-falcone-tutta-questa-riforma-e-un-operazione-di-distrazione-di-massa/

http://www.fanpage.it/