Con la riforma del Titolo V via libera allo sfruttamento selvaggio dei territori

fonte BLOG LAVORO SALUTE

Lo sport nazionale dei governi è la riforma di tutto ciò che non piace alle imprese, per invogliarle ad investire nel proprio paese. Sulle riforme per attirare gli investimenti, i governi non hanno molto da inventare, ha già scritto tutto il World Economic Forum,l’associazione delle multinazionali che tutti gli anni organizza l’incontro di Davos, per dettare l’agenda politica. Nei suoi rapporti elenca le condizioni che piacciono alle imprese: basso regime fiscale, bassi oneri sociali, alta flessibilità del lavoro e un assetto istituzionale sicuro e veloce. Cioè governi stabili capaci di garantire continuità politica e parlamenti veloci capaci di produrre in fretta leggi favorevoli agli affari.
Con la riforma del Titolo V via libera allo sfruttamento selvaggio dei territori

Partiamo da un presupposto: il consolidamento della post-democrazia di cui parlava Crouch ha bisogno di riforme costituzionali come quella che saremo chiamati a votare (o meglio a sventare) il 4 dicembre. Il disegno sotteso alla riforma – propagandata come al di sopra del bene e del male, buona di per sé, come se dopo anni di tentativi andati a vuoto il solo concetto fosse salvifico e non ne importasse il carattere migliorativo o peggiorativo – mira alla consacrazione di un sistema politico in cui, invece che restituire sovranità al popolo cui apparterrebbe, si fa il possibile per concentrarla sempre più verso l’alto. Vale la pena ricordare che il colosso finanziario JP Morganaffermava nel 2013 che le costituzioni antifasciste – ispirate ai diritti e all’allargamento della base democratica – sono una zavorra per la crescita e vanno profondamente modificate.

L’indicazione giunta al governo dalle istituzioni finanziarie riguarda dunque la creazione delle condizioni di piena esigibilità per le richieste del mercato: necessarie riforme economiche, necessarie grandi opere, necessario sfruttamento delle risorse naturali, necessari tagli ai diritti sociali e al welfare. Il risultato atteso è legittimare la delega dell’intero esercizio deliberativo ad organismi sempre meno rappresentativi dell’interesse collettivo. La ricetta è lineare: svuotamento dei luoghi della rappresentanza, rarefazione dei centri di potere e corsa a verticalizzarne i meccanismi di decisione tramite maggiori poteri all’esecutivo, la camera politica unica e la nuova legge elettorale che la determinerà, le nuove tipologie di procedimenti legislativi che scavalcano le istituzioni di prossimità.

Uno degli aspetti meno trattati e più rilevanti della riforma è la revisione del Titolo V, che affermerebbe un modello di gestione delle risorse deciso dai ministeri – neppure dal Parlamento – senza previsione di correttivi in senso partecipativo. Le competenze esclusive che tornerebbero allo Stato riguardano produzione, trasporto e distribuzione dell’energia; infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e navigazione; beni culturali e paesaggistici; ambiente ed ecosistema; attività culturali e turismo; governo del territorio; protezione civile; porti e aeroporti civili.

La riformulazione dell’art.117 introduce come ulteriore elemento d’allarme la clausola di supremazia “Su proposta del governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale.“La formula offre all’esecutivo spazio per molteplici forzature: invocando l’interesse nazionale (leit-motiv dell’ultimo decennio) sarà possibile imporre politiche e progetti invisi agli enti locali e alle comunità chiamate a pagarne i costi economici, ambientali, sociali e sanitari. Se ha una sua ratio prevedere che sia il livello centrale a stabilire le regole generali dell’agire in materia di ambiente, garantendo come precondizione il pieno rispetto degli art. 9 e 32 della Costituzione, nello scenario dato il nuovo assetto si tradurrebbe inevitabilmente in un ulteriore arretramento delle legittime pretese dei cittadini potenzialmente o concretamente impattati. Gli enti locali sono inoltre i più esposti – e ricettivi – alle pressioni esercitate dalle comunità locali: elemento rivelatosi spesso decisivo per ottenere la rinuncia a progetti a forte impatto ambientale. Escludere le Regioni dal rapporto di “leale collaborazione” con lo Stato su tutte queste materie senza prevedere di compensare con strumenti di concertazione locale avrà l’effetto di aggravare anziché risolvere il gap (in termini di analisi e proposte) tra comunità e governo centrale.

Da un altro punto di vista, la riscrittura dell’art. 117 è la testa di ariete attraverso cui si tenta di forzare l’introduzione in costituzione di alcuni dei principi contenuti nel decreto sblocca Italia, convertito nonostante forti proteste nella L.164/2014. Si tratta in parte di principi su cui il governo ha dovuto fare marcia indietro in seguito al deposito dei quesiti referendari promossi da 9 Regioni e centinaia di associazioni ambientaliste. Un punto in particolare, che prevedeva l’esclusione delle Regioni dai processi decisionali in materia energetica e infrastrutturale, è stato dichiarato incostituzionale con sentenza n.7/2016 per violazione degli artt.117-118 e recepito obtorto collo dal governo nella legge di stabilità per evitare di sottoporre tale punto (pronto a rientrare in campo proprio con la riforma costituzionale) alla consultazione popolare dell’aprile scorso.

Nonostante la sopravvivenza di un unico quesito, il 17 Aprile oltre 15 milioni di Italiani si sono recati alle urne per affermare il loro diritto a decidere in materia di politiche energetiche. Durante la campagna referendaria il governo ha mostrato quale idea avesse della partecipazione popolare: la proclamazione dell’esistenza di temi troppo difficili su cui esprimersi (guarda caso riguardanti profitti miliardari e devastazioni territoriali), una campagna informativa condotta al fine di boicottare la consultazione, lo sprezzante “ciaone” agli elettori la sera del voto. In quelle stesse settimane emergevano con chiarezza, grazie ad un’inchiesta della magistratura, le connessioni tra il governo e le lobbies energetiche del Paese: scandalo che costrinse l’allora ministro Guidi a dimettersi. Di oggi, infine, è la notizia che il governo Renzi ha autorizzato nuove attività di ricerca di idrocarburi lungo la riviera Adriatica e nel Mar Ionio. Neppure sei mesi dopo il referendum e le continue rassicurazioni circa la rinuncia a nuovi fronti estrattivi, si imbocca nuovamente, indisturbati, la via nera del petrolio. Ulteriore conferma, questa, che lo spirito di quella campagna referendaria e la rivendicazione democratica costruita su centinaia di territori trovano oggi più che mai la loro naturale continuazione nella costruzione di un No collettivo al referendum costituzionale.

Da anni assistiamo all’attivazione di decine di migliaia di persone per ciascuna battaglia territoriale: il movimento No Ombrina in Abruzzo, le lotte contro il Biocidio in Campania, le istanze dei No Triv, No Tav, No Tap e No Muos, le centinaia di altre realtà di resistenza popolare in prima linea per il diritto alla vita, alla salute, all’ambiente. Questo aumento della conflittualità sociale attorno all’imposizione di politiche impattanti (con gravi effetti documentati da rigorosi e numerosi studi ambientali, epidemiologici, economici e demografici) suggeriscono che i meccanismi di funzionamento della democrazia andrebbero riformati in direzione opposta da quella indicata dalla riforma: devolvendo potere decisionale alle comunità sulla gestione delle risorse e inaugurando un nuovo concetto di sovranità legato al territorio.

Alcune tra le maggiori organizzazioni ambientaliste, le 19 big firmatarie dell’appello in cui si chiede al governo di rivendicare la competenza esclusiva dello Stato in materia ambientale senza postulare la necessità di una riforma in senso partecipativo, dimostrano di non aver compreso che la partecipazione alle decisioni e la centralità della volontà popolare non è affatto un corollario marginale per una piena tutela dell’ambiente e dei diritti a esso connessi.

La riforma aiuta infine l’ufficializzazione di una prassi di sospensione democratica già arbitrariamente utilizzata: il massiccio ricorso alla gestione commissariale e allo stato di emergenza, attraverso le quali nell’ultimo decennio si è imposto il meccanismo del comando e controllo come risposta autoritaria all’emergere delle istanze più disparate.

Questa riforma è l’atto finale del processo di trasformazione dello Stato e di suo asservimento a logiche puramente neo liberiste, succubi del mercato e della finanza. Un processo che dopo vent’anni di “berlusconismo”, l’avvento dei tecnici (Monti) e il ricorso a larghe intese (Letta) ha trovato il suo perfetto scudiero in Renzi e la sua definizione formale nella proposta di modifica costituzionale.

Di fronte a questa minaccia, convinti che sia necessario ricostruire un sistema paese fondato sulle redistribuzione dei poteri e della ricchezza e sulla giustizia ambientale, non possiamo che individuare nell’approvazione della riforma un rischio enorme per la tenuta sociale e democratica del paese e nel coinvolgimento pieno delle realtà di resistenza territoriale nella campagna del No una prospettiva concreta per una reale trasformazione del nostro paese.

Marica Di Pierri – Associazione A Sud

Stefano Kenji Iannillo – Rete della Conoscenza

Pubblicato su HUFFINGTON POST del 21 ottobre 2016

Il digitale, i controlli a distanza e… la democrazia!

Il digitale, i controlli a distanza e… la democrazia!
C’è un filo rosso che lega la contro-riforma costituzionale con i controlli a distanza che coinvolgono i lavoratori anche nei momenti liberi. di Riccardo De Angelis 22/10/2016

Fonte  LACITTAFUTURA.IT

 


L’autunno è arrivato sull’onda del dibattito relativo all’impatto dell’era digitale e robotica nel mondo del lavoro, con le ormai abituali previsioni di riduzione di milioni di posti di lavoro. Tralasciando ora la questione che la riduzione non è legata all’innovazione ma alle scelte di sfruttamento che il capitale adotta, vogliamo concentrarci invece sulle capacità di controllo della produzione e dei “produttori” che il digitale consente in assenza di una adeguata regolamentazione o meglio ancora concezione dell’organizzazione del lavoro.

Dopo le modifiche operate di fatto sull’Art.4 dello Statuto dei lavoratori (L. 300/70) dal Jobs Act e al portone aperto dall’accordo del 2011 tra Confindustria e Sindacati, ratificato da una norma inserita dall’ultima Finanziaria di Berlusconi dello stesso anno, le aziende private e pubbliche stanno operando un affondo deciso per conquistare questo baluardo della rigidità sindacale. Il divieto di controllo a distanza, già eluso negli anni precedenti con diversi accordi aziendali che con la scusa della sicurezza cedevano quote di questo diritto alla riservatezza, subisce un destino in controtendenza rispetto a quanto stabilito dalle nuove normative sulla privacy che avrebbero potuto blindare tale divieto anche dentro i luoghi di lavoro. Come è facile capire, la politica della sicurezza imperante, ha fatto invece cedere il passo al “diritto” dei lavoratori e lavoratrici di poter essere liberamente spiati durante l’orario di lavoro.

Se è vero che i precedenti accordi venivano molto spesso trincerati dietro la postilla per cui le informazioni raccolte tramite i sistemi di controllo non potevano essere in alcun modo utilizzate per provvedimenti disciplinari, è altrettanto vero che si introduceva il monitoraggio costante e ripetuto dei comportamenti abituali dei lavoratori, potendo in ogni caso definire meglio i profili di attivisti, agitatori, o contestatori di diverso ordine e grado.

Oggi, invece, il contesto normativo legato anche alle molteplici attività digitali ha creato i presupposti per un appetito più ampio per il datore di lavoro. La battaglia, che nel ciclo di lotta di conquista era contro l’aumento della produttività a scapito di salute e occupazione, si è trasferita nell’era contemporanea (già pregna di lotte di retroguardia) nella battaglia contro la produttività individuale a favore della più volte reiterata condivisione dei sindacati per la produttività collettiva. Quindi cessa di avere una qualsivoglia capacità di resistenza nel momento in cui il datore di lavoro può misurare costantemente e sistematicamente l’attività di ogni suo singolo dipendente nel momento stesso che sta operando. Ciò permette di esercitare una pressione concreta e psicologica sul singolo, tanto più con un modello salariale sempre più legata alla produttività, che avrà ripercussioni psico-fisiche ben note già da 40 anni.

Ma se tutto ciò non fosse abbastanza, in queste settimane la voracità di Confindustria e dei suoi più agguerriti assaltatori non si esaurisce negli strumenti coercitivi legati al semplice aumento della produttività individuale ma al controllo stesso del singolo lavoratore, con particolare attenzione al profilo che può innescare la contestazione anche in quelli sopiti.

Il cambio normativo sollecitato per contrastare le inevitabili e oggettive resistenze che l’appiattimento dei salari sta determinando ha bisogno di un “salto di qualità” nella capacità di isolare e rendere inoffensive quelle avanguardie che non si arrendono e continuano a seminare conflitto o semplicemente a svelare la natura antiumana del capitalismo in ogni loro contesto.

Questa affermazione che forse molti troveranno abnorme, si rafforza nei ragionamenti e nelle richieste ingiustificate di aziende “pubbliche” o private che non si accontentano di controllare l’attività di produzione di ogni singolo dipendente, ma sempre più ne vogliono controllare la sfera personale, di relazioni, di pensieri che grazie alla sempre più coinvolgente digitalizzazione della comunicazione passa attraverso strumenti promiscui come le mail, i social, il web ecc ecc. Gli algoritmi che permettono a un Facebook qualsiasi di proporci beni di consumo in base alle ricerche o ai “like” inseriti in esso, devono diventare l’abituale controllo giornaliero del datore di lavoro nei confronti del lavoratore.

Cosi, se l’Università di Chieti installa dei software di controllo individuale per conoscere preferenze, discussioni, ricerche e letture on line dei tecnici-amministrativi e dei docenti con la scusa della sicurezza, per fortuna (ribadiamo pura fortuna!) il Garante della privacy, a seguito dell’inchiesta istituita su sollecitazione dei dipendenti, ha vietato tale utilizzo perché il software raccoglieva dati sensibili in nessun modo utili alla sicurezza o all’interesse dell’Università.

Almaviva, invece, preferisce chiudere 2 sedi (Roma e Napoli) dove guarda caso l’accordo sul controllo a distanza era stato rigettato dalle assemblee in maniera netta, preferendo mettere per strada 2000 persone circa. Ree non solo di non acconsentire all’abbattimento del costo del lavoro ma che pretendono “impunemente” di lavorare senza essere trattati come si fa in un campo di concentramento. Perciò la capacità di “rieducazione” di tale gruppo di lavoratori è talmente scarsa che Almaviva non ritiene opportuno cercare strade alternative alla chiusura delle sedi ribelli e lasciare in piedi la sola sede dichiaratasi più pronta a farsi stuprare la dignità.

Telecom Italia, dal canto suo, nella trattativa per il rinnovo del contratto integrativo richiede non solo il controllo nei luoghi produttivi dove operano circa 50mila dipendenti, ma anche di tutti gli strumenti messi a disposizione dalla stessa azienda che non vengono considerati legati all’attività lavorativa come web, mail, social, ecc- Ora, ammesso che non siano legati all’attività lavorativa, ci chiediamo perché l’azienda spende soldi per mettere a disposizione tali strumenti, e ancora qual è il bramoso interesse per conoscere usi e costumi di ogni singolo dipendente se ciò non è strettamente connesso all’attività lavorativa?

La verità è che la cospicua giurisprudenza considera tali strumenti per loro natura promiscui in quanto utili alla comunicazione di ognuno di noi che, come noto, non è univoca ma afferente alla sfera di relazioni che abbiamo e che per la maggior parte degli esseri umani spazia da quella lavorativa a quella affettiva fino ad arrivare oggi ad ambiti quali l’e-commerce. Ancora il 15 settembre di quest’anno il Garante per la protezione dei dati personali nel pronunciarsi sull’ateneo di Chieti ha specificato quali siano gli strumenti per i quali è possibile trovare un’intesa sindacale per il controllo a distanza e quali, invece, siano fuori dalla portata di questi accordi in quanto riguardanti diritti GARANTITI costituzionalmente. Il Garante della privacy esclude quindi il monitoraggio costante e sistematico di mail, instant messagging, registrazione di indirizzi IP e dati personali, ma questo non pare fermare l’appetito padronale.

Un sistema di annientamento personale che, certificato dalla legge, mina la tenuta democratica del paese. Parliamo del controllo totale di una persona che ha la sola sfortuna di lavorare sotto padrone! Di una società in cui il datore di lavoro, per il fatto stesso che “ti concede” di lavorare per lui, ha diritto di sapere ogni cosa dei propri dipendenti e quindi, volenti o nolenti, di costruire il proprio giudizio su una serie di questioni che esulano dall’ambito lavorativo. Si potrebbe obiettare che tali strumenti basta non usarli ma l’era digitale ormai impone l’utilizzo quasi giornaliero di strumenti come quelli citati, ed ove anche fosse possibile l’auto-coercizione del proprio pensiero, ciò risulta abbastanza spaventoso.

Non è un caso che il Garante si esprima in contrasto con tali utilizzi non solo rispetto alle norme sulla privacy ma anche in riferimento agli aspetti costituzionali relativi al divieto di discriminazione delle persone in base al sesso, razza, religione, ideologia . E non è un caso che personaggi come Briatore, Squinzi e simili affianchino il governo Renzi nell’azione di destrutturazione della carta costituzionale ultimo relitto di una legislazione costruita nel conflitto e nella mediazione di classe, a favore un nuovo sistema di regole totalmente sbilanciato per il Capitale e i fruitori dei suoi privilegi.

22/10/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

Fonte  LACITTAFUTURA.IT

L’ultima lezione di Noam Chomsky: un pacato invito alla rivolta

 

 

L’ultima lezione di Noam Chomsky: un pacato invito alla rivolta
Il documentario, intitolato Requiem for the American Dream, descrive una società frantumata, individualista e votata alla diseguaglianza.  di

«Durante la Grande Depressione, che io sono vecchio abbastanza da ricordare, la maggior parte dei membri della mia famiglia erano lavoratori disoccupati. Si stava male, ma c’era la speranza che le cose potessero andare meglio. C’era un grande senso di speranza. Oggi non c’è più». Iniziano così i 112 minuti di Requiem for the American Dream, frutto del lavoro di 4 anni di Peter Hutchison, Kelly Nyks e Jared P. Scott, un prodotto che più che un documentario somiglia alla lezione finale di un grande interprete dei nostri tempi, forse il più grande: Noam Chomsky.

Professore al MIT di Boston, ma soprattutto attivista e anima della sinistra americana per più di mezzo secolo, Chomsky, che ora ha 87 anni, parla con la calma e la tranquillità di un grande vecchio che, senza fretta e senza quel pathos tipico dell’indignazione, unisce i puntini che il capitalismo americano ha lasciato dietro di sé e descrive limpidamente l’esatta dimensione della sfida che abbiamo davanti. O della tragedia.

Al centro del discorso di Chomsky c’è il terrificante — seppur preannunciato — risveglio di una nazione dal cosiddetto “sogno americano”, quell’American Dream che ha lasciato sul campo una delle più gravi e profonde disuguaglianze della Storia moderna.

Chomsky parte dall’inizio della storia americana, dai giorni i cui i padri fondatori costituivano il Senato sulla base della missione molto precisa di proteggere la minoranza delle classi abbienti e limitare la democrazia, ovvero il potere della maggioranza. Una missione poi rafforzata e rilanciata negli anni Sessanta, come reazione alle proteste e all’organizzazione della popolazione. Una reazione potente, precisa, disarmante, che nemmeno lui stesso all’epoca seppe riconoscere, e che oggi lascia un mondo in rovina, con un sistema economico ridisegnato sulle esigenze della finanza, ma soprattutto con la programmatica trasformazione di una classe — i lavoratori — in una galassia informe di precari.

Disinformati da una informazione che da cane da guardia del potere si è trasformata in cane da guardia al servizio del potere, alienati dalla frammentazione del tessuto sociale e commerciale, isolati nell’economia del lavoro e nella stessa vita privata: la creatura sociale che ha preso il posto di quei lavoratori che tanto hanno spaventato la classe dirigente nel Novecento è franta, alienata, depressa e sempre più ignorante. È diventato un popolino che non sa più chi votare, schiavo dell’intrattenimento, marginalizzato nella vita politica.

Lo spettro che si aggirava per l’Europa a metà dell’Ottocento, ovvero quelle prima generazioni di lavoratori che seppero rispondere alla prima industrializzazione e che convinsero Marx a credere che potessero essere il motore del cambiamento e la materia umana dell’uomo nuovo, è ormai diventato il fantasma di se stesso. Un esercito di fantasmi sfruttati, ma soprattutto — ed è l’ultimo punto del decalogo di Chomsky — un esercito marginalizzato.

«Il 70 per cento della popolazione», dice Chomsky, «non ha alcun modo di influenzare la politica». L’attivismo esiste, ma è sempre più morbido, isolato, rannicchiato e di conseguenza inutile. La rabbia della gente si sta accumulando, conclude Chomsky, e «sta prendendo la forma di una rabbia non focalizzata, frustrata». Il risultato ce l’abbiamo già tutti davanti agli occhi tutti: la disintegrazione sociale, la lotta non più di una classe sfruttata e subalterna contro una classe superiore e abbiente, ma una lotta intestina tra poveri.

fonte l’INKIESTA che ringraziamo .

 

 

LIBERTA’ D’INFORMAZIONE A RISCHIO NEGLI USA : FARE IL FILMAKER DOCUMENTARISTA NEGLI USA PUO’ COSTARE MOLTO CARO..

Due giornaliste che riprendevano con la videocamera manifestazioni di protesta contro la costruzione di un oleodotto nel Nord Dakota sono state arrestate e imputate per reati che possono portare ad una condanna per 20 o trent’anni di prigione. Non è una bufala, è una notizia riportata dal quotidiano inglese Guardian. Altro che salvaguardie per chi fa informazione garantite dal primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, le polizie e i giudici locali si comportano come i loro colleghi degli “Stati delle banane”.

Documentary film-makers face decades in prison for taping oil pipeline protests (fonte Guardian.uk )

Documentary Filmmaker Faces Up to 45 Years in Prison for Covering Pipeline Protest (fonte trofire.com )

Documentary Filmmaker Faces Up to 45 Years in Prison for Covering Pipeline Protest

L’avventurismo del governo italiano che intende inviare militari italiani alle frontiere con la Federazione Russa

 

 

(da repubblica.it ) ” Un contingente di militari italiani sarà schierato in Lettonia, nell’ambito di una forza multinazionale Nato sotto comando canadese ­ complessivamente tra i 3 e i 4mila uomini sottoposti a rotazione ­ a difesa delle frontiere esterne con la Russia nelle repubbliche baltiche enella Polonia orientale. La notizia, emersa da un’intervista al segretario generale dell’Alleanza Atlantica, Jens Stoltenberg, viene confermata dai ministri Pinotti e Gentiloni. Con una precisazione: la missione non contraddice la politica italiana improntata al dialogo con la Russia. Ma Mosca accusa la Nato di creare nuove divisioni. Mentre in Italia le opposizioni insorgono e chiedono all’esecutivo di riferire al più presto a un Parlamento del tutto ignaro del prossimo impegno militare.”

L’Alleanza Atlantica ( NATO ), sopravvissuta alla guerra fredda si rigenera con il rilancio di nuove tensioni alle frontiere con la Federazione Russa. Il Patto di Varsavia non esiste più, la NATO invece viene rilanciata per una politica internazionale tesa a mettere in difficoltà la UE e ad impedire che l’Europa abbia una propria politica estera indipendente dagli USA.
Si parla di un contingente di 3 o 4 mila uomini ( azione simbolica ) da schierare con esercitazioni sulle frontiere esterne dell’Europa con la Federazione Russa.
Un’operazione che non ha alcuna valenza militare, serve solo a provocare, a creare ulteriori tensioni. L’Italia ha sempre curato le relazioni con la Russia, prima con l’URSS ora con la Federazione Russa. Il governo italiano partecipa con 140 militari a questa operazione di provocazione pericolosa senza che il Parlamento sia stato consultato. La compromissione dell’Italia in questa impresa dissennata ha un solo scopo: distruggere quel piccolo spazio di autonomia del nostro paese nella politica internazionale e rompere quelle relazioni commerciali ed economiche  con la Federazione Russa già messe in discussione dalle sanzioni.
In poche parole la ministra della Difesa Pinotti e il ministro degli Esteri stanno attivando un percorso pericoloso, inutile e fuori controllo.
Quando si scherza con il fuoco si rischia di bruciarsi le mani…