Sciopero alla Tesla in Svezia: quali saranno gli effetti più ampi?

Fonte  Globallabourcolumn che ringraziamo

 

-Martin Klepke

I sindacati svedesi potrebbero riuscire nello sciopero in corso contro Tesla in Svezia, ma forse non in un modo che renda necessariamente più facile per i lavoratori di altri paesi richiedere accordi collettivi con Tesla.

In Svezia è ormai in corso da alcune settimane lo sciopero contro il colosso automobilistico Tesla, dopo che il sindacato ha tentato per cinque anni di avviare trattative per un contratto collettivo, che Tesla si rifiuta di fornire.

Interruttori dello sciopero

Durante queste settimane di sciopero, i conflitti si sono intensificati notevolmente. Tesla ha incoraggiato attivamente lo sciopero e ha fatto entrare gli crumiri attraverso un cancello delle sue strutture mentre le guardie in sciopero stavano dall’altro.

Tesla ha anche fatto causa allo stato svedese perché la società non è stata in grado di ottenere le targhe per le sue auto appena vendute, poiché il sindacato postale Seko ha iniziato uno sciopero di solidarietà a sostegno dei lavoratori Tesla.

Tesla ha anche citato in giudizio la società postale statale PostNord perché non consente ai dipendenti non sindacalizzati di consegnare posta e targhe. Tesla chiede che lo Stato svedese intervenga e ordini alle persone di diventare crumiri, cosa che ha attirato molta attenzione. L’ultima volta che lo Stato ha ordinato alle persone di diventare crumiri è stato durante lo sciopero delle miniere nella Svezia occidentale nel 1926. [1]

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AFL.CIO – Sostenere i diritti dei lavoratori è fondamentale per il futuro dell’Ucraina

Fonte AFL.CIO che ringraziamo 

Mentre la guerra della Russia contro l’Ucraina continua, i lavoratori ucraini ei loro sindacati sono diventati una forza innegabile per la solidarietà e il sostegno della comunità in tutto il paese. Dall’inizio del conflitto, i membri dei sindacati della Confederazione dei sindacati liberi dell’Ucraina (KVPU) e della Federazione dei sindacati dell’Ucraina (FPU) si sono mobilitati in gran numero, rimangono uniti dietro gli sforzi del loro governo eletto per gestire la guerra e continuare a compiere valorosi sacrifici per difendere la nazione. Tuttavia, in cambio, il governo ucraino si sta ora muovendo per  spezzare il potere dei sindacati e privare i lavoratori di diritti cruciali che sono fondamentali per sostenere la sua democrazia.

A marzo, il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelenskyy  si è rivolto al Congresso e ha tracciato un forte collegamento tra il suo paese e il nostro, affermando che la guerra è stata una lotta per proteggere i nostri valori condivisi di “democrazia, indipendenza, libertà e cura per tutti, per ogni persona, per tutti che lavora diligentemente…” Un forte movimento sindacale è fondamentale per la lotta dell’Ucraina per rimanere una democrazia indipendente perché i diritti dei lavoratori e la democrazia sono indissolubilmente legati. Questo è stato vero per tutto il conflitto e rimarrà vero quando questa guerra finirà.

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Con il cambiamento del capitalismo internazionale, cambiano anche le risposte dei lavoratori

30 GIUGNO 2022
Del Professore Emerito David Peetz
 traduzione tramite google translator

 

 

Nonostante il declino dei sindacati, ci sono molti segnali di resistenza dei lavoratori. Ciò è correlato alla crescente disuguaglianza, alle incursioni sindacali in occupazioni e industrie apparentemente impenetrabili, allo sviluppo da parte dei sindacati di collegamenti internazionali e strumenti digitali e all’inevitabile pressione per la riforma del lavoro.

I sindacati sono in declino da circa quattro decenni e gran parte di questo può essere attribuito ai cambiamenti nel capitalismo stesso. Aziende e governi hanno perseguito fianco a fianco pratiche e leggi antisindacali. Sotto il controllo finanziario, le società pongono maggiore enfasi sulla riduzione dei costi e i governi hanno incoraggiato le riforme del mercato intensificando tale modello. Le aziende hanno stabilito fabbriche di alimentazione nei paesi in via di sviluppo con governi anti-sindacali e hanno chiuso i luoghi di lavoro sindacalizzati nei paesi sviluppati. Ciò ha coinciso con la creazione di nuove forme di lavoro che frammentano i lavoratori e rendono difficile la sindacalizzazione, e l’espansione esponenziale di occupazioni high-tech senza una storia di sindacalismo. In tutta l’OCSE, l’adesione media ai sindacati è scesa dal 37% della forza lavoro nel 1980 al 16% nel 2019.

Eppure, nel mezzo di tutto questo, abbiamo assistito a un’ondata di organizzazioni sindacali, con i lavoratori di parti di aziende come Apple , Amazon e Starbucks che perseguono la sindacalizzazione. È questo l’ultimo sussulto del movimento sindacale o qualcos’altro?

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Loris Campetti: La salute nel sindacato

 

Fonte: Inchiestaonline.it

Diffondiamo da il manifesto in rete del 29 ottobre

Serve ancora il sindacato, nel secondo decennio del terzo millennio dopo Cristo? Seconda domanda: chi rappresenta il sindacato nella stagione della globalizzazione neoliberista, quali figure sociali tutela e quali sono invece abbandonate allo strapotere del turbocapitalismo? Terza domanda: cosa è diventato il sindacato? Sono tre domande difficili, le risposte non possono essere semplici né individuali. Quel che posso tentare di fare è di inquadrarle nel contesto dato, qui e ora ma con un occhio al futuro analizzando le linee di tendenza.

 

La miseria della politica

La prima cosa che mi viene da dire è che non è mai stato così difficile come oggi fare sindacato e, al tempo stesso, non è mai stato così necessario. Indispensabile, aggiungerei. La ragione prima della difficoltà rimanda alla politica, alla sua mutazione nella chiave dell’autoreferenzialità, allo sfilacciamento e allo snaturamento della democrazia e allo svuotamento della partecipazione. Non solo in Italia, certo, ma sulle dinamiche in atto nostro paese val la pena soffermarsi. Bastava dare un’occhiata alla grande manifestazione di Firenze organizzata dal collettivo e dalle Rsu Fiom della Gkn per rendersi conto dell’abisso che separa la lotta operaia, le condizioni materiali dei lavoratori, dalla Grande Politica. Nelle interviste realizzate per un libro-inchiesta – Ma come fanno gli operai – mi aveva colpito il racconto di un giovane delegato di una fabbrica aerospaziale del Varesotto: “Vedi, lì dai tempi dei tempi è appesa una gigantografia di Enrico Berlinguer. Per i vecchi operai la sinistra incarnata dal segretario del Pci rappresentava un riferimento forte, identitario. Per i giovani operai, invece, gli eredi principali del Pci sono quelli che più scientificamente hanno abbattuto i diritti dei lavoratori, a partire dall’attacco allo Statuto dei lavoratori”. La rabbia può addirittura spingere gli operai convintamente di sinistra a votare per dispetto un partito con cui non si ha nulla a che fare pur di punire chi è accusato di essere passato dall’altra parte, dalla parte dei padroni. Un operaio della Fiat diceva parole condivise da tanti suoi compagni in tuta blu: “Ho votato per Appendino sindaca di Torino anche se non mi aspetto nulla dai grillini, perché il Pd ripresentava Piero Fassino, quello che nello scontro tra la Fiom e Marchionne si era schierato con Marchionne. Non ho votato come sarebbe stato normale per Giorgio Airaudo, ottimo compagno, perché il modo più sicuro per far perdere Fassino era votare per il M5S”. I lavoratori sono ormai privi di una rappresentanza politica forte, per essere più precisi non hanno sponde nella politica (so bene che a sinistra del Pd ci sono forze come il Prc che si battono al fianco dei lavoratori, ma se vuoi trovarle devi andare nelle manifestazioni di lotta, non in Parlamento e nelle istituzioni. Ma ciò richiederebbe una riflessione a parte che esula da questo articolo). E’ stupido e ipocrita meravigliarsi a ogni elezione per la fuga fuori dalla sinistra del voto operaio. I lavoratori sono soli, il centrosinistra cerca consensi e voti nei ceti alti, nei centri storici e nei quartieri bene delle città, nei cda delle banche più che tra i bancari, in quella che una volta si chiamava borghesia. Fare sindacato senza avere sponde nella politica e nelle istituzioni, con il Pd che è il più convinto sostenitore della dittatura del mercato, è davvero dura.

 

C’era una volta l’internazionalismo

Di un altro elemento di difficoltà a fare sindacato scrivo solo il titolo, è il passaggio dall’internazionalismo proletario all’individualismo proprietario: la fine del bipolarismo con l’inevitabile e tardiva implosione del socialismo reale ha “semplificato” lo scenario mondiale e abbattuto icone e riferimenti. Ciò ha contribuito, in assenza di un progetto politico alternativo, cioè di un’altra idea di sinistra e del mondo, ad accelerare lo scatenarsi della guerra tra poveri, tra lavoratori del nord e quelli del sud e dell’est, tra uno stabilimento e l’altro. Insomma, la crisi della solidarietà è cresciuta di pari passo con le diseguaglianze. Consiglio a tutti una gita a Monfalcone, davanti ai cancelli della Fincantieri, per farsene un’idea. Il sindacato, nato con l’idea che i proletari di tutto il mondo dovessero unirsi, oggi più che in passato avrebbe bisogno come il pane di un’ottica internazionale, globale se preferite, che invece manca da tempo. Senza una strategia e un coordinamento globali si può far poco per ridimensionare la prepotenza delle multinazionali, si può salvare per un po’ una fabbrica magari a discapito di un’altra collocata in un’altra città o in un altro continente. Ma così non si fa molta strada.

A parità di prestazione parità di trattamento

Privati di ogni rappresentanza (e sponda) politica, i lavoratori rischiano di trovarsi soli di fronte all’arroganza del potere. Là dove non esiste neppure una rappresentanza sindacale, il passo è breve per arrivare alla cancellazione dell’insegnamento di Giuseppe Di Vittorio: mai più con il cappello in mano davanti al padrone. Allo svaporarsi della centralità del lavoro in sede politica e, ahimè, nell’immaginario collettivo, si accompagna la massiccia rivoluzione portata dal capitalismo nell’organizzazione del lavoro, nelle relazioni sociali, nella composizione della classe lavoratrice. La crescita esponenziale della logistica agevolata dalla pandemia, inoltre, sta scardinando il bagaglio dei diritti conquistati nel secolo breve, personalizzando il rapporto padrone-dipendente, e a occuparsi della mediazione non è certo il sindacato bensì il caporale. E non solo nella logistica ma anche nell’agricoltura, nell’edilizia, fino al cuore della produzione industriale dove le scelte politiche e dunque la legislazione hanno accompagnato e favorito la frammentazione del ciclo moltiplicando le diseguaglianze e scatenando il dumping sociale. Il vecchio adagio ‘a parità di prestazione parità di salario, orario, diritti’ è stato travolto dal sistema di appalti e subappalti e dalla possibilità concessa alle imprese di scegliere la forma contrattuale più conveniente grazie a un menù disponibile di decine di forme diverse. Spesso il sindacato è in grado di rappresentare e tutelare solo la parte alta del lavoro nella piramide in cui esso è stratificato. Ma fino a quando riuscirà a rappresentare, facciamo un esempio, i dipendenti diretti della Fincantieri? Cioè, fino a quando i lavoratori della Fincantieri riusciranno a difendere i propri diritti, sotto la grandine del dumping prodotto dal sistema degli appalti? Credo che non ci sia futuro, persino per un sindacato di classe come è ancora la Fiom, senza la capacità di andare a mettere mani e cuore nelle fasce più deboli del mondo lavoro, riconquistando proprio quell’idea che a parità di prestazione deve corrispondere parità di trattamento.

La solitudine del nuovo proletariato

La pandemia ha ulteriormente spinto verso un superamento dei corpi intermedi, detto in parole povere sta ulteriormente indebolendo il sindacato. Essendo mutato nel profondo l’impianto della produzione, della distribuzione e dei consumi anche il sistema legislativo andrebbe riscritto, e persino lo Statuto dei lavoratori – quel che ne resta dopo i colpi d’accetta degli ultimi anni – andrebbe aggiornato per includere e tutelare le nuove figure sociali, il nuovo proletariato. I sindacati confederali sono in grave ritardo nella conoscenza dei nuovi lavori; soltanto negli ultimi mesi la Cgil, che ha impiegato un paio d’anni per capire che quello dei rider è un lavoro a tutti gli effetti dipendente, ha messo a fuoco i ciclofattorini che solo grazie alla loro soggettività e le loro battaglie in bicicletta condotte in solitaria sono riusciti a imporsi all’attenzione di tutti. Nella logistica le prime lotte sono state portate avanti con il fragile appoggio dei sindacati di base e i confederali a fatica stanno cercando di mettere qualche radice tra i lavoratori. Quando un camionista travolse un facchino ai cancelli durante uno sciopero si scoprì che i camionisti sono (debolmente) rappresentati dalla Cgil e i facchini (debolmente) dai sindacati di base. Se si perde di vista il nemico vero si finisce in una guerra dei penultimi contro gli ultimi.

 

Il covid al lavoro

Tra le conseguenze più pesanti del covid sul lavoro c’è il suo uso ricattatorio da parte del sistema delle imprese: con la perdita di centinaia di migliaia di posti, tentano di imporre il peggioramento delle condizioni lavorative con annessa riduzione di salario, diritti, sicurezza e dunque dignità. Se vuoi lavorare, è la parola d’ordine, accetta le mie condizioni perché la ripresa in una competizione internazionale senza esclusione di colpi impone i suoi diktat e c’è la fila di persone disposte a prendere il tuo posto. Del milione e duecentomila posti cancellati nel primo anno di pandemia se ne sono recuperati cinquecentomila nel primo semestre del 2021, ma per la quasi totalità si tratta di lavori variamente precari, a termine e in somministrazione cioè in affitto. E parlano con altrettanta chiarezza i numeri dei morti sul lavoro che continuano a crescere paurosamente (più di mille nei primi 8 mesi dell’anno a cui si aggiungono quasi 200 tra medici e infermieri vittime del covid).

 

L’inadeguatezza del sindacato

Questo è il contesto, reso più aspro dalla debacle del sistema dei partiti che hanno commissariato a un banchiere un’Italia già cloroformizzata dal coronavirus. I sindacati sono usciti indeboliti dalla pandemia, dopo più di un anno di riunioni e assemblee da remoto: il distanziamento è un ostacolo al rapporto tra organizzazioni sindacali e lavoratori, cioè alla pratica dei valori fondanti dell’azione collettiva e della stessa democrazia. Sic stantibus rebus, non basta dire che il sindacato è fondamentale, che è uno dei pochi strumenti di autodifesa dei lavoratori. Bisogna chiedersi se il sindacato dato è all’altezza della sfida che ha di fronte. Detto che più che di sindacato bisogna parlare di sindacati, è difficile negare l’inadeguatezza delle organizzazioni dei lavoratori. Per tutte le ragioni oggettive sin qui enunciate o solo accennate (per prima la mancanza di una dimensione internazionale), ma anche per cause soggettive. Nel tempo i sindacati sono diventati una costola dello stato e, nei casi peggiori, dei governi. L’autonomia sindacale si è indebolita ed è cresciuta la burocratizzazione, quasi un’abitudine a vivere di rendita, trasformandosi da organizzazioni di lotta in strutture di servizio, caf e via dicendo. Era proprio obbligatorio tenere chiuse per un anno e mezzo le Camere del lavoro? Anche dentro la Cgil – taccio su Cisl e Uil, ma anche sul cosiddetto sindacato europeo, la Ces, per evitare querele – il corpaccione dei funzionari vede ogni cambiamento come un attentato allo status – e allo stipendio – acquisito. Anche così si spiegano le difficoltà incontrate da Maurizio Landini nel suo tentativo di rigenerazione o rifondazione che dir si voglia dell’organizzazione, riportandola in strada (il sindacato di strada è un buon esempio laddove viene sperimentato) e dentro i luoghi di lavoro. Ha sostanzialmente retto, invece, la struttura dei delegati, le Rsu che hanno, spesso in solitudine, tenuto vivo e costante il rapporto con i lavoratori.

La resistenza e il cambiamento

Che il sindacato serva lo dimostra l’esempio della Gkn: la Fiom ha lasciato liberi i suoi quadri di costituire un collettivo che insieme alle Rsu sta gestendo una difficile vertenza e ha intentato causa all’azienda per antisindacalità, vincendola. Certo, per vizi di forma, il modo (del licenziamento via mail) ancor m’offende. Ha consentito ai lavoratori di tirare una boccata d’ossigeno ma nella sostanza il problema resta immutato per l’acquiescenza della politica alle imprese e alla pratica delle multinazionali di chiudere stabilimenti per delocalizzare la produzione là dove di diritti ce ne sono ancora meno. Almeno, la Fiom si conferma un sindacato di resistenza, ne fa fede l’esperienza straordinaria degli operai napoletani della Whirlpool; non che non abbia un progetto sociale in testa, ma questo si impantana nelle stanze della politica e fatica ad avviare un percorso unitario con le altre categorie della sua stessa confederazione. Il nobile tentativo di costruire una coalizione con movimenti e forze sociali avviato qualche anno fa dall’unico sindacato che già a inizio secolo aveva scelto di stare con il movimento cosiddetto no-global, si è presto arenato, un po’ per la debolezza e la frammentazione degli interlocutori, un po’ per la diffidenza della Cgil e un po’ perché non basta mettere insieme le teste pensanti, i leader, per trascinare con sé tutto il resto. Le alleanze non possono che costruirsi dal basso. Come ai tempi della Flm e dei delegati di gruppo omogeneo, verrebbe da dire.

E forse proprio dal basso bisognerà ripartire per costruire un sindacato adeguato alle nuove sfide.

Loris Campetti è nato a Macerata nel 1948. Laureato in chimica, già nella seconda metà degli anni Settanta è passato al giornalismo. Al “manifesto” fino al 2012 ha ricoperto tutti i ruoli e si è occupato prevalentemente di lavoro e lotte operaie. Ha scritto molti libri di inchiesta e nel 2020 è stato pubblicato da Manni il suo primo romanzo, “L’arsenale di Svolte di Fiungo”.

José Mujica: “La civiltà digitale sta creando una vera malattia nella democrazia rappresentativa e non so quale sia la cura”

 

Fonte Equaltimes.org

Autore    Luis Curbelo

Traduzione automatica con Google Translator. Questa traduzione rende il senso dell’articolo, tuttavia consigliamo di leggere il testo originale su Equaltimes.org 

José Mujica, presidente dell’Uruguay dal 2010 al 2015, vive in completa isolamento nella sua casa di campagna a Rincón del Cerro (a 11 chilometri dal centro della città di Montevideo) dall’inizio della pandemia. A causa di una malattia immunologica a lungo termine, non può ricevere vaccinazioni e il suo unico modo per affrontare il coronavirus è esercitare estrema cura e precauzione.

Recentemente ha accettato di sedersi per una lunga chiacchierata con Equal Times che copriva molte aree di interesse internazionale. Ha condiviso con noi le sue opinioni sul fenomeno dei social network, i vantaggi e le insidie ​​della civiltà digitale e l’emergere di personaggi politici come Donald Trump negli Stati Uniti e Jair Bolsonaro in Brasile e le masse che li seguono.

Secondo Mujica, questa pandemia ha fatto emergere il lato peggiore dell’umanità accentuando l’egoismo dei paesi ricchi e mettendo a nudo la mancanza di solidarietà tra le persone. Dice che le classi medie, frustrate dalla concentrazione di ricchezza e potere e dalla loro incapacità di accedervi, si sono rivolte sempre più alla politica reazionaria. Sostiene che il vaccino contro il coronavirus è diventato incredibilmente politicizzato e incolpa il presidente russo Vladimir Putin per aver svolto un ruolo centrale in questo chiamando il vaccino prodotto nel suo paese Sputnik.

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Rogo di Marghera, i lavoratori avevano segnalato che c’è qualcosa che non andava negli stoccaggi e avevano anche scioperato contro le condizioni di sfruttamento

FONTE CONTROLACRISI.ORG

Rifondazione Comunista denuncia in una nota che l’incendio a Marghera di un’azienda chimica che produce additivi e detersivi, la 3V Sigma Spa, non è un incidente “ma il prodotto di un contesto già ampiamente denunciato da lavoratori”. Dalle prime notizie il bilancio è per ora di due feriti gravissimi.
I lavoratori avevano scioperato proprio per denunciare le condizioni di sfruttamento degli operai, contro l’obbligo di fare straordinari con turni di otto ore che diventavano anche di dodici e più. “Questa situazione derivante dalla volontà dell’azienda di non fare nuove assunzioni non poteva che produrre la massima insicurezza in una fabbrica chimica a due passi da un quartiere di Marghera i cui abitanti ancora una volta sono costretti a chiudersi in casa al suono delle sirene di allarme”, continua il Prc. I sindacati avevano avanzato dei dubbi sulla regolarità degli stoccaggi e chiesto incontri chiarificatori che in realtà non sono mai arrivati. Sono due anni che denunciamo quanto stava avvenendo alla 3V Sigma, che ha 47 dipendenti. Cinque giorni fa abbiamo spedito all’azienda una richiesta urgente di incontro proprio sui temi della sicurezza. Ma due mesi fa siamo andati davanti al prefetto per spiegare che la situazione era insostenibile. Secondo le informazioni in possesso dei sindacati, in passato denunciati dalla ditta per un’intervista rilasciata a una testata giornalistica locale, l’azienda produce solventi e additivi per le plastiche, sostanze tossiche e nocive.

“Ancora una volta viene fuori che il vero problema del nostro paese – conclude il Prc – è l’irresponsabilità sociale di un padronato a cui i governi – destra o PD non fa molta differenza – hanno consentito da anni con “riforme” sciagurate di cancellare il potere contrattuale dei lavoratori. Ancora una volta si manifesta come sia pericolosa la presenza di produzioni chimiche nei pressi dei centri abitati. Da sempre diciamo che questo non è accettabile e che le produzioni vanno riconvertire per la salute delle cittadine/i per tutelare l’ambiente”.

“Un nuovo patto su lavoro, salario, investimenti”. Intervista di Maurizio Landini, segretario della Cgil, al Sole 24 ore di domenica 3 marzo 2019

FONTE  CONTROLACRISI.ORG

“E‟ interesse di lavoratori e imprese mettere al centro l’aumento degli investimenti e dei salari oltre a una nuova fiscalità seriamente orientata a ridurre gli squilibri e le diseguaglianze, uno dei fenomeni più gravi del nostro tempo, e non a premiare chi ha di più e a punire chi ha di meno come accade con la tassa piatta». Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, è reduce dal corteo «People. Prima le persone» dove a Milano hanno sfilato in 200 mila.

Perché ha portato la confederazione in quella piazza?
“Per sostenere un’idea di giustizia sociale e di modello di Paese fondato su accoglienza e integrazione e sui valori profondi della Costituzione”.

Una manifestazione in continuità con alcuni degli slogan dell’altra manifestazione del 9 febbraio a San Giovanni, dove con i sindacati partecipavano anche alcune rappresentanze delle imprese del si-tav. Si sta creando un clima nuovo tra imprese e sindacati? Dove vede le maggiori convergenze?
“Non so se si tratta di vere e proprie convergenze. So che insieme possiamo mettere al centro il tema del lavoro, il lavoro di qualità e non quello precario che nel frattempo è aumentato. E so che per fare questo bisogna prima dare attuazione al Patto della fabbrica con cui abbiamo già concordato nuove regole perla rappresentanza e per tracciare nuovi perimetri dei contratti (anche per ridurli di numero). Bisogna che sindacati e imprese chiedano con forza al ministero di applicare le convenzioni che, tramite Inps, possano certificare la reale rappresentanza di chi firma gli accordi. Oggi ci sono ancora troppi contratti pirata firmati da non si sa chi e per conto di chi e servono solo a creare un mercato selvaggio della contrattazione in dumping”.

Lei parla anche di investimenti. Che sono la priorità anche delle imprese.
“Gli investimenti sono la via principale per creare il lavoro, quello vero. Servono investimenti pubblici in dosi massicce e anche investimenti privati. Che non sono stati sufficienti nonostante le imprese abbiano avuto incentivi in quantità mai vista prima. Incentivi che non sempre ho visto tornare anche nelle tasche dei lavoratori”.

Se il Pil non è sprofondato è per l’aumento del valore aggiunto dell’industria che in questi anni con le agevolazioni per Industria 4.0 ha investito massicciamente in innovazione, fino a cambiare del tutto il paradigma tecnologico di riferimento. Ciò che manca è la spesa pubblica.
“Mancano gli investimenti pubblici che si sono bloccati. Ma anche le imprese private hanno avuto atteggiamenti diversi: quelle maggiormente orientate hanno investito in innovazione e sono quelle più dinamiche, mentre gran parte delle altre non hanno fatto lo stesso e sono oggi in posizione arretrata e a rischio. È anche vero che il sistema degli incentivi messi in campo da Industria 4.0 non ha aiutato la crescita e lo svipuppo della piccola e media impresa. Non è affatto diminuita la differenza tra Nord e Sud e spesso ci sono forme di squilibrio e diseguaglianza anche all’interno delle stesse regioni. In questi annidi forti incentivi non tutto è tornato agli investimenti, alcune imprese hanno preferito la speculazione finanziaria o le scelte immobiliari. E il lavoro si è impoverito e si è allargata anche l’area del lavoro precario e pocoremunerato”.

Resta il fatto che bisogna affrontare il tema della produttività da cui dipende anche quello dei salari. E su questo le parti sociali possono fare molto.
“Bisogna però intendersi su cosa sia la produttività. Quella del lavoro è già alta. Non c’è più spazio per organizzare la competitività con la riduzione continua dei costi e dei diritti. Manca l’investimento in innovazione, nel miglioramento del processo di produzione, dell’organizzazione. Mancano spesso nuove sfide produttive che guardino alla sostenibilità e alle tecnologie digitali”.

Anche in questo caso non si può generalizzare. Manca anche la produttività che deriva dall’efficienza complessiva del Paese. Dal suo livello di istruzione, di infrastrutture, di qualità del captale umano. Conta anche la politica fiscale. E il rilancio dei salari e degli investimenti passa anche dalla riduzione del famigerato cuneo fiscale.
“Non ho problemi a discutere su come abbattere il cuneo fiscale a patto che non si tratti di ridurre i contributi per le pensioni o per la sanità. Bisogna comunque trovare un sistema che ne garantisca il finanziamento. Per me l’importante è abbassare l’Irpef del lavoro dipendente e ridisegnare una riforma fiscale nel segno dell’equità e della progressività, come prevede la Costituzione. È evidente che da noi c’è una questione di diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza. È sotto gli occhi di tutti che chi era più ricco è diventato ancora più ricco e chi era più povero si è impoverito ancora di più. La risposta non è la flat tax che fa aumentare questi squilibri”.

È la patrimoniale?
“Non mi voglio impiccare alle definizioni. Penso che vada affrontato il tema dell’evasione fiscale e della tassazione non solo dei redditi. Ci sono moltissimi esempi di altri paesi europei e non solo. L’importante è il risultato e credo abbia anche senso parlare anche di tassa di successione. La riforma fiscale è una delle richieste di Cgil, Cisl e Uil e, tornando all’Irpef, per me bisogna aumentare le detrazioni per il lavoro dipendente e per le pensioni: la priorità è questa”.

II Governo che segnali vi ha dato?
“Sembrano continuare in una sorta di autoreferenzialità. Del resto non si consultano con nessuno, nemmeno con il Parlamento che è stato del tutto bypassato in occasione della legge di stabilità. Che resta una legge sbagliata e del tutto inadatta a far cambiare verso alla crescita economica II governo pensa alla disintermediazione sociale come hanno fatto anche altri governi che non mi pare abbiano lasciato un grande ricordo. Discutere e trattare con il sindacato è utile perché la complessità dei temi è tale che occorrono interlocutori in grado di comprendere i problemi, le conseguenze delle scelte sulla vita vera”.

E allora cosa farete per farvi ascoltare?
“La manifestazione del 9 febbraio ha avuto una partecipazione che ci ha stupito nella sua inimmaginabile ampiezza C’è grande voglia di partecipare e di dire che bisogna cambiare strada. Noi insistiamo. Il 15 marzo è previsto uno sciopero degli edili. È un settore bloccato in una stasi drammatica Tutti i cantieri sono fermi per colpa delle incertezze del governo sulle infrastrutture. Non c’è un indirizzo strategico”.

E quando c’è, come con la Tav, si torna indietro (e anche lei non è mal stato favorevole).
“La Tav è sicuramente un problema. Ma la cosa principale è che conosciamo una molteplicità di analisi di costi benefici e di report di segni opposti ma non sappiamo ancora che vuole fare davvero il Governo. Che ha il compito istituzionale di decidere e non lo fa È questa la cosa più grave. Ma ciò che è più drammatico è che questa incertezza ha bloccato tutti i cantieri e paralizzato un intero settore”.

Loris Campetti: Landini segretario della Cgil in attesa del 9 febbraio

 

 

Maurizio Landini ha preso in mano la ultracentenaria Cgil con la forza di un tornado, ma la sua non è una forza distruttrice. Si potrebbe parlare di sindacato del cambiamento se non fosse che chi usa questo sostantivo in politica è un gattopardo che vuole cambiare tutto per non cambiare niente, come fa il governo gialloverde o giallonero che dir si voglia con le politiche economiche, liberiste erano e liberiste restano. Landini vuole bene alle persone che rappresenta, ha con loro una connessione sentimentale per dirla con Antonio Gramsci.

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La confetteria globale Perfetti Van Melle sta attaccando i diritti in Bangladesh

27 novembre 2018  Azione urgente

Il pasticciere olandese Perfetti Van Melle, produttore di Mentos, Chupa Chups e Alpenliebe, tra gli altri marchi globali, non crede che i lavoratori del Bangladesh abbiano il diritto di formare un sindacato e sta attaccando aggressivamente i lavoratori che tentano di crearne uno.

Dopo che una grande maggioranza di lavoratori nello stabilimento della compagnia a Gazipur hanno formatopresso la Perfetti Van Melle BD Pvt. Ltd il sindacato dei lavoratori e ha chiesto la registrazione legale della loro organizzazione l’11 novembre, i lavoratori hanno chiesto ai dirigenti sindacalindi ritirare la domanda. Gli ufficiali dell’Unione sono stati riprogrammati e gli è stato negato l’accesso all’impianto. E la compagnia sta visitando i lavoratori nelle loro case facendo loro pressioni per ritirare la loro appartenenza sindacale e firmare un modulo in cui dichiarano di essere stato costretti a unirsi al sindacato, una tattica comune utilizzata dai datori di lavoro dell’Asia meridionale che cercano di affermare che il sindacato non ha membri veri.

PVMBangladesh

Il sindacato ha risposto che i lavoratori hanno il diritto legale e costituzionale di formare un’unione e che è un diritto umano internazionalmente riconosciuto.

Perfetti Van Melle apparentemente non crede che un tale diritto esista. Informata di queste gravi violazioni dei diritti da parte della IUF, la società ha risposto che “posso assicurarvi che in base ai valori della nostra azienda seguiremo il giusto processo e ci impegneremo con i nostri dipendenti in base alle leggi locali”. Questo “processo dovuto” mostra il totale disinteresse per gli standard internazionali e la due diligence dei diritti umani, consentendo alla gestione globale di ignorare la situazione e la gestione locale per intensificare l’attacco ai diritti costringendo i lavoratori a firmare dichiarazioni false per dimettersi dal sindacato poichè minacciati di licenziamento.

FAI CLIC QUI per inviare un messaggio alla direzione di Perfetti Van Melle che invita l’azienda a garantire che la gestione in Bangladesh rispetti pienamente i diritti sindacali, smetta di interferire con la registrazione sindacale e di vittimizzare i funzionari sindacali e impegni in buona fede i negoziati con i rappresentanti sindacali dei lavoratori ADESSO.

Circa 130.000 metalmeccanici turchi si preparano allo sciopero in 180 luoghi di lavoro

 

 

FONTE  DAILY  SABAH

Circa 130.000 metalmeccanici turchi si preparano a colpire in 180 luoghi di lavoro, tra cui importanti società multinazionali come Renault, Ford, Bosch, Arçelik e Mercedes, sperando che faccia pressione sui datori di lavoro per aumentare i salari e fornire migliori benefici sociali.

I lavoratori membri della Turkish Metal Union (Türk Metal), la United Metal Workers ‘Union (Birleşik Metal-İş) e l’Unione dei lavoratori di ferro, acciaio, metallo e prodotti metallici (Çelik-İş) hanno annunciato lo sciopero la scorsa settimana e sono pronti a scioperare il 2 febbraio.[………] 

Nelle trattative, Türk Metal e Çelik-İş volevano un aumento del salario del 38% per i primi 6 mesi, mentre Birleşik Metal-İş ha premuto per un aumento di TL 695, tuttavia le loro richieste sono state soddisfatte solo con un’offerta di un aumento del 6,4% nelle retribuzioni per i primi sei mesi. I lavoratori e i sindacati hanno respinto l’offerta il 12 gennaio. […]

 

Neoliberismo autoritario . Attività antisindacali del governo Macri in Argentina

Agli insegnanti di Buenos Aires, Argentina viene data la possibilità di lasciare volontariamente la propria unione locale ogni volta che si collegano personalmente al sito web del ministero della Cultura e dell’Istruzione.

“Sei registrato come membro corrente di (United Teachers Front, UTF). Per iniziare il processo di dimissioni dall’unione clicca QUI, “legge la pagina all’accesso alla pagina del governo.

Segue testo in inglese

Teachers in Buenos Aires, Argentina are being given the option to voluntarily leave their local union each time they personally log in to the Culture and Education ministry website.

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Il governo algerino sta inasprendo la guerra contro il sindacato indipendente dei lavoratori del settore elettrico e del gas

fonte  Labourstart 

Il governo algerino sta inasprendo la guerra contro il sindacato indipendente dei lavoratori del settore elettrico e del gas, SNATEGS, che organizza i lavoratori nella società statale per l’energia,SONELGAZ.

Centinaia di iscritti al sindacato, di delegati e di funzionari del sindacato sono stati licenziati, vessati e perseguitati con accuse legali fasulle per aver esercitato i loro diritti fondamentali. 

Nel mese di maggio di quest’anno il governo ha revocato lo status giuridico dello SNATEGS e condannato il presidente del sindacato, Raouf Mellal, a sei mesi di prigione per aver denunciato la corruzione e frodi massicce  perpetrate dalla società statale della  SONELGAZ. 

Ora il governo sta tentando di eliminare completamente il sindacato.

Il 3 dicembre, il ministro del Lavoro ha annunciato che lo SNATEGS si era riunito per decidere il suo scioglimento! Non ha avuto luogo nessun incontro. Secondo lo statuto del sindacato, tale decisione può essere presa soltanto dal Congresso. 

Lo SNATEGS  vive e lotta e ha bisogno del vostro aiuto.

Inviate un messaggio alle autorità algerine per dire loro di fermare la guerra contro lo SNATEGS, di rispettare i diritti sindacali e lo status giuridico, di ritirare le accuse nei confronti di Raouf Mellal, degli iscritti al sindacato e dei rappresentanti sindacali che sono perseguitati soltanto come ritorsione per il loro impegno sindacale, e di reintegrare tutte le persone licenziate per aver realizzato attività sindacali nell’esercizio dei loro diritti. 

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Grazie!

Eric Lee

CSI : l’annonce de Trump concernant Jérusalem est inconsidérée et facteur de division

Fonte : Confédération Syndicale Internationale

L’annonce par le président des États-Unis, Donald Trump, de la décision de reconnaître Jérusalem comme la capitale d’Israël est un acte inconsidéré, représentant un facteur de division qui compromet sérieusement la recherche de la paix entre Israël et la Palestine.

« L’unique base acceptable pour résoudre le conflit et mettre fin à l’occupation israélienne est une solution prévoyant deux États, et il est communément admis au sein de la communauté internationale que le statut de Jérusalem devra être défini dans le cadre du processus de négociation. L’annonce par le président Trump, définissant ce statut préventivement et unilatéralement, n’est pas seulement un affront aux Palestiniens, en particulier à ceux qui vivent à Jérusalem et qui sont confrontés à l’empiètement des colonies de peuplement sur leur territoire, mais porte également un réel préjudice aux perspectives de négociations pacifiques pour instaurer la paix et rechercher une solution prévoyant deux États sur la base des frontières de 1967 et conformément aux Résolutions 242 et 338 du Conseil de sécurité de l’ONU », a déclaré Sharan Burrow, secrétaire générale de la CSI.

Pour de plus amples informations, veuillez contacter le département de la presse de la CSI au +32 2 224 03 52 ou par courriel press@ituc-csi.org

Rossana Rossanda: L’inchiesta di Loris Campetti su chi perde il lavoro a 50 anni

FONTE INCHIESTAONLINE

Non ho l’età di Loris Campetti (editore Manni, 2015) è un’inchiesta diretta su un aspetto di solito non indagato della disoccupazione in Italia: si tratta questa volta non degli spazi chiusi ai giovani, ingabbiati in generale nel precariato, ma di quel che accade a chi perde il lavoro in età avanzata, dopo anni di mestiere con una professionalità compiuta. Sono figure meno pittoresche dei ragazzi, non portano con sé nuove culture, ma non suscitano minore emozione.

È un’inchiesta di questi anni, a crisi ormai settennale se se ne calcola l’inizio a partire da quella dei subprimes nel 2008. In quella tempesta sono scomparsi secolari opifici, antiche ditte, sostituite in genere da imprese nuove e più deboli, rilevate da qualche tardivo acquirente. Insomma la crisi investe la struttura produttiva, “i padroni”, che alla fine cercano di vivere o sopravvivere. Ma nell’uragano volano soprattutto gli stracci, che raramente sono rappresentati dal proprietario delle aziende via via ammalate e a un certo punto chiuse. È la prima conseguenza e se l’imprenditore è un furbastro magari se la cava, mentre non se la cavano mai i dipendenti che, sbattuti da una proprietà all’altra, alla fine non hanno neppure la forza di galleggiare. Sono generalmente ignoti (chi conosce i proletari?) che la ricerca di Loris Campetti fa emergere per il tempo di questo libro.

Emergono in genere poco volentieri. Quel che li caratterizza, salvo qualche indomito o indomita combattente, è la paura. Hanno già perduto un posto, e non per colpa loro ma perché è svanita o delocalizzata la ditta, potrebbero perdere anche quelli cui si rivolgono speranzosamente offrendosi come forza di lavoro. Sembra quasi scritto che prima o dopo tutti perderanno anche queste nuove possibilità, che al primo licenziamento parevano a portata di mano. Ma poi via via precipitando da un’interruzione di lavoro all’altra, gli stracci volano più che mai.

La paura nel disoccupato si accresce fino a rifiutare di discorrere con il giornalista che gli chiede di parlare di sé: no, assolutamente, grazie. O, al massimo, se lo fa, rimanendo nell’anonimato. Sono uomini e donne che, perduto il primo loro impiego, via via che il tempo passa nell’attesa di qualche impiego successivo, temono di essere in qualche misura riconosciuti, se non schedati, e di perdere quindi anche quello.

La disperazione non solleva, se non in rari casi, la ribellione. Dalla paura passano a una rassegnazione infelice; e questo sia gli uomini che le donne, le prime queste ad essere colpite quando si tratta di tagliare gli impieghi. E tuttavia nell’inchiesta di Campetti è proprio una donna, una single indiana che ha diretto una volta la lotta di quasi duecento connazionali, e quindi è una tosta, a raccontare lungamente di sé, a far nomi, a nulla nascondere: la ultracinquantenne Goghi. La cui vicenda le comprende quasi tutte, come quella di chi ha cominciato – se non sbaglio – in una fungaia, poi licenziata per chiusura dell’azienda e avanti così per altri due licenziamenti da una fabbrica chimica e da una metalmeccanica; o di chi si è presa un diploma di grafica e da allora è saltata da una unità di produzione all’altra, fino a rinunciare alla propria qualifica e offrirsi come tata di un bambinetto – la sola occupazione della quale c’è sempre abbondanza, ed è pagata assai poco.

Chi è da temere? La paura è vaga. Responsabile della tempesta è la famosa crisi, ma in generale i suoi manovratori sono lontani. Più semplice individuare la responsabilità in qualche eletto dalle istituzioni locali o dallo Stato; il personaggio più detestato essendo non il ministro Poletti o il team del governo promotore del Jobs act, ma la malvagia Elsa Fornero, che prima dell’attuale compagine era ministro del lavoro per Mario Monti, e sembra la figura delegata a raccogliere risentimenti e perfino odio. Non è più presente nella scena politica ma ha lasciato una impronta indelebile peggiorando tempi e modi della pensione: e si può capire che chi si trova a non poter raccogliere nulla da una vita di lavoro per una scadenza non potuta rispettare, magari per soli ventotto giorni, lo trovi inaccettabile e si infuri se appena ha il temperamento per farlo. Ma rare sono le Goghi con un’esperienza di lotta, molti di più i maschi reticenti. Alla paura di segnalarsi come un agitatore e quindi precludersi ogni sbocco lavorativo, nei più si sostituisce il senso di colpa: “Forse avrei dovuto farcela e non ce l’ho fatta, forse dovevo impuntarmi. Dovevo essere io a provvedere ai miei figli mentre non sono stato capace neppure di provvedere a me stesso”.

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Solidarietà a Nermin Al-Sharif leader del Sindacato dei portuali e dei marinai della Libia.

Pubblichiamo l’appello di Eric Lee coordinatore della rete internazionale  Labourstart per Nermin Al Sharif  leader del Sindacato libico dei portuali e dei marinai . Nermin Al Sharif è vittima di persecuzioni da parte delle autorità libiche per la sua attività sindacale. E’ possibile sottoscrivere l’appello di solidarietà a Nermin Al  Sharif cliccando il link “Click Here”.
Click here to support Nermin.

 

 

 

 

L’appello di Eric Lee

I met Nermin Al-Sharif, the leader of the Dockers’ and Seafarers’ Union of Libya, last year in Norway.  I knew of her because in the past, following an assassination attempt, LabourStart was asked to run a campaign in her defence.

Meeting her face to face, I could see why some powerful forces might fear this woman, as she is a very strong, determined, and fearless leader of workers.

Nermin is well known for her tireless work in support of human, workers’ and women’s rights in Libya, in the Arab region, and globally. 

Because of this work, she has been subject to ongoing attacks on her freedom and personal safety including several attempts on her life. 

In the latest incident Nermin was detained for a number of days and has had her passport confiscated subject to “an investigation”. 

The International Transport Workers Federation (ITF) is calling upon the UN representative in Libya to help end this campaign of intimidation and violence against Nermin.

Please join us by signing up to the campaign here — it will just take a moment:

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In addition, the European Transport Workers Federation has asked us to share their new online petition defending the right to strike for air traffic controllers in Europe – a right which is now under threat.  Read more and sign up here.

And please share this message with your friends, family and fellow union members.

Thank you!

Eric Lee

 

Con 9 milioni di morti all’anno, l’inquinamento uccide più della guerra, del fumo e di varie altre malattie messe insieme

FONTE : 03.11.2017 Pressenza London

Quest’articolo è disponibile anche in: Inglese, Greco

Con 9 milioni di morti all’anno, l’inquinamento uccide più della guerra, del fumo e di varie altre malattie messe insieme
Panoramica dei principali effetti sulla salute umana di varie forme di inquinamento (Foto di Mikael Häggström, Wikimedia Commons)

La rivista Lancet mette in risalto che l’inquinamento è una “profonda e dilagante minaccia che colpisce molti aspetti del benessere e della salute umana.”
di Andrea Germanos, editorialista per Common Dreams

L’inquinamento, “una delle più grandi sfide esistenziali nell’epoca dell’Antropocene“, uccide 9 milioni di persone all’anno, più delle morti causate dal fumo, tre volte di più delle morti causate dall’AIDS, dalla tubercolosi e dalla malaria, e 15 volte di più delle morti causate dalla guerra e da altre forma di violenza.

I dati vengono dall’ultimo nuovo studio globale sull’inquinamento e salute pubblicato su Lancet, che chiede una mobilizzazione di risorse ed un’azione politica capace di affrontare una minaccia pesante e diffusa in tutto il mondo.

“L’inquinamento è molto di più di una sfida ambientale, è una minaccia profonda e pervasiva che coinvolge molti aspetti della salute e del benessere umano. Merita tutta l’attenzione dei leaders di tutto il mondo, della società civile, dei professionisti della salute e delle persone”, dichiara il professore Philip Landrigan, della Ichahn School of Medicine di Mount Sinai, co-direttore della Commissione Internazionale biennale di Lancet.

L’inquinamento dell’aria, sia esterna che domestica, gioca il ruolo più importante nelle morti causate da inquinamento (6,5 milioni nel 2015), ed è responsabile di malattie cardiovascolari, tumori polmonari e malattie polmonari ostruttive croniche (COPD).  Inoltre l’inquinamento dell’acqua, dei luoghi di lavoro (come l’esposizione all’asbesto) e l’inquinamento da piombo, aggiungono altre morti al bilancio totale, che secondo i ricercatori è sottostimato.

Se si osserva chi è maggiormente coinvolto, si può vedere che esiste una diffusa iniquità. La quantità di morti causate da inquinamento (92 percento) colpisce i paesi a basso o medio reddito. India e Cina registrano il più alto numero di morti, rispettivamente con 2,5 e 1,8 milioni. Inoltre i ricercatori rivelano che, globalmente, le morti sono prevalenti tra le minoranze e gli emarginati.

L’inquinamento è un problema estremamente costoso. Anche ignorando l’impatto economico e. guardando soltanto ai costi del welfare, si arriva a 4600 miliardi di dollari o al 6,2 percento del prodotto interno lordo mondiale.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha applaudito alle nuove analisi. “L’inquinamento è il sintomo e una conseguenza non voluta di uno sviluppo malato e insostenibile” scrivono Maria Neira, Michaela Pfeiffer, Diarmid Campbell-Lendrum, e Annette Prüss-Ustün del Dipartimento dei Determinanti ambientali e sociali della Salute Pubblica.

“Se vogliamo ridurre in modo sostanziale il peso globale delle malattie dovute all’ambiente, abbiamo bisogno di agire a monte e affrontare gli elementi chiave e le fonti dell’inquinamento, così da assicurare che le politiche di sviluppo e gli investimenti siano sani e sostenibili e che le scelte che facciamo, a livello governativo, privato e individuale, possano coltivare un ambiente più sano e sicuro. In altre parole, abbiamo bisogno di andare verso l’approccio del “non fare danno” e assicurare che lo sviluppo migliori in maniera attiva ed esplicita le condizioni ambientali e sociali, che favoriscono e sono causa di malattie” essi aggiungono.

Secondo Pamela Das, editore esecutivo senior, e Richard Horton, capo-redattore di Lancet, questi nuovi dati dovrebbero essere “un tempestivo appello all’azione”.

“Ora è il momento di accelerare la nostra risposta collettiva. Le attuali e future generazioni meritano di vivere in un mondo senza inquinamento”, scrivono in un commento sui dati pubblicati.

 

Traduzione dall’inglese di Annalaura Erroi

Intervista di Roberto Giovannini della Rivista Italiani Europei a Maurizio Landini

Su Italianieuropei sterminata e interessante intervista di Roberto Giovannini a Maurizio Landini

Roberto Giovannini: Maurizio Landini, dopo tanti anni in FIOM – tante discussioni, tante polemiche, tante prese di posizione, tante con­troversie – adesso lei è segretario confederale della CGIL. Ma la CGIL, e il sindacato così come lo conosciamo in Italia, esisterà ancora tra dieci anni, nel 2027?

Maurizio Landini Sono in crisi tutte le organizzazioni di rappresen­tanza sociale, sia quelle politiche che quelle sindacali, e sta cambian­do in modo radicale il modo in cui operano imprese e produzione. Nulla sarà più come prima. Mai come oggi abbiamo tanta precarietà del lavoro, tanta diseguaglianza, tanta frammentazione sociale, tanta competizione tra le persone. E dall’altra parte – questo è il tema – non c’è più un punto di vista del lavoro, una visione alternativa della società, mentre c’è e predomina il punto di vista del mercato e della finanza. In prospettiva, certamente il sindacato ha un futuro; ma deve avere un modello sociale di riferimento. Se chiediamo ai lavoratori di organizzarsi in sindacato, non basta dire che il sindacato serve per tutelare le loro condizioni di lavoro. Bisogna proporre anche un progetto di trasformazione sociale, un’idea diversa di giustizia so­ciale, di eguaglianza. Bisogna avere un’idea del perché e del come si lavora e si produce; bisogna avere un’idea di reale coinvolgimento e partecipazione delle persone. Si è scelta la strada di lasciar fare al mercato; si è lasciata vincere – nella cultura e nella politica – l’idea che al centro di tutto ci sono il mercato e la finanza. Questo ha fat­to scomparire la soggettività delle persone che lavorano, e dunque ha cancellato ogni punto di vista diverso e di trasformazione. Sono convinto, sinceramente, che il sindacato possa avere un futuro; ma lo avrà solo se sarà anche un soggetto politico, cioè se avrà valori e proposte di trasformazione sociale in autonomia e indipendenza da politica e governi.

R. G. Una storia, quella del sindacato in Europa, che da sempre si è intrecciata a quella del movimento socialista. Che oggi appare ovunque in grave crisi.

M. L. È così. Dopo la fine dell’esperienza “comunista”, oggi siamo alla fine anche dell’esperienza della socialdemocrazia, ovvero di quel modello di mediazione sociale tra imprese e lavoro che aveva dato vita allo Stato sociale. Lo dimostra il fatto che siamo di fronte a un arretramento senza precedenti delle condizioni di vita delle persone che lavorano. Per avere un futuro, il sindacato deve tornare a rap­presentare e unire tutto il mondo del lavoro, e costruire su questa base una cultura politica e sociale alternativa all’attuale modello che ha al centro mercato e finanza. Per farmi capire meglio vorrei citare la vicenda dell’approvazione nel 1970 dello Statuto dei lavoratori. La legge 300 non venne approvata perché sostenuta dalle forze di sinistra – il Partito comunista si astenne – ma perché votata da DC, PSI, PLI, PRI e PSDI, che avevano una larga maggioranza in Parla­mento. Nel 1970 anche le forze politiche di destra e di centro votano lo Statuto dei diritti dei lavoratori perché riconoscono che uno dei nostri principi costituzionali, la centralità dei diritti della persona che lavora, è un interesse generale da riconoscere e tutelare. E solo successivamente si articola la politica, a destra, a sinistra o al centro. Oggi siamo al paradosso che un partito come il PD, che fa parte dell’Internazionale socialista, sancisce che la cosa più di sinistra che può fare è il Jobs Act, una legge che smantella lo Statuto dei diritti dei lavoratori. E mentre nel 1970 si affermava che si poteva licen­ziare solo se c’era una giusta causa, si riconosceva che il lavoro aveva bisogno di tutele, e che il ruolo sociale dell’impresa doveva essere temperato dal rispetto dei diritti di chi lavora, oggi si giunge quasi a teorizzare che va tutelata l’impresa che licenzia. Prima il lavoratore veniva tutelato dal licenziamento ingiusto; oggi viene tutelata l’im­presa, che può disporre un licenziamento ingiusto sborsando un po’ di soldi. Un cambiamento culturale davvero drammatico.

R. G. Dunque, il sindacato secondo lei ha un futuro; ma deve riuscire a unificare il mondo del lavoro, ed elaborare un progetto di trasformazione della società. Non sembra affatto un compito facile: il lavoro e la società sono frantumati e disarticolati, e l’esperienza socialdemocratica – che è stata il suo punto di ancoraggio tradizionale – è tramontata. Il sinda­cato confederale resta impostato su un modello novecentesco e datato. La CGIL ha le risorse per fare il salto di qualità che lei indicava come indispensabile per poter sopravvivere?

M. L. Credo di sì, purché si cominci ad agire sin dal Congresso che avremo tra un anno. Non basta un rinnovamento delle persone che dirigono la CGIL, ma serve anche un rinnovamento delle pratiche sindacali, partendo dal rafforzamento di alcune caratteristiche im­portanti del sindacato italiano, che hanno fatto sì che ancora oggi – mentre un po’ dappertutto il tasso di sindacalizzazione è in forte calo – nel nostro paese i numeri sulle adesioni siano migliori. Da noi le cose vanno meglio perché il sistema di relazioni industriali si basa su una struttura contrattuale fondata sui contratti nazionali di categoria e sulla contrattazione aziendale. Sappiamo molto bene che questo modello contrattuale è minacciato dalla frammentazione del processo lavorativo: penso alle esternalizzazioni, al sistema degli appalti e dei subappalti, al proliferare di cosiddette “cooperative”. Al fatto che le tecnologie che intrecciano il digitale e la manifattura cambiano il perimetro delle tradizionali categorie produttive sulla cui base è ancora oggi organizzato il sindacato. Per reggere a questo cambiamento, dobbiamo essere in grado di riunificare in capo alle persone i diritti di chi lavora. Non basta immaginare una nuova le­gislazione sul lavoro e un nuovo Statuto dei diritti dei lavoratori, che pure dobbiamo conquistare.

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Les syndicats kirghizes s’engagent à protéger les droits des travailleurs à l’aube des élections de dimanche

FONTE EQUALTIME

 

A campaign poster in support of the ruling SDPK party candidate Sooronbay Jeenbekov on the streets of Bishkek, ahead of the 15 October polling day.

(Naubet Bisenov)

Cette semaine, alors que la campagne électorale présidentielle kirghize – qualifiée d’« élection la plus transparente de l’histoire » de l’Asie centrale par le Financial Times – entre dans sa dernière ligne droite, un favori ne s’est pas encore dégagé. Mais indépendamment du vainqueur de l’élection présidentielle du 15 octobre, les syndicats locaux promettent de défendre avec fermeté les droits des travailleurs, et ce, malgré l’érosion des droits civiques et syndicaux.

Treize candidats se disputent le poste aux élections de dimanche. Le président sortant, Almazbek Atambaïev, ne peut pas se représenter pour un second mandat, car l’actuelle constitution kirghize (qui a été modifiée en 2010 à la suite des révolutions de 2005 et 2010) empêche le président d’assumer plus d’un sexennat.

Sur les treize candidats en lice, la plupart des analystes politiques s’accordent à dire que seuls quatre d’entre eux ont une réelle possibilité de décrocher la présidence : Le protégé d’Atambaïev, Sooronbay Jeenbekov, du Parti social-démocrate du Kirghizstan (SDPK), qui occupait le poste de Premier ministre jusqu’en août dernier, Temir Sariyev, qui fut Premier ministre du gouvernement d’Atambaïev entre 2015 et 2016, Omurbek Babanov, un autre ancien Premier ministre du cabinet d’Atambaïev et le moins connu Adakchan Madumarov, un ancien fonctionnaire du gouvernement.

Les plateformes électorales des différents candidats diffèrent peu les unes des autres, promettant toutes d’améliorer la situation socio-économique des électeurs sans leur donner de détails sur la façon d’y parvenir.

« Le Kirghizstan est un pays unique en Asie centrale, » déclare Rysgul Babayeva, présidente par intérim de la Fédération des syndicats du Kirghizistan (KFTU). Elle le décrit comme « la démocratie la plus avancée d’Asie centrale et même de la CEI (Communauté des États indépendants). Nous ne pouvons pas prédire qui sera élu président, » déclare-t-elle à Equal Times, en référence à la nature relativement libre des prochaines élections, ce qui signifie que le résultat n’est en aucun cas une fatalité. Cette situation tranche nettement avec les pays voisins comme le Kazakhstan, le Tadjikistan et le Turkménistan, où il n’est pas rare que les gagnants obtiennent plus de 90 % des voix.

Cependant, les mérites démocratiques de la campagne ont été entachés par une série de violations des droits, notamment en ce qui concerne l’indépendance du pouvoir judiciaire et la liberté d’expression. Ce mois-ci, un éminent journaliste, Kabai Karabekov, a été condamné par un tribunal de Bichkek à verser près de 72.000 dollars US en dommages et intérêts à Jeenbekov pour avoir associé ses frères (qui ne sont pas candidats à la présidence) à des organisations islamistes radicales étrangères.

Restriction systématique des droits du travail

Le Kirghizstan est l’un des pays les plus pauvres de la région. Malgré un taux de chômage officiel qui avoisine les 8 %, on estime que plus d’un million de ressortissants kirghizes travaillent à l’étranger, en particulier en Russie et au Kazakhstan voisin, où les salaires sont supérieurs au salaire mensuel moyen de 200 dollars américains. Dans le même temps, le travail informel est endémique au Kirghizstan : les syndicats estiment que plus de 70 % des travailleurs kirghizes sont des travailleurs informels, ce qui est synonyme de bas salaires et d’une faible protection de la part des syndicats et du droit du travail.

Au Kirghizstan, les droits des travailleurs ont été restreints de manière systématique depuis l’éclatement de l’Union soviétique en 1991. « Ils [le gouvernement] ont toujours voulu élaguer le Code du travail, » qui a été adopté pour la première fois en 1997 et modifié en 2004, affirme Vyacheslav Breyvo, avocat de la KFTU.

« Ils ont suggéré la suppression de normes législatives protégeant les droits des travailleurs, notamment la proposition de rémunérer davantage les heures supplémentaires et les jours fériés, de verser des indemnités décentes aux travailleurs licenciés, etc., » déclare-t-il. « Ils voulaient également annuler toutes les normes régissant le recrutement des femmes, des mineurs, des travailleurs à temps partiel et des personnes handicapées. »

Babayeva affirme que le gouvernement risque d’emboîter le pas à la Géorgie, un pays qui a été décrit par la Confédération syndicale internationale (CSI) comme « l’un des pires cas en Europe en matière de droits des travailleurs. »

Le Code du travail géorgien adopté en 2006 impose de lourdes restrictions excessives sur le droit de grève, les droits des travailleuses mères de famille et le droit des travailleurs à être indemnisés pour les heures supplémentaires. Le code a été amendé en 2013 avec plusieurs améliorations notables, y compris des garanties concernant l’affiliation syndicale des travailleurs et l’interdiction de licencier les femmes enceintes, mais la Géorgie est toujours l’un des rares pays au monde à ne pas avoir d’inspecteurs du travail de l’État.

Gouvernement du côté des employeurs

Breyvo affirme que le dialogue social au Kirghizstan s’est considérablement détérioré ces dernières années, le gouvernement s’efforçant de protéger les intérêts des employeurs. Il fait remarquer qu’auparavant, les employeurs pouvaient invoquer huit ou dix raisons pour licencier leurs employés, toutes soumises à l’examen des syndicats. Toutefois, les modifications apportées au Code du travail en 2004 ont porté à 30 le nombre de raisons pour lesquelles les employeurs peuvent licencier leurs employés et les syndicats ne peuvent intervenir que dans quatre de ces cas.

En 2015, les autorités ont suggéré la suppression des garanties législatives relatives aux heures supplémentaires et aux jours fériés, la simplification des procédures de licenciement et le basculement de tous les travailleurs vers des contrats de courte durée, indépendamment de leur ancienneté dans leur poste. Selon les syndicats, si ces modifications avaient été adoptées, elles auraient touché 90 % de la population active.

L’administration d’Atambaïev a suggéré, selon des responsables syndicaux, que la rémunération des heures supplémentaires soit décidée par chaque employeur, pas par l’État.

« Ces attaques reprennent de plus belle et ils [le gouvernement] veulent changer le Code du travail au profit des employeurs, mais nous ne céderons pas, » déclare Babayeva. « La KFTU est une présence formidable que l’on ne peut pas ignorer dans une démocratie. »

Breyvo déclare que, quel que soit le vainqueur des élections de cette semaine, tous les travailleurs se préparent à de nouvelles attaques contre leurs droits. « Les attaques contre la législation du travail ne cesseront jamais étant donné que les députés et les présidents sont élus au sein de l’oligarchie qui représente la majeure partie du capital privé. Ce sont donc eux les employeurs, » déplore l’avocat.

Cependant, Babayeva affirme que la confédération est déterminée à entretenir des relations professionnelles et constructives avec la nouvelle administration. « Nous reconnaîtrons la personne élue parce qu’en tant que syndicats, nous ne faisons pas de politique, » déclare-t-elle. « Mais ils doivent aussi comprendre que sans les syndicats, le développement d’une société démocratique s’avère impossible. »

Nelle ultime settimane le autorità egiziane hanno arrestato un numero di dirigenti sindacali indipendenti.

Nelle ultime settimane le autorità egiziane hanno arrestato un numero di dirigenti sindacali indipendenti. Sono stati arrestati nove dirigenti e sette di questi sono ancora in prigione. 

Tra i dirigenti arrestati vi sono dirigenti del sindacato dei lavoratori del settore delle tasse  sulla proprietà immobiliare e del sindacato dei lavoratori dell’azienda elettrica.

Si teme che anche altri dirigenti sindacali possano essere arrestati.

Il Centro Servizi per i Lavoratori e i Sindacati del Cairo ha chiesto il nostro aiuto per contribuire alla loro liberazione. 

La loro richiesta è stata sostenuta dalla Confederazione Internazionale dei Sindacati, International Trade Union Confederation, e dalla Federazione internazionale dei servizi pubblici, la Public Services International.

Per favore, unitevi a noi nella richiesta al Governo egiziano di liberarli immediatamente. 

https://www.labourstartcampaigns.net/show_campaign.cgi?c=3582

E, per favore, condividete questo messaggio con i vostri amici, familiari e colleghi del sindacato.

Grazie!

Eric Lee

GERMANIA: TRA MINIJOB E AFD –

FONTE  R/PROJECT   CHE RINGRAZIAMO

il modello a cui si ispira Macron

 

https://www.facebook.com/rprojectAnticapitalsta/photos/a.176177035922198.1073741827.175912932615275/787695538103675/?type=3

 

di Olivier Cyran* dal numero di settembre del mensile francese Le Monde Diplomatique.

I tedeschi, chiamati alle urne il 24 settembre, non hanno mai avuto un numero così basso di persone in cerca di occupazione. E nemmeno così tanti precari. Lo smantellamento della previdenza sociale avvenuta a metà degli anni 2000 ha trasformato i disoccupati in lavoratori poveri. Queste riforme hanno ispirato la revisione del codice del lavoro che il governo cerca di imporre per decreto.

Ore 8: il Jobcenter (Agenzia per l’impiego N.d.T.) del quartiere berlinese di Pankow ha appena aperto i battenti che già una quindicina di persone fanno la coda davanti allo sportello dell’accettazione, ciascuna rinchiusa in un ansioso silenzio. “Perché sono qui? Perché, se non rispondi alla loro convocazione, ti tolgono quel poco che ti danno”, sbotta a bassa voce un cinquantenne, “comunque non hanno niente da proporre, a parte, forse, un lavoro da venditore di mutandine borchiate, chissà”. L’allusione gli strappa un leggero sorriso. Un mese fa, una madre sola di 36 anni, insegnante disoccupata, ha ricevuto unalettera dal Jobcenter di Pankow che la invitava, a pena di sanzioni, a candidarsi per un posto di rappresentante di commercio di un sexy shop. “Ne ho passate di tutti i colori con il mio Jobcenter, ma questo è il colmo”, ha risposto via internet l’interessata, prima di annunciare la sua intenzione di sporgere denuncia per abuso d’ufficio.

All’esterno, nel parcheggio del blocco di case popolari, l’“unità mobile di sostegno” del centro disoccupati di Berlino ha già iniziato l’attività. La signora Nora Freitag, 30 anni, sistema sul tavolo pieghevole, piazzato davanti al minibus degli operatori, un pacco di opuscoli intitolati Come difendere i miei diritti nei confronti del Jobcenter.

“Questa iniziativa è stata organizzata nel 2007 dalla Chiesa evangelica: c’è molta disperazione, e anche molta impotenza, davanti a questo mostro burocratico che i disoccupati percepiscono, non a torto, come una minaccia”.

Una signora, sessant’anni suonati, si avvicina con passo esitante, sembra molto infastidita di doversi presentare a degli estranei. La sua pensione, inferiore a 500 euro al mese, non le basta per vivere, riceve un’integrazione versata dal suo Jobcenter. Poiché fatica comunque a sbarcare il lunario, fa da poco un lavoro precario part-time (“minijob”) come donna delle pulizie in una casa di cura che le garantisce un salario netto mensile di 340 euro. “Figuratevi”, dice con una vocina agitata, “la lettera del Jobcenter mi dice che non ho dichiarato i miei redditi e che devo rimborsare 250 euro, ma questi soldi, io non li ho! Per giunta, li ho dichiarati fin dal primo giorno, i miei redditi, come potete immaginare; ci deve essere un errore…”. Uno degli operatori la prende sottobraccio per darle dei consigli in disparte: a chi indirizzare un ricorso, a quale porta bussare per sporgere denuncia se il ricorso ha esito negativo, ecc. Talvolta il minibus serve da rifugio per trattare un problema in maniera riservata. “È uno degli effetti di Hartz IV”, osserva la signora Freitag, “la stigmatizzazione dei disoccupati è così pesante che molti provano vergogna perfino a parlare della loro situazione di fronte ad altri”.

Una delle normative più vincolanti d’Europa

Hartz IV: questo marchio sociale deriva dal processo di deregolamentazione del mercato del lavoro, chiamato Agenda 2010, messo in essere tra il 2003 e il 2005 dalla coalizione del cancelliere Gerhard Schröder tra il Partito socialdemocratico (SPD) e i Verdi. Battezzata con il nome del suo ideatore, Peter Hartz, ex direttore del personale della Volkswagen, il quarto e ultimo pacchetto di queste riforme ha unificato i sussidi sociali e le indennità dei disoccupati di lungo termine (senza impiego da oltre un anno) in un unico sussidio forfettario, versato dal Jobcenter. Il presupposto è che lo scarso importo di questa somma – 409 euro al mese nel 2017 per una persona sola (1) – dovrebbe motivare il beneficiario, ribattezzato “cliente”, a trovare o a riprendere al più presto un impiego, anche mal retribuito e poco aderente alle sue attese o alle sue competenze. Il riconoscimento del sussidio è subordinato a un programma di controlli tra i più vincolanti d’Europa.

Alla fine del 2016, l’ambito di applicazione di Hartz IV coinvolgeva circa 6 milioni di persone, di cui 2,6 milioni di disoccupati ufficiali, 1,7 milioni di disoccupati sommersi non contabilizzati dalle statistiche attraverso la trappola dei “dispositivi di avviamento al lavoro” (formazione, addestramento, impieghi da 1 euro, minijobs, ecc.) e 1,6 milioni di figli di beneficiari del sussidio. In una società strutturata sul culto del lavoro, queste persone sono spessodescritte come scoraggiate o come bande di fannulloni e talvolta anche peggio. Nel 2005, in un opuscolo del ministero dell’economia, con la prefazione del ministro Wolfang Clement (SPD) e intitolata Priorità alle persone oneste. Contro gli abusi, le truffe e il fai da te nello Stato sociale, si poteva leggere: “I biologi sono concordi nell’utilizzare il termine ‘parassita’ per designare gli organismi che si sostentano a spese di altri esseri viventi. Ovviamente, sarebbe totalmente fuori luogo estendere agli esseri umani nozioni proprie del mondo animale”. E, ovviamente, l’espressione “parassita Hartz IV” è stata abbondantemente ripresa dalla stampa scandalistica, Bild in testa.

La vita dei beneficiari dei sussidi è uno sport da combattimento.

Quando la somma percepita, a livello di sussistenza, non consente al beneficiario di pagarsi un affitto, il Jobcenter se ne fa carico, a condizione che l’affitto non superi il tetto massimo fissato dall’amministrazione a seconda delle zone geografiche. “Un terzo delle persone che vengono da noi, lo fanno per problemi legati all’abitazione”, dichiara la signora Freitag, “nella maggior parte dei casi perché il rialzo degli affitti nelle grandi città, in particolare a Berlino, ha fatto loro superare i massimali del Jobcenter; allora i beneficiari dei sussidi devono traslocare, ma senza sapere dove, poiché il mercato delle case in affitto è saturo, oppure devono pagare di tasca propria la differenza eccedente il massimale, tagliando le spese alimentari”. Dei 500.000 “Hartz IV” che vivono a Berlino, il 40% paga un affitto che supera il limite normativo.

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Il governo della Bielorussia ha lanciato una campagna infondata contro i sindacati indipendenti.

 

Abbiamo bisogno del vostro sostegno per dire al governo di fermarsi.

Il 2 agosto, Gennady Fedynch, presidente del Sindacato dei lavoratori della radio e dell’industria elettronica (REP) e membro del Comitato esecutivo di Industrial ALL, e Ihar Komlik, tesoriere del sindacato REP e dirigente regionale nella città di Minsk, e diversi membri dell’organizzazione sono stati fermati e interrogati dalle autorità bielorusse.

I due dirigenti sindacali si trovano ora sotto inchiesta per presunta evasione fiscale su larga scala e rischiano dai 3 ai 5 anni di prigione. Ihar Komlik è in prigione dal 2 agosto. Le accuse relative alle tasse non pagate si riferiscono al sostegno e alla solidarietà ricevuta dal sindacato nel 2011, e non possono essere considerate come fondi privati. Le accuse sono infondate e mirano a indebolire il sindacato, come ritorsione alle posizioni e all’attività dei suoi dirigenti in difesa dei diritti civili e degli interessi sociali ed economici dei lavoratori in Bielorussia.

La federazione sindacale internazionale, Industrial All, e la Confederazione Sindacale Internazionale chiedono che Ihar komlik sia rilasciato immediatamente e che sia posta fine fine all’azione penale nei confronti di Gennady Fedynich.

Per favore, dedicate un momento per dimostrare il vostro sostegno a questa campagna, collegandovi al link:

https://www.labourstartcampaigns.net/show_campaign.cgi?c=3536

E per favore condividete questo messaggio con i vostri amici, parenti e colleghi del sindacato.

Grazie
Eric Lee

“Se la narrazione tossica su improbabili riprese economiche serve rubarci il futuro”. Il domenicale di Controlacrisi a cura di Federico Giusti

Fonte : controlacrisi.org

Qualche giorno fa, sulle pagine de Il Sole 24 ore (era il 23 Agosto) , abbiamo letto l’ articolo di Marco Leonardi, consigliere economico della presidenza del Consiglio, secondo cui se si riducono i costi di licenziamento solo per i nuovi contratti (come ha fatto il Jobs Act) i lavoratori che non sono ancora occupati ma stanno cercando un’occupazione potranno concordare un salario più alto a fronte della riduzione della protezione contro il licenziamento”.

La realtà è invece l’esatto contrario, il potere di acquisto dei salari è in continua diminuzione. Solo pochi mesi fa l’Osservatorio nazionale della Federconsumatori parlava di una stangata per ogni famiglia italiana con perdita di potere di acquisto superiore a 2330 euro annui

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LES SYNDICATS LITUANIENS ET TCHÈQUES LANCENT DES PROGRAMMES D’AFFILIATION ANONYMES

FONTE ETUI.ORG

18 juillet 2017

Après la transition systémique en Europe centrale et orientale, rejoindre une organisation syndicale est devenue une entreprise risquée pour bon nombre de travailleurs. Les sociétés multinationales qui avaient investi dans la région après l’effondrement du socialisme ont hésité à accorder à leurs nouveaux salariés des droits importants en matière de participation et les entreprises locales étaient très majoritairement hostiles aux syndicats. Dans ces conditions, la peur de perdre son emploi ou d’être victime de mesures de rétorsion a souvent dissuadé les travailleurs d’établir ou d’adhérer à un syndicat au niveau de l’entreprise.

Pour remédier à la situation, les syndicats de certains pays d’Europe centrale et orientale ont encouragé les travailleurs à rejoindre leurs rangs sans qu’ils aient à révéler leur identité auprès des employeurs. En Lituanie, par exemple, l’adhésion anonyme existait déjà avant la récession, mais elle a connu un coup d’accélérateur entre 2008 et 2010 lorsque les entreprises ont rencontré des difficultés économiques et ont menacé leurs salariés de licenciement.

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Renzi e la metafora del cuculo ….

“Il cuculo non fa il nido. Non ne ha bisogno, dato che approfitta di quello degli altri. La femmina dopo aver scelto una covata, preferendo quelle dei passeracei, butta fuori un uovo e vi depone il suo, seguendo un perfetto copione. E’ un esempio di parassitismo assassino, dal momento che anche il cuculo appena nato, per non avere concorrenti, butta fuori dal nido i fratellastri, figli della madre adottiva che lo ha inconsapevolmente ospitato.” ( fonte )

La metafora del cuculo è sovrapponibile a quanto è successo nel PD, dalla fondazione del Lingotto in poi.
Posso testimoniare che in tempi non sospetti, ben prima della resistibile ascesa del Renzi, già si avvertiva nell’aria la reciproca antipatia tra provenienti dalle fila del vecchio Pci e i nuovi margheritini… Per cultura sacrificale i provenienti più vecchi dal Pci invitavano alla pazienza, a fare trascorrere i tempi necessari per la “fusione” di due culture che si erano combattute per anni…
Il “cuculo” Renzi e il suo cerchio magico erano già all’opera per disseminare di uova i “nidi” della Toscana fino al “nido” centrale del PD.

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E’ uscito il numero 92 del Settimanale di Punto Rosso-Lavoro21

Lo potete scaricare qui:
http://www.puntorosso.it/uploads/1/7/0/3/17033228/lav21-sett-n92-s.pdf

In questo numero:

Nuovi voucher: la truffa e l’inganno
di Maurizio Landini

Populismo d’establishment: Renzi non è Macron
di Carlo Formenti

Il papa: abbassare l’età pensionabile, il sindacato torni a rappresentare gli esclusi
di Gabriele Polo

Le contraddizioni del reddito di cittadinanza
di Giovanni Mazzetti

Cinquant’anni di bugie sull’occupazione israeliana
di Gideon Levy

Buona lettura e diffondete!

***

PROSSIME INIZIATIVE DI PUNTO ROSSO
http://www.puntorosso.it/iniziative.html

Operai, trent’anni dopo di Sergio Sinigaglia

fonte ILMANIFESTOBOLOGNA

Cooperazionedi Sergio Sinigaglia

Nel febbraio del 1988 Gad Lerner, allora giovane, ma già affermato giornalista trentatreenne dell’Espresso, pubblicò con Feltrinelli “Operai”. Si trattava di un ricco reportage che, partendo dalla Fiat, ci accompagnava in un viaggio “dentro la classe che non c’è più”, come si poteva leggere nel sottotitolo. Un’indagine che andava “oltre l’universo metallico delle grandi fabbriche automobilistiche per raccontare la vita nei casermoni di periferia, le metamorfosi avvenute nei paesini meridionali degli emigranti (i nostri…ndr), gli operai divisi tra robot e lavoro contadino”, cioè i cosiddetti metalmezzadri, ben conosciuti per esempio nel fabrianese, dove esisteva un altro impero, molto più piccolo di quello di sua Maestà Gianni Agnelli, ma comunque significativo. Ovviamente ci riferiamo alla famiglia Merloni.

Eravamo nel pieno della restaurazione conservatrice. Tre anni prima un referendum aveva sancito la sconfitta di chi voleva abrogare il decreto di San Valentino, voluto dal governo Craxi, provvedimento che cancellava quattro punti della scala mobile. Una prima picconata ad uno strumento fondamentale di difesa delle retribuzioni. La consultazione vide una clamorosa e significativa sconfitta del PCI e delle altre forze della sinistra che volevano abrogare la norma. Una debacle emblematica dei tempi che si stavano vivendo e annunciando. Nel 1992 ci penserà il governo Amato ad abolire definitivamente la scala mobile, con il beneplacito delle organizzazioni sindacali.

Più di trent’anni dopo quei fatti e 29 anni di distanza dalla pubblicazione del libro, Gad ci ha proposto un altro viaggio nel mondo del lavoro, andato in onda in sei puntate su Rai tre. Il titolo sempre uguale “Operai”, ma il contesto proposto è alquanto modificato. In peggio.

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Jobs Act, aumentano i licenziamenti, giù i contratti stabili

Jobs Act, aumentano i licenziamenti, giù i contratti stabili

284 mila contratti a tempo determinato e 35 mila contratti di apprendistato «trainano» l’occupazione a gennaio-febbraio 2017. 10 milioni e 526 mila voucher venduti in un anno fino al 17 marzo, giorno in cui il governo Gentiloni ha abolito con un decreto i «buoni lavoro» Aumentano i licenziamenti disciplinari nelle aziende con più di 15 dipendenti. Con il taglio degli sgravi contributivi alle imprese per i neo-assunti crollano le assunzioni a tempo indeterminato. I pochi assunti trovano in busta paga un regalo: le retribuzioni inferiori a 1.500 euro sono più basse di quelle, già basse, dei colleghi già assunti. Sono le conseguenze del Jobs Act di Renzi e del Pd riassunte dall’osservatorio sul precariato dell’Inps che ieri ha pubblicato i dati di febbraio 2017.

LA CANCELLAZIONE dell’articolo 18; l’imposizione del contratto a tutele crescenti – dove a crescere è la libertà dell’impresa a licenziare; il regalo di stato alle imprese pari a 11 miliardi di euro in tre anni; il taglio dei salari per il lavoro dipendente nel privato, ovvero i pilastri della dissennata politica dei bonus imposta da Renzi ha portato alla seguente situazione. Nei primi due mesi del 2017 i licenziamenti disciplinari sono aumentati del 30% rispetto ai primi due mesi del 2016: oggi sono 5.437, ieri erano 4.111. E salgono del 64,9% se si considera il periodo analogo del 2015 quando il Jobs act non era ancora in vigore. Questo significa che la «riforma» approvata dal Pd ha aumentato i licenziamenti grazie all’abolizione dell’articolo 18 che ha di fatto cancellato il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo per i lavoratori assunti da marzo 2015 nelle aziende con oltre 15 addetti.

L’ALTRO TOTEM RENZIANO è l’aumento delle assunzioni a tempo indeterminato. Una bufala. Tagliati i costosissimi sgravi, la crescita si riduce drasticamente. Nei primi due mesi del 2017 del 13% rispetto a quelli del 2016 con un saldo positivo tra assunzioni e cessazioni di soli 18 mila contratti, la metà di quelli del 2016 e il 15 per cento di quelli dei primi due mesi del 2015. Senza i soldi pubblici le imprese italiane non assumono. La politica dei bonus ha spostato un’immensa quantità di denaro pubblico nelle tasche dei capitalisti, senza peraltro risultati significativi.

AL CONFRONTO SU SKY con gli altri candidati alle primarie Pd Renzi ha rilanciato anche il dato grezzo sugli oltre 700 mila assunti con il Jobs Act. I dati Inps raccontano un’altra realtà, quella della dinamica del mercato del lavoro che non può essere rappresentata con una somma, ma con un saldo tra assunzioni e cessazioni dei contratti. Il valore va misurato su base annua, e non con la somma del biennio come fa invece Renzi. Per l’Inps il saldo dei primi due mesi del 2017 risulta positivo: +352 mila. Ma bisogna guardare le tipologie dei contratti contenuti in questa cifra. Ci sono i contratti a tempo indeterminato (+33 mila), ma la crescita è trainata dai contratti di apprendistato (+35 mila) e dai contratti a tempo determinato (+284 mila inclusi i contratti stagionali). Questo significa che il Jobs Act, tanto sbandierato, è un altro modo per produrre precarietà per legge.

OLTRE ALLA RIDUZIONE dei salari: 31,8% contro il 35,8% rispetto a gennaio-febbraio 2016 ci sono gli immancabili dati sui voucher che hanno continuato a macinare record su record anche a marzo 2017. Tra il 1 marzo e il 17, data di entrata in vigore del decreto che li ha aboliti (con la possibilità di usare quelli acquistati fino a fine anno) sono stati venduti 10.526.569 voucher in linea con l’intero mese di marzo 2016 (10.922.770). Il presidente dell’Inps Tito Boeri chiede un rilancio degli sgravi alle imprese, anche in mancanza di una domanda di lavoro. «Mi chiedo se non valga la pena di mantenere in piedi forme di decontribuzione per i giovani, con lo Stato che paga per loro i contributi» sostiene. Una forma simile è comunque presente per gli under 35 del Sud. Più critica la Cgil con Tania Scacchetti, segretaria confederale: «Il fallimento del Jobs Act è sotto gli occhi di tutti. Sgravi contributivi a pioggia per le imprese e riduzione delle tutele per i lavoratori non hanno rappresentato la strada giusta».

«IL JOBS ACT è stata una scelta sbagliata» sostiene Francesco Laforgia, capogruppo alla Camera degli scissionisti del Pd – Articolo 1-Mdp. Sul tavolo mettono il ripristino dell’articolo 18 e chiedono di calendarizzare una proposta di legge. L’iniziativa resta nel campo del Pd renziano e del governo Gentiloni che ha abolito i voucher con un decreto per impedire il referendum Cgil. La richiesta di una revisione dell’altro totem renziano è giunta anche dal segretario confederale della Uil Guglielmo Loy che denuncia anche l’aumento del 431% nei licenziamenti da esodo incentivato, cambio di appalto o interruzione di rapporti di lavoro nel settore edile.
«Il Jobs Act è dipendente soltanto dagli sgravi contributivi – afferma Renato Brunetta (Forza Italia) – Una strategia sbagliata che ora si vuole ripetere con sgravi per giovani e donne, di vago stampo elettorale». «I dati dell’Inps confermano le nostre paure. Gli unici effetti del Jobs Act sono precariato e licenziamenti» sostengono i portavoce M5S delle commissioni lavoro Camera e Senato.

Somalia: fermate gli attacchi contro i giornalisti e gli altri sindacalisti

Somalia: fermate gli attacchi contro i giornalisti e gli altri sindacalisti

In collaborazione con il Sindacato nazionale dei giornalisti somali (NUSOJ)

 

Il Governo federale della Somalia ha attaccato negli ultimi quattro anni il Sindacato nazionale dei giornalisti somali (NUSOJ) e la Federazione dei sindacati somali (FESTU), perché questi sindacati si sono rifiutati di farsi controllare dal governo. Il governo ha vietato le riunioni sindacali del NUSOJ a Mogadiscio, imposto membri non appartenenti al sindacato come dirigenti del FESTU e del NUSOJ, intimidito dirigenti e membri sindacali, compresi arresti, restrizioni alla libera circolazione, rifiuto di registrare i sindacati per renderli illegali, licenziato la maggior parte degli alti giudici del paese che avevano adottato decisioni a favore del sindacato nel febbraio del 2016, e negato al FESTU il diritto di rappresentare i lavoratori nelle piattaforme tripartite. La Corte suprema della Somalia e l’OIL hanno appoggiato la richiesta che il governo dichiari legittima la dirigenza del NUSOJ e del FESTU riconosciute a livello internazionale e fermi gli attacchi contro i sindacati.


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Rana Plaza: Unions can save lives as well as livelihoods

21 Apr 2017, By

fonte strongerunions.org 

As we approach the 4th anniversary of terrible tragedy at Rana Plaza in Bangladesh, it’s important to hold on to the sense of shock we all had when we heard that over a thousand workers, full aware that their building was unsafe, went to work as usual so they wouldn’t lose their jobs, and instead lost their lives.

It’s important to remember because it’s this reality that drives the campaigning from unions around the world for fundamental rights. The fact is, unions can save lives, as well as livelihoods, where workers have the right to join them.

It’s also important because the government of Bangladesh seems to need reminding.

In the aftermath of Rana Plaza, unions both on the ground in Bangladesh and internationally, were involved in the creation of the Bangladesh Accord on Fire and Safety, an agreement between brands sourcing from Bangladesh and trade unions to systematically drive improvements to working conditions, with democratically elected workers’ representatives a key part of the monitoring process and the right for workers to refuse to enter unsafe premises.

As Owen Tudor noted last week, unions and their members now have a stronger voice in confronting unsafe conditions, making Bangladesh safer for workers and a better investment for brands seeking suppliers free of the taint of human rights abuse.

Instead of being rewarded for this, this year Bangladesh’s unions have been persecuted. The government and the country’s employers spent the first few weeks of 2017 sweeping up trade union leaders and activists under a range of flimsy charges, clearly looking to break the growing influence of unions.

The good news is that it soon became clear that they had miscalculated. A concerted international campaign by unions, soon backed by key brands and a threatened boycott of a prestigious employer summit, spooked the government into releasing the trade unionists and pledging to drop the charges against them. It also meant, in order to fix the mess they’d got themselves into, the government found themselves sitting around table with Bangladesh unions, in the country’s first formal tripartite talks. Far from being crushed, the unions are now suddenly formal social partners.

The government, however, is slow to learn, and whispers suggest that it is keen to reduce the scope of the Accord when its remit comes up for review. The next battle will be to keep the full range of powers the Accord can wield in intervening in dangerous workplaces, and its contribution to protecting the role of trade unionists as whistle blowers.

This weekend, a new international effort – again backed by global unions – is launched, looking to make it easier for unions to work with companies to ensure that fundamental workers’ rights are respected in their supply chains. The Transparency Pledge looks to change the secretive and complex nature of international sourcing by persuading companies to publish details of where they get their products, just as those signed up the Accord do. So far 17 companies have agreed to the terms of the pledge, but there’s a long way to go.

However, it’s clear that for all that the government is keen to forget it, the haunting memory of Rana Plaza continues to be a stark reminder of why workers need unions.

Madagascar: Portuali licenziati per aver aderito a un sindacato

In collaborazione con l’International Transport Workers Federation, federazione sindacale globale formata da 690 sindacati che rappresentano circa 4.5 milioni di lavoratori del settore del trasporto in 153 paesi.

 

I portuali del Madagascar si battono per i loro diritti. Sono stati licenziati per aver aderito al sindacato che lotta per porre fine al lavoro precario, al salario basso e a condizioni di lavoro insicure. Nel mese di marzo, i sindacati di tutto il mondo hanno consegnato lettere ai consolati del Madagascar chiedendo giustizia per quei lavoratori ai quali deve essere permesso di ritornare al lavoro. Centinaia di persone hanno consegnato direttamente il messaggio, inviandolo via e-mail al governo del Madagascar nel quale chiedono che siano applicate con urgenza le leggi del lavoro e che siano difesi i diritti dei lavoratori. Il 3 aprile del 2017, l’ITF, l’ITUC, e il sindacato dei lavoratori SYGMMA hanno presentato una denuncia all’OIL a nome dei 43 portuali.

Difenderete i portuali del Madagascar e invierete ora al ministro del Lavoro del Madagascar per assicurare che applichi le leggi locali del lavoro e reintegri questi lavoratori?

Guardate il video

PER ADERIRE ALL’APPELLO VAI ALLA FONTE  ACT NOW!

Le autorità del Kazakhstan hanno lanciato di recente una repressione su vasta scala contro dirigenti e attivisti dei sindacati indipendenti nella parte occidentale del paese.


Nel mese di gennaio, funzionari delle autorità locali e la direzione della società per servizi petroliferi, OCC, hanno cercato di soffocare una pacifica protesta di massa dei lavoratori. Questa società fa parte della KazMunaiGas, la più grande società petrolifera e di gas del Kazakhstan.

Hanno arrestato due dirigenti sindacali Amin Yeleusinov e Nurbek Kushakbayev. Sono stati accusati in base al codice penale repressivo di aver indetto uno sciopero.

Agli inizi di aprile,  Kushakbayev è stato condannato a due anni e mezzo di lavori correttivi in una colonia.

Il giudice ha, inoltre, sostenuto la richiesta di indennizzo della società per un valore di circa 80.000 dollari per presunti danni.

L’OCC ha avviato licenziamenti di massa dei lavoratori che hanno partecipato alle proteste.

Questo è scandaloso e dobbiamo denunciarlo.

Insieme alla Confederazione Internazionale dei Sindacati e al sindacato globale, IndustriaALL, abbiamo lanciato una campagna online con la quale chiediamo che la società ritiri le sue richieste di indennizzo, fermi la repressione e avvii il dialogo con i lavoratori.

Per favore, dimostrate il vostro sostegno cliccando qui:

https://www.labourstartcampaigns.net/show_campaign.cgi?c=3425

Per favore, condividete questa campagna con i vostri amici, parenti e colleghi del sindacato.

Grazie

Eric Lee

PIERFRANCO PELLIZZETTI – Disintermediazione: come sbaraccare 150 anni di lotte del lavoro

PIERFRANCO PELLIZZETTI – Disintermediazione: come sbaraccare 150 anni di lotte del lavoro

fonte MICROMEGA

ppellizzettiI pappagalli modernisti, quelli che ti ripetono la giaculatoria per sentito dire sulla potenza della rete, spiegandoti che non sei sufficientemente aggiornato in materia di rivoluzione grillina del web, bisognerebbe che venissero a loro volta informati di una verità sconvolgente: i vettori del cambiamento non sono solo tecnologici ma anche organizzativi. Difatti, se tale messaggio fosse arrivato a destinazione, ci saremmo risparmiati l’ennesimo tormentone lessicale d’appartenenza, ad opera delle pedisseque casse di risonanza del Verbo di Sant’Ilario (rimaneggiato dallo staff di linguisti asserragliati nella milanese via Gerolamo Morone): vaffa… rosiconi… click-democrazia… Ora “disintermediazione”.

Un secolo e mezzo di lotte del lavoro gettate impunemente e con disprezzo nel cassonetto della storia. Estrema superficialità o spurgo di umori reazionari?

Quanto gli ideologi a Cinquestelle chiamano “disintermediazione”; ossia taglio delle bardature burocratiche che condussero all’asfissia l’età socialdemocratica-welfariana (preparando l’avvento della controrivoluzione neo-liberista che oggi fornisce l’orizzonte culturale dei managerial-efficientisti alla Davide Casaleggio; quelli per cui “o ti adegui precarizzandoti oppure ti becchi stipendi da fame cinese”), trascura un particolare non da poco: l’atomizzazione delle moltitudini, all’insegna del thatcheriano “la società non esiste”, non è altro che l’abile tattica con cui si è messo fuori gioco il movimento operaio novecentesco. Ossia la consapevolezza che il rapporto squilibrato, in termini di risorse a disposizione e forza contrattuale, tra datore di lavoro e lavoratore poteva essere sanato nella sua prevaricatoria asimmetria soltanto grazie all’aggregazione dei molti senza potere. Un processo storico che ha incivilito la società attraverso quelle che Luigi Einaudi chiamava “le lotte del lavoro”, prima nella fase del mutualismo proletario e poi della sindacalizzazione.

Ma a Beppe Grillo e i suoi ghost-writer il sindacato non piace, come non piaceva a Matteo Renzi, confermando la matrice piccoloborghese della loro cultura. Dunque, non critica della rappresentanza nelle sue patologie (sacrosanta per via delle derive professionali a tendenza castale che infestano le strutture organizzative del lavoro, producendo intollerabili e costosissimi privilegi), bensì sbaraccamento dell’idea stessa di un contropotere che tragga forza dal consenso dei ceti più deboli; di quel lavoro che continua a essere una colonna portante della società, anche se la restaurazione plutocratica di questo quarantennio tende a oscurarlo come soggetto politico collettivo. Ma che terrorizza soprattutto i neoborghesi, il ceto che si è arricchito nelle praterie deregolate dell’Italia a partire dagli anni Ottanta (la stagione del CAF, il concerto Craxi-Andreotti-Forlani, del saccheggio del pubblico denaro), che se ne sentono minacciati dalle sue aspirazioni egualitarie. D’altro canto se si era tamarri allora, si resta sempre tamarri, anche se ripuliti (e magari con villa sulla collina VIP ai confini di Genova).

Visto che si continua a parlare e sproloquiare di democrazia, si dovrebbe avere ben chiaro il concetto liberale che questo modo di “fare società” si basa sulla dinamica (spesso conflittuale) della competizione tra soggetti e interessi. Il suo contrario è l’autocrazia, in cui qualcuno – Uomo Forte o Garante – decide per le moltitudini ridotte a greggi di pecoroni. All’insegna del “fidatevi”. Un diktat subliminale che si accompagna allo sbaraccamento di ogni corpo intermedio; anche stavolta in singolare simmetria con il fallimentare riformismo renziano (e i maldestri tentativi di normalizzazione del ventennio berlusconiano). In un paese dove l’egemonia della cafonaggine neo-borghese diventa devastazione civile.

Pierfranco Pellizzetti

(11 aprile 2017)

Le barricate, i voucher e l’ideologia: una risposta a Di Vico

fonte MICROMEGA

È utile rispolverare gli strumenti dell’istruzione liceale, come l’analisi del testo, di fronte agli editoriali che si ripetono sulla stampa italiana. Ad esempio quelli di Dario Di Vico sul Corriere della Sera. L’ultimo si scaglia contro la decisione della CGIL di portare avanti la campagna referendaria per l’abolizione dei voucher nonostante il tentativo governativo di disinnescare il voto.

La colpa della Cgil e di chi si ostina a pensare che i voucher vadano aboliti è quella di “di abbattere ponti [invece] che cercare soluzioni”. Quei ponti – ci spiega Di Vico – creati dalla crisi che ha unito lavoratori e imprese contro “il capitale finanziario, la competizione al ribasso indotta dalla globalizzazione e l’incapacità politica di trovare soluzioni”.

Finanziarizzazione dell’economia, competizione al ribasso e scelte politiche non sono eventi naturali e imprevedibili. La corsa delle imprese alla finanziarizzazione capace di creare più velocemente e senza ostacoli rendimenti per i proprietari (o azionisti), ma anche per tutti quei manager addetti a questa funzione e retribuiti in base a questi risultati, è stata una scelta ben precisa del tessuto produttivo italiano, europeo, internazionale. Se poi anche nella finanza si son creati monopoli, dispiace per Di Vico, ma è il capitalismo, bellezza!

Nel frattempo le stesse imprese prima durante e dopo la crisi non hanno trovato utile recuperare il ritardo sul fattore maggiormente obsoleto in Italia, il capitale (produttivo): macchinari, impianti, strutture produttive, mentre si chiedeva l’abolizione dell’articolo 18, la liberalizzazione dei contratti a termine. La politica ha presto trovato soluzioni: via con la riforma Fornero, via col Decreto Poletti, con la Garanzia Giovani, col Jobs Act e dulcis in fundus l’alternanza scuola-lavoro.
Il costo del lavoro non è solo sceso, ma è stato praticamente abbattuto accompagnando licenziamenti, tagli ai diritti e lavoro sempre più povero quando non gratuito.

Intanto, le scelte della politica da un lato producevano tagli al welfare, alla Naspi ai fondi per l’assistenza sociale, dalla scuola alla sanità, dall’altro regalavano miliardi alle imprese per stabilizzare un po’ di contratti, tagliavano l’Imu su tutte le prime case anche quelle milionarie (che solitamente non sono di proprietà dei lavoratori) e, per non farci mancare niente, hanno con l’ultima legge di stabilità ridotto l’Ires, la tassa sui profitti. In modo uguale per tutti. Ma pare che alle imprese non importa di esser trattate tutte in egual modo pur essendo molto differenti, la progressività, la giustizia sociale, queste sconosciute.

Insomma, la barricata comune di cui parla Di Vico nella realtà non esiste.

Al contrario, l’ideologia – che dice essere protagonista di una scena passata, scongiurandone il ritorno- è sempre stata viva e quella attualmente dominante ha lottato contro i lavoratori. Ci vuole una buona dose di falsa coscienza per non riuscire ad ammettere che l’evoluzione economica e politica è frutto di una precisa ideologia: quella neoliberista. La stessa che storicamente viene riassunta con le parole di Margaret Thatcher, “la società non esiste, esistono solo gli individui”: tutti contro tutti, ognuno è responsabile del proprio destino della propria fortuna e della propria miseria (economica, sociale e politica). Quell’ideologia che erige a religione la flessibilità nel lavoro, che sbandiera la superiorità del privato (o come piace chiamarlo per de-soggettivizzarlo, il mercato) sul pubblico. Quell’ideologia per cui solo le imprese possono creare lavoro, per cui l’istruzione e la salute non sono beni pubblici a garanzia dei diritti di cittadinanza, o meglio dei diritti umani, ma spettano a una élite, quella che ha la possibilità di pagare (e sempre di più) per questi beni e servizi.

Per fare un esempio concreto di come questa ideologia ha operato è possibile fare riferimento proprio ai referendum e in particolare quello sugli appalti. L’esternalizzazione sempre più massiccia di pezzi del settore pubblico a imprese, cooperative e chi più ne ha più ne metta – in base alla duplice ossessione del: bisogna tagliare la spesa e bisogna che se ne occupi il mercato – ha nella realtà generato maggiori costi sia per lo Stato sia per i cittadini, ha sostenuto tutti gli espedienti volti ad abbattere il costo del lavoro: cooperative che non rispettano i contratti nazionali, che convenientemente decidono di sparire e non retribuire i lavoratori. I servizi pubblici sono diminuiti sia in quantità sia in qualità, ma il loro costo è aumentato, escludendo dalla loro fruizione proprio coloro che ne hanno maggiore diritto perché più vulnerabili, perché semplicemente non possono permettersi la baby sitter h24 o la clinica privata per un’otturazione ai denti.

Da qui è quindi possibile rivendicare che la questione referendaria non riguarda esclusivamente la Cgil e un pezzo di politica parlamentare, ma riguarda tutto quel pezzo di società spogliata (quando non palesemente derubata): lavoratori, studenti, disoccupati.

Ed eccoci ai voucher, strumento nato e vissuto nella piena incostituzionalità (si vedano anche soltanto gli articoli 35 e 36 della Costituzione). Le proposte avanzate dal governo eludono sostanzialmente la questione di fondo che è alla base di una rivendicazione (forse ancora fin troppo silenziosa): non è possibile ammettere che esista lavoro senza diritti. Inoltre, anche il lavoro domestico (o le ripetizioni) per quanto accessorio (tutto da verificare) non esclude la subordinazione. Se chi decide quando, quanto, dove e come si lavora non è il lavoratore allora quest’ultimo è subordinato alle decisioni altrui, da cui evidentemente dipende. Perché se le famiglie non riescono a conciliare vita e lavoro e non riescono a pagare dignitosamente chi le aiuta, il problema probabilmente è che le famiglie si sono impoverite, che i tempi di lavoro si sono allungati a parità di salari, che gli asili nido non esistono e così via.

Non è inoltre chiaro come mai categorie già di per sé più marginali nel mercato del lavoro, quelle a cui si vuole restringere l’uso dei voucher, debbano continuare a vivere nella marginalità. I voucher escludono non soltanto diritti come ferie retribuite, diritto al cumulo per gli assegni di disoccupazione, diritto alla malattia retribuita, ecc ecc, ma con una contribuzione previdenziale pari al 13% viene anche negato il diritto a una pensione degna (se mai l’avranno in generale). Ancora, i voucher non danno diritto all’assegno di ricollocazione, quel baluardo delle politiche attive tanto agognate da certi commentatori.

Temi che ovviamente non riguardano solo i lavoratori voucherizzati, ma tutto il mondo del lavoro, a parte quei pochi manager o AD di giornali, dirigenti vari sui quali lo stravolgimento del diritto del e al lavoro non è mai stato messo in discussione. E non è un caso perché l’ideologia ha bisogno di gambe, braccia e voci per diventare egemonica.

(15 marzo 2017)

vedi originale e commenti su MICROMEGA

Mining: initial study shows trade unions save lives

Mining: initial study shows trade unions save lives

fonte  INDUSTRIEALL

14.03.2017

The findings of a preliminary study have confirmed IndustriALL Global Union’s global campaign message on mine health and safety – trade unions save lives.

New research has found strong evidence that health and safety representatives supported by a trade union were more effective in getting important safety matters addressed and resolved than health and safety representatives acting on their own.

The comparative research project, led by Professor David Walters from Cardiff University, was based on the experiences of worker health and safety representatives in five countries: Australia, Canada, India, Indonesia and South Africa. The research involved interviews with trade unions nationally and regionally, miners, and government inspectors, as well as other key parties.

The research also showed that mine management is not playing its facilitation role, and as a result health and safety representatives are denied the benefits of that support.

“This welcome research reinforces our message that trade unions play a critical role in health and safety awareness and training. We believe that workers have rights, employers an obligation and governments a responsibility to improve safety in mining,” said IndustriALL’s Mining Director, Glen Mpufane.

The present global research report, which is the first of a two stage research project, represents an initial scoping study concerned with the role of worker representation in mines in a range of national economies and how that role is supported or constrained locally, nationally and globally.

The study seeks to determine how the four basic health and safety worker rights contained in International Labour Organziation’s (ILO) Convention 176 are encouraged or restricted. These four basic worker rights are:

  1. The right to refuse to do dangerous work.
  2. The right to education and training.
  3. The right to information.
  4. The right to representation and participation.

The authors of the research, Professor Walters, and Professor Richard Johnstone from the Faculty of Law at Queensland University of Technology/Australian National University delivered the preliminary findings at an FES funded workshop on 7 March held in Johannesburg, South Africa. The workshop, organized by the University of the Witwatersrand’s Centre for Sustainability in Mining and Industry, together with IndustriALL, was attended by health and safety representatives and officials from the National Union of Mineworkers (NUM), National Union of Metalworkers of South Africa (NUMSA), the ILO’s East and Southern Africa Office, the Chamber of Mines of South Africa, and health and safety training practitioners.

Tumori da esposizione in ambiente di lavoro, Bruxelles complice dell’industria.

 

Per aggiornare la  direttiva sulla protezione dei lavoratori contro l’esposizione alle sostanze cancerogene che sono la causa ogni anno di 100.000 decessi, la Commissione ha deciso di fare riferimento ad esperti in maggioranza legati alle industrie multinazionali.

Un’intervista del quotidiano francese le Monde a Laurent Vogel di ETUI e ad altri esperti mette in evidenza la disinvoltura con la quale la Commissione affida nei fatti la redazione degli aggiornamenti della Direttiva su cancerogeni ad esperti che sono espressione delle multinazionali della chimica e del petrolio.
Il testo della Direttiva che costoro stanno preparando è una vergogna affermano diversi esperti: il valore proposto per il cromo esavalente, ad esempio, è venticinque volte superiore a quelli attualmente praticato in Francia.
“Valori limite molto elevati aprono la strada a veri e propri disastri, afferma Laurent Vogel. I lavoratori hanno l’illusione di essere protetti, in pratica questi valori limite si trasformano in una autorizzazione ad uccidere accordata alle imprese”. a
Questo vale anche per il valore limite della silice cristallina che per i sindacati dovrebbe essere, sulla base di studi epidemiologici e d’igiene industriale USA, 0,05 mg/m3 mentre gli esperti della Commissione prevalentemente di parte padronale propongono 0,1 mg/m3.Il valore limite prop osto da ETUC salverebbe in Europa 100.000 vite nei prossimi 50 anni.
Molti di questi esperti sono professionisti che lavorano per le multinazionali che avranno grandi risparmi se dovessero divenire norma le loro proposte.
La Commissione di Monsieur Junker afferma, sempre con amabile disinvoltura, che questi “esperti” non risultano essere in palese conflitto d’interessi rispetto alle proposte che stanno avanzando di “aggiornamento” della Direttiva Cancerogeni.
Se dovessero passare queste proposte dovremo registrare nei prossimi anni un peggioramento delle condizioni di salute di migliaia di lavoratori: per davvero se si vuole salvare l’idea stessa d’Europa occorre allontanare dalle istituzioni europee i burocrati e i politici idioti che hanno costruito il contesto di questo panel di esperti filopadronali che hanno un’unica mission, fare “rispamiare” miliardi di euro alle imprese, esponendo i lavoratori a gravissimi rischi per la salute.

Il degrado culturale, scientifico e politico che emana da questa vicenda ancora una volta alimenterà il sentimento antieuropeo e offrirà ulteriori argomenti ai populisti  : complimenti Mister Junker, un vero capolavoro !  editor

( Una piccola nota: la stampa italiana presa dalle vicende borgatare del PD ha bucato completamente questa notizia che riguarda il patrimonio di salute di qualche milione di lavoratori e lavoratrici. Amen )

L’ARTICOLO LE MONDE 25 FEBBRAIO 2017

Ungheria: sindacalisti del settore pubblico licenziati in un attacco senza precedenti

In collaborazione con MASZSZ, la più grande confederazione sindacale in Ungheria che rappresenta i lavoratori del settore privato e pubblico ed è affiliata alla CES e alla CIS.

Il 13 gennaio, durante il ciclo di negoziati salariali, sono stati licenziati 4 sindacalisti dall’amministratore delegato della Fővárosi Közterület-fenntartó Nonprofit – FKFZrt (Società di capitale per la manutenzione del settore pubblico). I rappresentanti sindacali hanno chiesto un aumento di salario equo ed hanno manifestato la loro disponibilità a ricorrere allo sciopero a causa della disaffezione dei lavoratori. Come risposta, István Csontos, amministratore delegato della società per la gestione dei rifiuti, della pulizia e dell’igiene delle aree pubbliche nella capitale Budapest, non solo ha licenziato 4 colleghi, ma li ha anche chiusi fuori dagli uffici del sindacato. András Király, segretario del sindacato aziendale, uno dei sindacalisti licenziati e, inoltre, presidente del Sindacato dei Lavoratori Municipali HVDSZ2000 e membro del presidio del MASZSZ. Il sindacato, con l’aiuto del MASZSZ e delle organizzazioni sindacali affiliate, continua a cercar e un modo per risolvere il conflitto. Questo atto rappresenta una misura che non ha precedenti in una società pubblica del settore pubblico. I sindacalisti ungheresi temono che questo atto stia aprendo una nuova era di condotta antisindacale nel Paese.

Vai ad Act Now per sottoscrivere l’appello  ACT NOW