Migranti. Forenza: “servono una mobilitazione di massa e un’informazione corretta”

FONTE ARTICOLO21.0RG

 

Migranti. Forenza: “servono una mobilitazione di massa e un’informazione corretta”

Gli eurodeputati Eleonora Forenza di Rifondazione Comunista, Miguel Urban di Podemos, Javier Lopez del Psoe e Ana Miranda del Bloque Nacionalista Gallego si trovano a bordo delle navi Astral e Open Arms della ong spagnola Proactiva. Abbiamo rivolto alcune domande a Eleonora Forenza.

Che cosa ti proponi con questo viaggio?
Il viaggio mio e degli altri tre europarlamentari intende testimoniare il lavoro che fanno le ONG come Open Arms, drammaticamente criminalizzate mentre salvano vite.

Com’è la situazione in questo momento?
In questo momento stiamo viaggiando con due navi, la Open Arms, che ha 60 persone a bordo e l’Astral. Ci troviamo nella zona SAR (ricerca e salvataggio) al largo delle coste libiche.

Cosa possono fare a tuo parere i politici anti-razzisti, la società civile e il giornalismo indipendente x contrastare l’offensiva sempre più violenta contro migranti e Ong?
Credo vada fatta quanta più informazione corretta possibile, ricordando che la priorità sono le vite delle persone, contro la propaganda xenofoba di tanti governi europei, compreso quello italiano. Penso che occorra anche una mobilitazione pubblica di massa, come quella dei primi anni 2000. Dobbiamo farlo per le persone migranti e anche per noi. Per restare umani.

Francia: Ieri un’altra grande giornata di sciopero in Francia. Oggi la polizia sgombera Tolbiac

 Fonte Dinamopress

Continua lo sciopero francese con adesioni e numeri di piazza altissimi. Questa mattina il governo Macron ha lanciato la sua durissima controffensiva sgomberando la sede universitaria di Tolbiac

In Francia prosegue la lotta su più fronti contro il governo e le politiche di Macron che ha lanciato un’offensiva a 360 gradi contro tutto il settore pubblico, dai trasporti della SNFC all’Università, dalla loi asile et immigration al tentativo di sgombero della ZAD. Macron ha rivelato il suo vero volto neoliberale che unisce privatizzazione selvaggia e conservatorismo estremo –peggio di Le Pen, si dice nelle piazze. Ecco di quale “guerra civile europea” sta parlando.

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Bruno Giorgini: Bologna. Il democristiano Casini contro il riformista Errani

 

 

Nella notte in cui il PD affonda, Renzi è riuscito nel capolavoro di portare alla vittoria Pier Ferdinando Casini, democristiano DOC, contro Vasco Errani purosangue del riformismo emiliano. Casini che si è fatto fotografare in una casa del popolo avendo alle spalle le foto di Togliatti, Di Vittorio, Gramsci, Matteotti e al collo la sciarpa del Bologna: si potrebbe dire uno che ha la faccia come il c…ma nonostante il tetragono popolo del PD bolognese ha obbedito, votando come da ordini superiori Casini primo con oltre il 30%.

Errani invece cha a pieno titolo incarnava una continuità di buon governo attento anche alle classi subalterne, seppure sempre più tenue passando gli anni, si è fermato sotto il 10%.

Nel mezzo tra Errani e Casini si collocano la candidata del centrodestra Elisabetta Brunelli al 28%, e quella dei cinque stelle Michela Montevecchi attorno al 25%. Come dire: la ciliegina sulla torta. Forse i dirigenti del PD non se ne sono accorti ma c’è una paradossale perversione e una oscuratezza della ragione nella scelta di Casini come alfiere del riformismo nel corso del tempo prima socialista e comunista, quindi democratico, intessuto di cooperative, case del popolo, camere del lavoro, sindacati, movimenti più o meno di massa cui Pier Ferdinando è del tutto estraneo se non spesso ostile come qualunque bolognese sa e ricorda.

Questa scelta certifica in modo simbolico e insieme eclatante la vera e propria mutazione genetica del PD ormai compiuta che ha sciolto qualunque, sia pur vago, legame con le classi subalterne, per diventare compiutamente un partito coerente con gli interessi delle classi dominanti nella forma che già fu propria della Democrazia Cristiana. Soltanto che i modi dell’organizzazione capitalista sono nel frattempo cambiati in profondità e del PD per quanto succube alle logiche del mercato non sembra esserci gran bisogno per il governo in funzione del profitto.

Non a caso nell’intera Emilia Romagna collegio dopo collegio i candidati del PD sono in bilico o perdono, anche pezzi da novanta come il ministro Franceschini a Ferrara sconfitto dall’illustre sconosciuta Maura Tomasi candidata dal centrodestra. Lo stesso accade a Rimini o a Piacenza, e complessivamente in tutta l’Emilia il centrodestra ottiene più voti del centrosinistra, con la Lega che ovunque supera Forza Italia arrivando attorno al 20%. Un risultato ben oltre le previsioni di tutti gli osservatori. Insomma tra le tante cose che queste elezioni hanno fatto emergere, c’è anche la scomparsa dell’Emilia rossa, per circa un secolo o giù di lì fiore all’occhiello del riformismo progressista.

Se questo segni l’interruzione più o meno lunga oppure la fine di questa forma politica, è difficile dire. Certamente se ancora una dimensione di sinistra si vuole costruire nella società, ebbene bisognerà pensare un nuovo inizio, ricominciando da zero, nè più nè meno. Perchè come nel corso della notte ha detto una amica commentando i dati, “questa penso è una delle sconfitte più grandi che le menti più illuminate potessero darsi”.

Strange Fruit

FONTE CARMILLAONLINE

di Alessandra Daniele

PD.jpgDurante le funeree celebrazioni per il decennale del PD, Renzi ha respinto con tono indignato l’accusa di fascismo, protestando ancora una volta la natura democratica e addirittura progressista del suo partito, che è sempre stato il principale rappresentante italiano dell’oligarchia politico-finanziaria che sta trascinando il pianeta alla rovina.
Come dice anche la Bibbia, l’albero si riconosce dai frutti.
E il sedicente centrosinistra italiano è un albero che produce strani frutti da sempre. Dalla Prima Repubblica, col consociativismo spartitorio DC-PCI e la cosiddetta solidarietà nazionale antiterrorismo che produsse le leggi speciali, alla Seconda Repubblica della definitiva fusione fra i resti di PCI e DC.
Il primo governo Prodi fruttò la precarizzazione del lavoro con la legge Treu.
Il successivo governo D’Alema (colui che adesso si proclama l’ultimo strenuo difensore della sinistra) fruttò la criminale partecipazione dell’Italia alla guerra nella ex Jugoslavia, col bombardamento di Belgrado.
Negli ultimi sei anni nei quali è stato al governo con la destra berlusconiana, il PD ha proseguito l’operazione di sistematica cancellazione dei diritti dei lavoratori, tentando ripetutamente di smantellare la Costituzione antifascista, continuando a partecipare a tutte le guerre neocoloniali disponibili, e finanziando campi di concentramento per la Soluzione Finale del problema immigrazione.
Strani frutti. Gli stessi del pezzo blues di Billie Holiday Strange Fruit sulle vittime impiccate dei linciaggi razzisti.

Blood on the leaves and blood at the root
Black bodies swinging in the southern breeze

È questo il partito per il quale gli scissionisti da riporto dell’MDP si offrono di provare a recuperare una manciata di voti, in cambio d’una scodella sotto al tavolo dei vincitori.
Riverito ospite dalla Gruber, questa settimana Matteo Renzi ha insistito a definire il PD un partito di sinistra. Di tutte le cazzate che ha raccontato nella sua carriera, questa è la più grottesca.
Il Cazzaro ha fallito il compito che gli era stato affidato di liquidare la Costituzione, e ora lo stesso establishment che aveva orchestrato la sua ascesa sta cercando di sostituirlo col più efficiente duo Gentiloni-Minniti. La rissa in Viscoteca Bankitalia che imbarazza il governo è quindi uno scontro tutto interno al sistema di potere rappresentato dal PD, e chiunque lo vincerà a perdere saremo noi.
E continueremo a perdere, finché l’albero degli impiccati non sarà finalmente abbattuto.

VITE DA NABABBI PER I PENSIONATI di Franco Di Giangirolamo

 

Negli ultimi anni ci si imbatte sempre piu´spesso in interviste televisive e radiofoniche, articoli sui giornali, video sui social attraverso i quali si propaganda, di fatto, una moderna corsa all´oro con immagini esotiche di pensionati goderecci, stravaccati su spiagge da sogno, finalmente felici in localita´dove la vita non costa niente e la si puo´sostenere con i soldi che il fisco in Italia ti avrebbe sottratto. Sono fiorite decine di agenzie specializzate nella organizzazione di queste fughe senili, centinaia di siti web dove ci si aiuta, organizzazioni piu´o meno solidali di „italiani in…..“. L´Eldorado pare sia stato trovato!!! Altro che lotte sindacali!!!
Premesso che ritengo assolutamente rispettabile la scelta dei pensionati, di andare dove vogliono e quando vogliono, vorrei ridimensionare il primo effetto di questo fenomeno tutt´altro che nuovo: l´eccesso di illusioni.
Naturalmente mi rivolgo a coloro che non hanno compreso bene l´insegnamento di Collodi sul Paese dei Balocchi!
Partiamo dalle cifre. Il numero delle pensioni pagate all´estero non corrisponde al numero dei pensionati italiani che hanno migrato all´estero. La confusione e´grave perche´ le prime ammontano negli ultimi dieci anni a circa 500.000, mentre i secondi ammontano a 36.578 nel periodo dal 2003 al 2014. Nello stesso periodo sono rientrati dall´estero 24.857 emigrati, per cui la catastrofe fiscale che questi scellerati migranti starebbero determinando, secondo alcuni patriottici commentatori e´una stupidaggine allo stato puro, se si pensa che il totale dei pensionati italiani erano nel 2014 la bellezza di oltre 16 milioni.

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La nave dei folli ricorda la politica italiana

di Gustavo Zagrebelsky su La Repubblica – 6 giugno 2017

GLI INTERESSI DI BOTTEGA

Chi sa perché si debba chiudere la legislatura qualche mese prima della normale scadenza e votare in autunno? Se ce lo chiediamo, non sappiamo rispondere. Se lo chiedessimo, non avremmo chiare risposte. Infatti, non ci sono ragioni evidenti e, in mancanza, la stragrande maggioranza dei cittadini interpellati è per la prosecuzione fino alla scadenza naturale: c’è un governo, ci sono leggi importanti da approvare definitivamente, ci sono scadenze legislative importantissime da rispettare in materia finanziaria, ci sono rischi per la tenuta dei conti pubblici, ci sono apprensioni per le conseguenze di possibili violazioni dei parametri europei di stabilità finanziaria, per non parlare dei rischi della speculazione internazionale.

Vorremmo una risposta che riguardi non gli interessi di questo o quel partito in Parlamento e nemmeno di tutti o della maggior parte dei partiti, ma il bene del nostro Paese, quello che si chiama il “bene comune”. Nel nostro sistema costituzionale, a differenza di altri, non è previsto l’auto-scioglimento deciso dai partiti per propri interessi o timori. La durata prefissata e normale della legislatura (cinque anni) è una garanzia di ordinato e stabile sviluppo della vita politica.

La “STABILITÀ” è stato il Leitmotiv invocato quando faceva comodo, anche quando si sono rese evidenti ragioni oggettive di scioglimento delle Camere, come dopo la dichiarazione d’incostituzionalità della legge elettorale, all’inizio dell’anno 2014.

Una risposta istituzionale non c’è. Ci sono anzi molta ipocrisia e reticenza che nascondono ragioni che sono, infatti, di mero interesse partitico. Da parte del maggior partito di maggioranza, il Partito democratico, si dice che votare in autunno o alla scadenza normale nella primavera dell’anno venturo non fa una grande differenza, ma poi si lavora forsennatamente a una legge elettorale nuova per andare al voto il più presto possibile.

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Angela Giordano, Non ho visto niente. Sul come essere No Tav comporti perdere il lavoro

FONTE CARMILLAONLINE  CHE RINGRAZIAMO 

 

Angela Giordano, Non ho visto niente. Sul come essere No Tav comporti perdere il lavoro, Sensibili alle Foglie, 2017, p. 95.

A giudicare dal suo sito web e dagli articoli entusiasti della Stampa, la casa circondariale ‘Lorusso e Cutugno’ di Torino deve essere proprio un gran bel posto dove stare: impianti sportivi, occasioni di lavoro, sale mense progettate da “interior designers”, cene con chefs stellati ….
Verrebbe quasi voglia di farsi arrestare apposta per poterne vivere l’esperienza !

Prima di compiere l’apposito reato ritengo però opportuno ascoltare  la testimonianza diretta di chi ha avuto, a vario titolo, l’occasione di entrarci, per misurare se non vi sia una certa distanza fra l’immagine e la realtà.

Angela Giordano per quattro anni, fino al settembre 2015, ha attraversato quei cancelli in qualità di educatrice a partita IVA in ‘sub-convenzione’ – in convenzione, cioè  con una realtà associativa a sua volta convenzionata con l’amministrazione penitenziaria.
Angela lavorava nel ‘Blocco E’, all’interno della sezione a custodia attenuata ‘Arcobaleno’, dove il Dipartimento Dipendenze della ASL torinese gestisce un programma terapeutico rivolto a detenuti con dipendenza da sostanze stupefacenti, alcol e gioco d’azzardo.
Un settore che ha una funzione delicata, a cui la Direzione carceraria  – come recita il sito istituzionale del ‘Lorusso e Cutugno’ – ha dedicato a suo tempo del personale ad hoc, accuratamente scelto fra gli agenti di Polizia Penitenziaria “particolarmente sensibili al progetto e disposti a lavorare in equipe, cercando di creare un clima favorevole al percorso terapeutico del detenuto”. Sentiamo come viene descritto da Angela questo ‘clima’:

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Leggi, etica o pragmatismo?

fonte pressenza.com

01.05.2017 Olivier Turquet

Leggi, etica o pragmatismo?
(Foto di HRC)

Ogni giorno assistiamo a uno strano fenomeno, in intensificazione: ciò che erano incontrovertibili certezze, capisaldi della morale, della legislazione internazionale, perfino del semplice buon senso perdono improvvisamente di valore.

Ci aspettavamo, per esempio, reazioni indignate degli stati all’insensato bombardamento della base militare siriana, credevamo ovvio una presa di distanza della Comunità Europea sulla pretesa di risolvere problemi lanciando la “madre di tutte le bombe”, attendevamo una ferma protesta e un ritiro di ambasciatori nel protrarsi dell’illegale detenzione di Gabriele del Grande in Turchia…

Aspettavamo invano.

Siamo cresciuti in un mondo dove Leggi e Convenzioni avevano il massimo rispetto; non sempre ci siamo trovati d’accordo con quelle leggi e quelle convenzioni ma lo stesso atto di contestarle era un atto di riconoscimento delle medesime. Le leggi, le convenzioni e il buon senso sono state il cemento di un certo mondo di cui stiamo sempre più perdendo le tracce.

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Immagini della manifestazione del 1° maggio a Berlino

Una grande manifestazione popolare con persone di tutte le età

Molte ragazze e ragazzi, giovani papa e mamme con bimbi in carrozzina

 

Un berlinese con barba s’avanza con passo

prussiano

Il sindaco Muller partecipa alla manifestazione

Ancora bimbi e mamme

La banda IGM. 100 decibel garantiti

 

L’ultima birra della serata prima del ritorno  a casa

Per una rete di informazione nonviolenta

FONTE PRESSENZA.COM

Per una rete di informazione nonviolenta

29.04.2017 Redazione Italia

Per una rete di informazione nonviolenta
(Foto di Cesare de Stefano via Flickr)

Durante la riunione della redazione di Pressenza, pochi giorni fa, abbiamo dibattuto con vari amici sul tema di come dare risposta a un sistema mediatico (il coriddetto mainstream) che sta diventando in molti casi sempre più orientato dalla propaganda, cercando di imporre un modello basato sul nichilismo, sul profitto, la legge del più forte e, in sintesi, la violenza.

Ci siamo riletti questo materiale che avevamo elaborato tempo fa e che riprodiuciamo qui sotto e che vuol essere una specie di manifesto per costruire, con più forza, quella rete che già esiste tra media, associazioni, comitati di base, gruppi di pressione ecc ecc, diversi ma accomunati dalla volglia di cambiare il mondo con mezzi nonviolenti.

Chi è interessato a lavorare con maggior forza in questo senso ce lo faccia sapere a redazioneitalia@pressenza.com

 

DARE VOCE AD UN NUOVO MONDO

Per una rete di informazione nonviolenta

 

In quest’epoca di caos sistemico e sociale, esiste un mondo che non ha voce e che non trova spazio espressivo. Il vecchio mondo delle violenza (economica, sociale, mediatica, interpersonale) è andato via, lasciando i suoi strascichi; il nuovo mondo si esprime e cresce ma non trova ancora il suo spazio. I media tradizionali credono ancora di essere il famoso quarto potere ma sono sempre più al servizio della speculazione finanziaria e di quel modello socio-culturale costruito da una minoranza accentratrice ed affarista.
In tale scenario, allo stesso tempo, esiste una tendenza informativa e mediatica: un’altra-voce, un nuovo modello che è iniziato dalle prime radio libere, dai fogli di quartiere e da altre forme di divulgazione di prossimità e oggi, è cresciuto consolidando un nuovo concetto di informare e fare informazione, grazie all’avvento di Internet e delle Reti sociali.

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Franco Di Giangirolamo: L’isola sul fiume

Era la fine di Maggio quando salivo sullo strano ponte (appresi piu´tardi che era opera dei prigionieri della prima guerra mondiale) che collegava Treptow Park con l`isoletta dove avrei vissuto con mia moglie per un anno e mezzo. La fermata del bus, davanti alla sede del Comune mi aveva offerto una prima sorpresa: diversi cartelli indicavano i nomi e le relative distanze kilometriche dei paesi e citta´gemellate e, in caratteri blu, scorsi la scritta „ Albinea“ (prov. di Reggio Emilia). Lo presi per un segno benaugurante, come dire: gira gira sei sempre a casa.

Ormai avevo alle spalle gran parte della mia vita: attivita´ pubblica, quasi tutta la rete familiare, gli amici; insomma, si potrebbe dire tutto, tranne la pensione, la valigia che mi trascinavo appresso e mia moglie che mi attendeva. Di segnali beneauguranti ne avevo proprio bisogno ed ero disposto anche ad inventarmeli.

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Milagro, y el blanco y negro ( da Pagina 12 )

FONTE PAGINA12  CHE RINGRAZIAMO

La media cara de Milagro Sala que circula por este país y el mundo –se la pudo ver en las calles de Roma, Madrid, París, y Amsterdam esta semana– fue hace siete años la cara completa de una dirigente social de rasgos coyas, la cara morena y latinoamericana que el relato de la Argentina “normal” había desplazado y reemplazado por otros rasgos étnicos, fabricando la falsedad de que los argentinos somos un subderivado europeo en una región donde el hedor de América, como entendió Rodolfo Kusch, está controlado, disciplinado y colocado en el altar subterráneo del vencido.

Esa cara completa es la que el fotógrafo Seba Miquel retrató en Rosario, en 2010, cuando dos columnas de diversos antiguos pueblos se encontraban y fundían en el recorrido de lo que fue la Marcha de los Pueblos Originarios, que el 10 de mayo de aquel año cubrió la Plaza de Mayo de un paisaje sobrecogedor. Miquel ya había llevado a cabo su ensayo sobre la Tupac Amaru, AbyaYala, Los hijos de la tierra. Pude ver ese magnífico trabajo cuando unos meses después se expuso en el Palais de Glace. Yo venía de trabajar en el libro Jallalla, que se publicó ese mismo año, y lo primero que me estremeció fue el blanco y negro. Porque en esas fotos sobre Milagro y sobre los oficios de los tupaqueros, sobre su modo de vida comunitaria y su mística política que hace confluir al Che, a Evita y a Tupac Amaru, Miquel hacía que el blanco y negro funcionara además en otro plano agregado a los que sostienen al blanco y negro como una posición estética.

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Il M5S, Di Maio e lo psicologo Gallini

FONTE  MICROMEGA

di Giacomo Russo Spena

Che il M5S abbia sposato l’idea della moneta fiscale, MicroMega se ne può solo compiacere. Siamo stati i primi, nel 2015, ad aver sostenuto questa proposta come opzione per rompere la gabbia europea dell’austerity (pubblicando l’ebook “Per una moneta fiscale gratuita” di B. Bossone, M. Cattaneo, E. Grazzini, S. Sylos Labini con la prefazione di Luciano Gallino).

Ma dentro il MoVimento regna alta l’incertezza, o l’impreparazione (al lettore stabilirlo). Così, ieri sera, durante la trasmissione CartaBianca, su RaiTre – dove era in collegamento – il vicepresidente della Camera e front man del M5S, Luigi Di Maio, non un esponente minore, interpellato dalla giornalista Berlinguer sulla vicenda ha spiegato: “I certificati di credito fiscale non ce li siamo inventati noi ma economisti come Ortona e…”, in quel momento il suo sguardo sembra perdersi nel vuoto. Pochi istanti. Si volta, come a cercare una conferma da qualcuno seduto lì accanto. Poi prosegue spedito: “…e il defunto psicologo Gallini che ha scritto proprio sul giornale di Giannini (Repubblica, ndr)”.

Chi non ha commesso una gaffe. Chi non ha mai storpiato un nome. Chi non ha mai avuto un vuoto di memoria. Chi non si è mai fatto suggerire qualcosa in un momento di impasse. Ma qui siamo oltre. Di Maio con quel “psicologo Gallini” ha dimostrato di non conoscere minimamente gli studi e le illustri lezioni, che oggi tanto mancano, di una figura del calibro di Luciano Gallino. Il sociologo Luciano Gallino. Ripetere cose, a pappardella, non è un bel biglietto da visita per un possibile premier. “Lo psicologo Gallini”. Un po’ come se uno scrivesse “ai tempi di Pinochet in Venezuela”. Ah, Di Maio ha fatto pure questo. Verrebbe da ridere, se non ci fosse da piangere.

(29 marzo 2017)

New White Paper Underlines Why Europe Needs To Be More Open by Vivien Schmidt and Matt Wood on 13 March 2017

 

This post originally appeared on the European Politics and Policy (LSE) blog.

 

The European Commission’s new white paper ‘On the Future of Europe’ recognises how serious the EU’s crisis of legitimacy is. Perhaps for the first time from the Commission itself, there is an acknowledgement that the Union faces a number of options for its future, not merely involving greater integration but potentially a reigning in of regulatory competences and a greater focus on areas where EU-level regulation works best. It even floats the option of a movement back to solely focusing on the single market.

While assertively neutral on five options, the paper seems to support a multi-speed approach, with more integration for member states who want it, and more opt outs for those who don’t. Our view is that this ‘differentiated’ approach is pragmatically useful, but it carries a number of risks for transparency and accountability. Better inclusion and openness for the public in EU decision-making must accompany any kind of differentiated integration, along with further democratisation, if the EU wishes to rebuild the trust and legitimacy the white paper acknowledges it has lost.

Matt Wood

Matt Wood

The ‘Democratic Deficit’ – Old Problem, Old Solution?

Discussion about the EU’s ‘democratic deficit’ has been going on for decades, so the issues the white paper brings up are not new. However, for the first time there seems to be a genuine recognition of the need for change. The Commission’s discussion paper is remarkably candid about widespread public distrust of Brussels, stating for example that “citizens’ trust in the EU has decreased in line with that for national authorities. Around a third of citizens trust the EU today, when about half of Europeans did so ten years ago.” Overcoming this trust issue will not be easy, the white paper states: “Communities are not always aware that their farm nearby, their transport network or universities are partly funded by the EU.”

At its heart, the white paper emphasises managing expectations as being critical for future success. Where the Commission builds up expectations for economic growth and cross-border harmony driven from Brussels, it makes itself vulnerable to attack. When suggesting faster and stronger integration as one option (the fifth and final), the Commission notes ‘there is the risk of alienating parts of society which feel that the EU lacks legitimacy or has taken too much power away from national authorities’. But at the other extreme, it makes clear that going back to the single market alone is not a good (second) option. Moreover, its first option, going along pretty much as it currently does, although presented very positively, is equally a non-starter, given the difficulties of reaching agreements under the current unanimity rules.

Therefore, the more nuanced approaches the Commission itself seems to favour involving ‘differentiated integration’ – contained in especially the third but also the fourth options – would be preferable. This could involve, on the one hand, some member states deepening cooperation in core policy areas while others stay on the sidelines, at least initially. Or it could mean the Union focusing on what it does well and trying to do it better, while returning other competences back to the member states.

The Appeal Of Pragmatism

Differentiated Integration at this point may be an attractive and viable option to the Commission, given that deeper integration seems to have hit a brick wall over the past five years as a result of member-state divisions over how to respond to the EU’s ‘polycrisis’. It may be the easiest way to implement a solution as well. Allowing strongly pro-European states to integrate further where possible makes good sense, in particular since different member-states may prefer to integrate more (or less) in different areas.

One significant omission from the white paper is how such differentiated integration would work within existing institutional arrangements. The original reason for harmonising policies at the EU level was to introduce clearer accountability and transparency through consistent and clear decision making routes. Allowing member states to pick and choose could damage core normative commitments to integration and fundamental rights, while at the same time it could also create even more complexity and blurred lines. Moreover, enabling member states to speed up integration in some areas, for example in fiscal policy, while permitting dis-integration in another, such as immigration policy, potentially creates new unforeseen tensions, arguably even worse than those which exist at the moment.

So how does the EU ensure accountability and transparency in a multi-speed Europe? The Commission does not address this issue, despite its statement of concern. Accountability and transparency require clear and consistent procedures with an obvious centre of authority to ensure accountability, or at least a clear ‘paper trail’ regarding who made what decision, when and with what advice.

This is an issue the EU already struggles with. As some academics describe it, the EU faces an ‘accountability overload’ of reporting and paperwork, not to mention its lack of transparency or its democratic deficit. To deal with these questions, it is also important to make certain that all member-states are sitting around the table, with a voice if not always a vote, as new policy initiatives are considered. But even this is not enough.

The Need For Openness And Inclusion

To address the problems of accountability as well as transparency, the EU needs to find ways to devise more inclusive and open processes of public engagement at the European level, providing clear links into the policy making process. In many respects, the EU is actually considered a normal and unproblematic part of people’s lives across Europe. Common standards in food, medicines, aviation safety and other areas of EU responsibility are largely supported by all relevant members of the public. The key, as the Commission itself in some ways notices, is to make a connection in terms of identity at the local level, and to provide better and clearer channels of engagement from national parliaments and local civil society.

Anyone who’s been to Brussels will tell you it is a ‘bubble’, perhaps even more so than national capitals often are. Corporate lobbyists and NGOs abound, and ‘the public’ are left out of the equation. Paradoxically, there are various ways the public can contribute in principle to EU legislation via online public consultations at various stages. Yet, these processes are already obscure and monopolised by lobbyists – the ‘expert stakeholders’ EU bodies like to talk about.

In some ways then, EU institutions are more transparent and accountable than their national counterparts. Yet, there are few channels through which these institutions speak to the public. The European Citizens’ Initiative, launched in 2012, is barely known across the continent and needs at least 1 million people to sign a petition for anything useful to happen. Where there have been successful Initiatives, these have been monopolised by lobbyists and NGOs.

The Way To Legitimacy

We recently interviewed a Dutch MEP who said that “the Commission works very well, the experts work well. But where are the public?” His off-the-cuff solution was to have the Parliament take Committees and MEPs out of Brussels and spend most of their time in local communities engaging with the public and learning about their issues and opinions. This could be facilitated through national parliaments and promoted by political parties. All very idealistic, and given recent populist developments we might be sceptical about its viability. But inclusion and openness have to start somewhere.

For decades, academics and EU politicians assumed the ‘outputs’ the Union provides – economic stability and social harmony – would be enough to secure ‘ever greater Union’. They have been proved wrong, but the solution is not to reinforce the very obscurity and complexity that fuel distrust in Brussels in the first place. While a good start, the Commission’s suggestion of more ‘differentiation’ could exacerbate rather than close the ‘expectations gap’ so long as it does not find ways to ensure greater accountability and transparency. The EU needs to find ways to be more democratic – open and inclusive – so as to allow the European public genuine participation in the process of EU decision making, as it progresses through the Commission, Parliament and Council. Internal political reform is remarkable for its absence in the white paper, but it will be crucial in any strategy to renew trust in the Union.

This post originally appeared on the European Politics and Policy (LSE) blog.

Eclissi della classe media, pochi i salvati tanti i sommersi

Salto d’epoca. Finita la ruota della fortuna siamo entrati nella ruota del criceto, tanti smanettoni invisibili e sommersi, precari a partita Iva con la paura e il rancore che si fa razzismo

Aldo Bonomi   Il Manifesto 8-3-17  che

È interrogante l’ultimo libro di Marco Revelli. Mi domando se non ci resti che sussurrare, o urlare «non ti riconosco più» e ritirarci in buon ordine nel racconto di microcosmi e di territori resilienti, magari con Magnaghi e la sua rete dei territorialisti.

Oppure se valga la pena di alzare lo sguardo e continuare a cercare per capire oltre l’invito di Candido «Dobbiamo coltivare il nostro orto», evocato in un altro scritto di Revelli sul manifesto. O ancora se valga la pena continuare nella fatica di Sisifo dello scomporre e ricomporre il farsi della società nel salto d’epoca dell’accelerazione, con lo sguardo delle lunghe derive braudeliane del potere, del mercato, della civiltà materiale.

Sono tempi di sorvolatori del mondo, di storytelling, di flussi che impattano nei luoghi mutandoli antropologicamente, culturalmente, socialmente ed economicamente. Partirei, come sempre, dal basso, dal processo di deposito delle polveri sottili dei flussi nei polmoni delle “vite minuscole”, della vita quotidiana, nel loro, un po’ come per noi, non riconoscersi più in ciò che era abituale. Può sembrare retrò, ma credo che la parola chiave di tanti comportamenti collettivi sia “sommerso”. Che diventa, nella discontinuità di inizio secolo, sommerso carsico e non più sommerso ascendente. Questo sommerso carsico ha poco a che fare con il “ben scavato vecchia talpa” di marxiana memoria.

Riappare il tema del rendersi invisibili ai poteri, alle tasse, ai mercati, così confluendo, come detriti, nel fiume dei tanti precipitati nel sommerso della povertà, della società dello scarto e dei dannati della terra, il cui fiume è diventato il cimitero/Mediterraneo. Scomporre e ricomporre i detriti di questo fiume mi pare questione sociale e politica, avendo chiaro che pochi sono i salvati e tanti i sommersi. In questo magma carsico si evidenzia un’altra questione: lo sfarinamento della società di mezzo, intesa sia come crisi del tessuto prepolitico della rappresentanza sociale e lo sfarinamento dei ceti medi cui si aggiunge oggi la forma partito. Il sommerso ascendente dei tardi anni ’60 sembra, nel piccolo, un’epopea da far west: contadini che, nella migrazione interna, si fanno operaio massa, operai specializzati che emergono dai sottoscala costruendo capannoni e disegnando con i sindaci aree industriali che si fanno distretto; cooperative di consumo e di lavoro che diventano grandi gruppi della distribuzione o della produzione. La piccola borghesia si fa ceto medio, come ebbe a rilevare Paolo Sylos Labini nella sua analisi.

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RAGIONARE PER SCENARI PER SCONFIGGERE LA ROZZA “VISION” DEL SIG. TRUMP

La capacità di analizzare e ragionare in anticipo per scenari è decisiva per chi opera nei vasti campi della prevenzione. Di questa capacità di analisi e di prefigurazione di scenari vi è estremo bisogno in questa epoca.
Sono in atto cambiamenti geopolitici che avranno profonde ripercussioni sul lavoro, sulle condizioni di vita, sulle generazioni future…

La discontinuità rappresentata dalla elezione di Donald Trump a Presidente degli USA sta sconvolgendo molte delle certezze date per acquisite nel campo dei diritti umani, del necessario impegno per arrestare o mitigare il cambio climatico con la produzione di energia con fonti rinnovabili, del fatto che l’amianto, bianco o blu che sia, non “è sicuro al cento per cento ” come afferma invece il neo presidente degli USA.
La risposta che viene data da Trump ai problemi sociali generati da una globalizzazione out of control rischia di produrre ancor più danni della globalizzazione stessa.

La chiusura delle frontiere ai cittadini di sette paesi di religione mussulmana, con un decreto esecutivo che ha bloccato negli aeroporti, residenti da tempo negli USA, muniti di Carta verde, studenti , professori, professionisti, dirigenti d’impresa e loro famigliari rappresenta pienamente la vision rozza semplicistica di questa amministrazione che sceglie con ostinazione la chiusura e l’isolamento dal mondo.

Un isolamento che è fuori da quest’epoca, impossibile da gestire se non a prezzo di una regressione a modelli primitivi del funzionamento della società. Il discorso del Sig Trump può apparire convincente agli avventori di uno dei tanti saloon disseminati lungo le strade blu, mentre gareggiano a chi beve più boccali di birra….
Quali saranno le difficoltà che potrà creare questa Amministrazione degli USA per chi si occupa di ambiente, salute e sicurezza ed organizzazione ecologica della vita delle città ?
Il primo impatto cui sarà necessario fare fronte derivante dalla scelta di “chiusura” degli USA all’interno dei propri confini riguarderà il destino delle istituzioni e degli Enti di ricerca in materia di ambiente, salute e sicurezza nel lavoro e oltre il lavoro, federali e internazionali. Per gli Enti USA, come EPA, OSHA è prevedibile che vengano a breve “cloroformizzati” dai nuovi dirigenti che , con lo spoils system, verrano posti al vertice da Trump. Per le grandi Agenzie internazionali delle Nazioni Unite come IARC , OMS , i rischi sono rappresentati da una preoccupante ipoteca: qualora operino in autonomia tecnico scientifica con la produzione di risultati di ricerca oggettivi che contraddicano il rozzo assunto che i problemi ambientali non esistono, saranno neutralizzate con la sospensione dei finanziamenti….
Questi sono gli scenari attesi, questo è il momento per l’Europa, quella vera, di alzare la testa e contrastare questi tristi scenari che l’Amministrazione Trump si predispone a rendere concreti. L’Europa per ora dispone di valide Agenzie scientifiche (AEA,ECHA , EFSA,OSHA, ecc ), la loro efficientizzazione sarebbe la prima risposta alla scelta regressiva messa in atto dagli USA, continuando il finanzamento delle Agenzie delle N.U.

Gino Rubini, editor di Diario Prevenzione

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Notizie Salute Sicurezza
Lavoro Ambiente
Gennaio 2017
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L’ho letto su internet, quindi è vero …

Notizie false e inventate, campagne demenziali che spaventano i genitori che, impauriti,  sottraggono i figli alle vaccinazioni, imbroglioni che promettono cure miracolose per malattie gravissime che hanno poche speranze di guarigione, bullismo e violenza tramite i social network..
Da alcuni mesi sta crescendo un allarme sociale verso i rischi presenti nel cyberspazio che pare orientato verso un solo obiettivo: aumentare i controlli in rete, introdurre sanzioni, ecc

Per la verità non ci sarebbe bisogno di particolari norme poichè le leggi per colpire chi diffonde notizie false e allarmistiche o per contrastare campagne demenziali esistono già nel codice penale. Sarebbe necessaria una maggiore capacità d’investigazione e d’intervento degli organi di polizia  per neutralizzare molte delle nefandezze che circolano in rete.

Ciò che sconcerta invece è la totale mancanza di riflessione sul fatto che molti, troppi cittadini che frequentano la rete siano così indifesi culturalmente da bersi le panzane e le bufale che vengono loro propinate da certi siti che si sono specializzati a fare audience in questo modo. Purtroppo le persone credono in quello che vogliono sentirsi raccontare e si bevono con disinvoltura panzane mostruose.
Come si può contrastare questo inquietante inquinamento della rete costituito da notizie fasulle, panzane e bufale, campagne che fomentano odio e violenza verso le persone diverse per genere, preferenze sessuali, religione o etnia ?

E’ necessario che i siti istituzionali delle Organizzazioni Sanitarie pubbliche (ASL REGIONI) , ad esempio, escano dal torpore burocratico e facciano campagne di verità scientifica per smontare le bufale sulle vaccinazioni. I media tradizionali, radio televisione, quotidiani on line possono dare un grande contributo nello smascherare i siti che pubblicano bufale e a smontare le falsità che vengono diffuse in rete. Basta con i piagnistei sul fatto che la rete ” è piena di cattivi e di malvagi” , la rete è un campo di battaglia sociale ove occorre combattere per contrastare truffatori e manipolatori con l’arma della precisione scientifica, della chiarezza e della tempestività.

In rete vi sono centinaia di siti di associazioni che invece svolgono un ruolo d’informazione corretta sui grandi temi della salute, dei diritti che vanno valorizzati e indicati come riferimenti affidabili…

Infine vogliamo dire che vi è una responsabilità primaria dei cittadini ad informarsi con attenzione e cura , ad essere vigili nell’accedere alle fonti informative, ad apprendere a riconoscere le fonti affidabili da quelle tossiche. Questo compito non è delegabile a terzi, occorre che cresca una cultura dell’uso della rete più avveduto e colto che riduca il numero dei creduloni che si bevono le panzane perchè “l’ho letto su internet”.

editor

L’AVVENTURISMO DI UN LEADER E DEL SUO GRUPPO DIRIGENTE ….

Referendum, nuovo affondo del Financial Times: “Con il No a rischio fino a 8 banche italiane”
Secondo il Financial Times gli otto istituti a rischio sono Monte dei Paschi di Siena, la Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Carige, Banca Etruria, CariChieti, Banca delle Marche e CariFerrara.
Una campagna referendaria per il SI basata sulla intimidazione e sulle bufale: il crollo del sistema bancario italiano sarebbe l’immediata conseguenza della vittoria del NO. Le otto banche citate da FT erano decotte e disastrate ben prima del referendum.

Non c’è pudore nei propagandisti PD per il SI ad illustrare scenari catastrofici nel caso vincesse il NO: SPREAD a 500 e più, invasioni di locuste ed epidemie di peste bubbonica sarebbero il gramo futuro che attenderebbe gli italiani dopo il 4 dicembre.

Una campagna che ha attecchito: dal professore universitario pensionato che rinuncia ai propri strumenti raffinati d’interpretazione dei testi classici e si beve le bufale catastrofiche dei fans di Renzi, al vecchio militante che ha ritrovato un momento di soddisfazione del suo desiderio di essere considerato, finalmente, nel gruppo dei vincenti, dopo una vita di magoni, rinunce e frustrazioni…

Minacce e ricatti questa è la cifra della comunicazione PD in materia di referendum costituzionale: una subcultura che viene da lontano è quella della denigrazione dell’avversario, il tentativo continuo di delegittimare chi milita per il NO . Accozzaglia è il termine usato con delicatezza e diplomazia da Renzi verso coloro che avversano il suo progetto di riforma. E’ vero, Renzi e gli appartenenti al suo cerchio magico hanno una paura out of control di perdere,di essere disarcionati dopo avere costruito loro il percorso e la potenziale e pericolosa trappola del referendum confermativo.

Se prendessimo per buoni gli scenari tragici prospettati dai propagandisti del SI qualora vincesse il NO,  dovremmo dire che il loro leader, Renzi, è il principale responsabile della situazione di pericolo per la stabilità del nostro paese prodotta dalla consultazione referendaria.
Dovremmo dire che Renzi è un avventurista che coi suoi strappi e forzature sta mettendo a rischio il futuro del paese.
Era proprio necessario procedere alla cosidetta riforma costituzionale, dividendo gli italiani, bloccando il paese per tanti mesi in una campagna referendaria sempre più lontana dai problemi veri che si dovrebbero affrontare con urgenza”?. Un mare di chiacchere litigiose ha sostituito un esame di realtà sulle priorità ben note che sono relegate da tempo in secondo piano: ripresa economica, investimenti per un allargamento della base produttiva, occupazione giovanile, gestione del territorio e ambiente .

La ripresa di un discorso vero di riforma costituzionale passa attraverso il voto al NO: domenica 4 dicembre con il NO si può rottamare una proposta sbagliata di modifiche della costituzione e creare le condizioni per un confronto serio e unitario nel merito di ciò che di questa Carta occorre custodire e di quanto può essere modificato con parsimonia e saggezza.

Parsimonia e saggezza, virtù che non paiono illuminare nè Renzi nè il suo clan.

La « réapparition » de disparus argentins rouvre le débat sur les droits humains

fonte EQUALTIMES.ORG

by Mariano D. Lafontaine

En Argentine, les disparitions forcées de personnes pendant la dernière dictature (1976-1983) reviennent au cœur du débat politique à mesure que certains, au sein même du gouvernement, remettent en cause le nombre de personnes disparues, dénoncent les référents pour les droits humains et cherchent à améliorer la situation des anciens oppresseurs.

<p>The Mothers of Plaza de Mayo, in front of the Government House, demand rights for the people of the past and present, referring to the ‘'disappeared'' and the current victims of sharply rising unemployment.</p>
The Mothers of Plaza de Mayo, in front of the Government House, demand rights for the people of the past and present, referring to the ‘’disappeared’’ and the current victims of sharply rising unemployment.(Mariano D. Lafontaine)

Déjà en 2014, Mauricio Macri, aujourd’hui président, annonçait qu’il en finirait avec les « détournements des droits humains ». Les organisations visées mettent en garde contre des propos négationnistes.

En janvier passé, Darío Lopérfido, à l’époque ministre de la Culture de la capitale fédérale (où règne le « macrisme ») affirmait que les organisations de défense des droits humains « gonflent » le nombre de personnes disparues – estimé à 30.000. Pourquoi ? « Le chiffre de 30.000 a été convenu autour d’une table pour obtenir des subventions », a-t-il affirmé.

Le grand tumulte qu’a engendré sa déclaration polémique et les pressions qui s’en suivirent ont eu raison de son portefeuille, mais Darío Lopérfido dirige toujours le théâtre public Colón.

Quelques semaines plus tard, le président argentin a sondé l’opinion publique en prononçant un discours dans la même verve. « Je ne sais absolument pas [s’il y en a eu 30.000]. C’est un débat dans lequel je ne vais pas entrer, s’il s’agit de 9000 ou de 30.000 personnes, s’il s’agit de celles indiquées sur un mur ou s’il y en a beaucoup plus », a-t-il déclaré à BuzzFeed Latinoamérica. Il a aussi qualifié les années de plomb de « guerre sale », une expression inventée par les oppresseurs pour justifier le terrorisme d’état, même si ses porte-parole ont ensuite nuancé ses propos.

Marcos Peña, son chef de cabinet, a ajouté : « Le nombre de 30.000 personnes a une valeur symbolique […]. La seule liste officielle est celle de la CONADEP (Commission nationale sur les disparitions de personnes) qui en dénombre moins. » Dans les années 1980, cette liste comptait 8961 disparitions dénoncées. Quelques anciens référents pour les droits humains – aujourd’hui proches du gouvernement – l’ont validée. Toutefois, au niveau des registres officiels, jusqu’en 2003, le secrétariat des droits humains comptabilisait 13.000 plaintes.

Les militants se sont offusqués. Estela de Carlotto, de l’association Grands-mères de la Place de mai (Abuelas de Plaza de Mayo, en espagnol) a défendu le chiffre de 30.000 personnes. « Nous enregistrons encore des plaintes […]. Certaines familles ont été décimées et personne ne l’a fait [déposer plainte]. » Pour Nora Cortiñas, responsable de l’organisation Mères de la Place de mai – Ligne fondatrice (Madres de Plaza de Mayo Línea Fundadora, en espagnol), « le président ne s’est jamais soucié des droits humains ». Et d’ironiser : « Et même, il a fait mieux que Lopérfido ».

En 1978, cinq ans avant la fin de la dictature et des disparitions, les services secrets chiliens ont obtenu des registres militaires argentins consignant 22.000 disparitions. Pour le spécialiste des droits humains, Marcos Tolentino, il ne semble pas insensé qu’en 1983, le chiffre atteigne 30.000 personnes, voire plus.


Les droits humains du 21e siècle

Depuis son arrivée au pouvoir en décembre dernier, le gouvernement de Macri, déclare accorder la priorité aux droits humains du 21e siècle (accès à l’éducation, à la santé et à l’emploi, entre autres). En même temps, des plaintes ont été déposées contre des militants liés au précédent gouvernement de l’ancienne présidente Cristina Fernandez de Kirchner.

En janvier, Milagro Sala, une militante sociale, autochtone et pro-Kirchner, a été arrêtée. Son cas a été soulevé aux Nations Unies et à l’Organisation des États américains (OEA) Amnesty International a dénoncé « une tentative évidente de criminaliser l’exercice du droit de manifestation » et a exigé sa libération.

Une autre partisane notoire de Kirchner, Hebe de Bonafini, présidente de l’association Mères de la Place de mai (Madres de Plaza de Mayo, en espagnol), a été citée à comparaître dans une affaire de corruption.

Hebe de Bonafini, 87 ans, a comparé le gouvernement à la « dictature de Mussolini » et a été traitée de « folle » par Macri. Elle refusé de comparaître devant les tribunaux invoquant une opération médiatico-judiciaire avant sa marche hebdomadaire pour les disparus – la deux millième marche.

La tentative d’intrusion dans les locaux de l’association et d’arrestation – en faisant entrer en scène des troupes d’élite, des canons à eau et des hélicoptères – n’a pas abouti, les manifestants ayant veillé à protéger la militante.

Pour l’intellectuel Dante Palma, cet épisode était un « test » pour mesurer l’opinion publique, qui, dans le cas de Milagro Sala, s’est montrée nettement moins catégorique. Il va jusqu’à dire que l’objectif final de ce « test social » serait l’ancienne présidente Kirchner (et plus concrètement le niveau d’acceptation sociale de son éventuelle arrestation), qui fait actuellement l’objet d’une enquête pour de prétendus faits de corruption.

Dans le même temps, le fait que des génocidaires condamnés puissent purger leur peine en étant assignés à domicile fait polémique. Le gouvernement assure qu’il s’agit d’une question de droits humains.

Les organisations estiment que seuls des problèmes de santé qui ne peuvent être traités dans les établissements pénitentiaires donnent lieu à ce genre de décisions et critiquent la position officielle de ne pas faire appel des décisions de justice. Selon le chef de cabinet, « on ne faisait pas appel non plus » du temps de Kirchner, « seulement dans les cas emblématiques ».

Au même titre qu’il y a eu des prisonniers et des morts sans jugement, des corps sans sépulture, des enfants volés et privés de leur identité, certains craignent d’arriver à un génocide sans chiffre dont on suspecterait ceux qui le dénoncent.

D’après Marcos Tolentino, « on introduit le doute sans preuve, dévalorisant le tout. En mettant en cause le nombre de personnes disparues et en dénigrant les responsables des organisations de défense des droits humains, on finit par remettre en question les consensus conclus après 40 années de lutte contre l’oubli. »


Cet article a été traduit de l’espagnol.

fonte EQUALTIMES.ORG

Referendum costituzionale: i fatti e i miti

fonte Sbilanciamoci.info

In questa campagna referendaria abbiamo dismesso i panni della discussione e il dibattito si riduce al chi sta con Renzi e chi sta contro Renzi. Così la Costituzione diventa oggetto plebiscitario, o semplice programma elettorale

Ne è valsa la pena?

Perché questa quasi-guerra fratricida? Qual è la ragione così urgente che ha mosso la dirigenza del Partito Democratico e del Governo a imporre una campagna referendaria su questa riforma della Costituzione, così frettolosa, così imperfetta, e soprattutto così divisiva? Perché decenni di manicheismo da guerra fredda tra comunisti e democristiani non hanno diviso così fortemente il paese come questo referendum che cade in un tempo post-ideologico? Propongo due ordini di risposte a queste domande, uno che cerca di capire la filosofia di questa proposta di revisione, e uno che cerca di valutare l’impatto di questa campagna referendaria sulla cittadinanza.

Fatti e Miti

Hanno detto i suoi promotori che è la storia a chiedere questa riforma; lo chiedono trenta (per Renzi settanta) anni di tentativi di cambiare la nostra democrazia, troppo pluralista e assembleare, troppo orizzontale e poco attenta alla governabilità. Ma nessuno sa esattamente che cosa questo significhi, anche perché la storia siamo noi, e quindi è il presente, questo presente, che vuole questa riforma. Figlia di questo presente, la filosofia sulla quale riposa questa riforma è poco amante dell’intermediazione, del pluralismo e di quella complessità che – ce lo siamo dimenticato? – è la società liberale e democratica stessa a generare. Questa filosofia riposa su due miti: velocità di decisione e semplificazione per aiutare la velocità. E si impone, o cerca di imporsi, con un metodo che è ad essi coerente: insofferente per il dissenso, violento nel linguaggio, dominatore nell’uso monopolistico dei mezzi di informazione, e plebiscitario nella forma del consenso chiesto ai cittadini. Per chi mastica un poco di filosofia politica lo scenario è Schmittiano.

Da che cosa sono supportati i miti della velocità e della semplificazione? Non da prove fattuali, ovviamente. Certo, non sul fronte della “velocità” di decisione; anche perché questo governo di coalizione ha dimostrato di riuscire in pochi giorni a sopprimere diritti del lavoro che resistevano almeno dal 1970. Velocissimo è stato anche il precedente governo Monti nell’approvare la riforma delle pensioni e addirittura nell’inserire la norma del pareggio di bilancio nella Costituzione. La velocità in queste riforme amate dai “mercati” (e molto poco digeribili per quei democratici che assegnino a questa parola un valore superiore a quello della sigla di un partito) è stata possibile la Costituzione vigente. Quindi perché?

E che dire del mito della “semplificazione”? Se semplificare comporta approntare mezzi per l’attuazione celere delle decisioni, allora il problema è risolvibile con regolamenti nuovi, sia parlamentari che della burocrazia. Perché andare ai poteri fondamentali dello Stato? Perché, probabilmente, il mito della semplificazione è coerente a una visione dirigistica del potere politico, che sta davvero stretta a una costituzione democratica com’è la nostra.

Semplificare può voler dire molte cose e nulla. L’argomento piace molto ai populisti di tutti i continenti e tempi: e sta per superamento della fatica del dover cercare mediazioni e consensi, secondo il mito molto dirigistico di snellire le rappresentanze, di sfoltire i protagonisti dei processi decisionali, per contenere i tempi di decisione e togliere ostacoli a chi decide. È un mito ben poco democratico, e non perché la democrazia significa perdere tempo, ma perché, come scriveva Condorcet, non si fida di chi vuol dare più potere all’organo di decisione, il governo: un argomento di cui “sono lastricate le strade verso la tirannia”. Senza bisogno di andare così lontano come Condorcet, possiamo tuttavia nutrire seri dubbi che una semplificazione decisionale sia sicura per chi crede nel potere di controllo, limitazione e monitoraggio, ovvero sorveglianza. Chi propone questa riforma non ha un’idea molto positiva della democrazia, ritenendola troppo esosa in termini di tempo e troppo esigente in termini di controllo. Ecco perché ci propone una riforma che depotenzia la democraticità della nostra Costituzione.

Resa meno democratica, ovvero meno rappresentativa delle diverse istanze, territoriali o politiche, e più interessata a localizzare la sede apicale della decisione trascinando gli organismi collettivi invece di essere da questi trascinato: non a caso nella proposta di revisione ha un posto di rilievo il principio della temporalità stabilita dal Governo, che può predeterminare i tempi di discussione del Parlamento e chiedere che esso sospenda i suoi ordinari lavori per occuparsi prima e subito dei suoi decreti. L’implicita ammissione è che colpa della lentezza e della complessità sia il Parlamento, e tutti gli “organi assembleari” come con fastidio chiamano la democrazia rappresentativa i dirigisti. Contro l’“assemblearismo” è in effetti da settant’anni che gli insoddisfatti della democrazia tuonano nel nostro paese, a partire proprio dalla Consulta.

Distanza dei cittadini e poteri accentrati

La revisione della Costituzione pone inoltre problemi molto seri quanto al rapporto tra istituzioni e cittadini. Su questo aspetto pochi si sono soffermati e propongo qui alcune riflessioni.

Le ragioni per non sostenere questa proposta di revisione sono di vario genere: da quelle relative al merito (a come ridisegna il Senato, le funzioni delle Regioni e la relazione tra i poteri dello Stato) a quelle più direttamente politiche o di prudenza politica. Su queste seconde non si discute mai abbastanza. La Costituzione di uno stato democratico dovrebbe avere uno sguardo lungo, essere pensata in relazione non all’oggi ma a qualunque tensione o problema possa succedere domani. Questa prospettiva ha reso la Costituzione italiana vigente un’ottima Costituzione, capace di reggere molti stress: gli anni di piombo, impedendo che le istituzioni si facessero convincere dal canto delle Sirene che chiedevano governi di emergenza, sospensione dei diritti e stato di polizia; e poi l’assalto da parte della corruzione dei partiti prima e del patrimonialismo berlusconiano poi. Se l’opinione, anche politica, ha spesso tentennato, le istituzioni hanno tenuto la barra diritta perché la Costituzione ne disegnava i poteri e le funzioni in maniera tale che nessuna di esse potesse prendere sopravvento o avere un potere superiore.

Se la nostra democrazia ha tenuto e la stabilità è stata garantita nel corso degli anni nonostante i diversi governi (un problema da attribuirsi semmai al sistema elettorale) è stato perché le istituzioni hanno tenuto. E questo è dimostrato dal fatto che il declino di legittimità dei partiti e degli attori politici non ha scalfito la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, perché queste non hanno dato l’impressione di essere dominate completamente dai partiti. Vi è da temere che un Senato composto per voto indiretto alimenti nei cittadini l’impressione che la loro incidenza sulle istituzioni sarà più debole mentre il potere di decisione degli attori politici più opaco e fuori dal loro controllo. Il rischio è che le istituzioni siano a poco a poco percepite come proprietà di chi le occupa; che la distanza tra istituzioni e società aumenti. E con essa che cresca il senso di illegittimità delle istituzioni.

Inoltre, pensata in funzione di neutralizzare esecutivi ingombranti (scritta in funzione anti-fascista), la Costituzione del 1948 si presenta come molto ben corazzata contro i nuovi populismi. Decentrare il potere e spezzarne la tendenza alla concentrazione (con un governo che impone i tempi e l’agenda al Parlamento) è mai come in questo tempo essenziale a fermare i tentativi di assalto che possono venire dalle forze nazional-populiste. Questo non è il tempo migliore per una Costituzione che concentra i poteri e indebolisce i controlli e il ruolo delle opposizioni.

Negli Stati Uniti ci si preoccupa in questi giorni degli effetti che potrà avere l’accumulo di potere e l’allineamento sotto un unico partito di tutti i poteri dello Stato: la Casa Bianca, il Congresso, il Senato e la maggioranza della Corte Suprema. Indubbiamente la governabilità e la velocità delle decisione saranno facilitate con l’amministrazione Trump e la sua maggioranza granitica. Ma siamo convinti che questo sia desiderabile?

Una campagna velenosa

Chi si è schierato con Renzi, leggiamo spesso sui quotidiani, ha rischiato il linciaggio morale. D’altro canto chi si è schierato contro Renzi ha perso amici e si è trovato/a classificata con i Casa Pound o gli anti-sistema e con i populisti di tutte le risme. Una guerra di parole e dichiarazioni fratricida, come non si era visto neppure con la proposta di riforma lanciata dal Governo Berlusconi. Forse perché la lotta è ora tutta a sinistra o tra chi in modi diversi si sente vicino al Partito Democratico, questa campagna ha avuto il sapore di una piccola guerra civile, di una guerra civile di parole. Ricordiamo il caso Roberto Benigni, il primo a scatenare questa guerra.

Rispondendo alla domanda di Ezio Mauro se non avesse paura di passare per “renziano” confessando di votare Sì al referendum costituzionale, Benigni la scorsa primavera ha rivendicato il diritto di votare come pensa e non per conformarsi a chi non si conforma. E il diritto di votare implica il diritto di schierarsi: “Non voglio rimanere neutrale, lavarmene le mani dicendo che faccio l’artista, voglio essere libero. E la libertà non serve a nulla se non ti assumi la responsabilità di scegliere ciò che credi più giusto”. Risposta pertinente perché coerente ai due principi aurei della democrazia liberale e non plebiscitaria: votare con la propria testa e non con quella del leader, e rivendicare il valore del voto che è e non può che essere partigiano. Voto schierato non voto plebiscitario. È questa la distinzione che oggi è difficile fare e mantenere. All’origine della difficoltà vi è stata la decisione di Renzi di identificare il Sì con la sua persona e il suo governo, trasformando il No automaticamente in un giudizio sulla sua persona e in una causa di instabilità politica. Chi non sta dalla sua parte è messo nell’“accozzaglia” degli sgradevoli.

Questa trappola ci ha impedito di battagliare da “partigiani amici”, come direbbe Machiavelli, e ci ha fatto essere “partigiani nemici”. I primi sono quelli che si schierano nella libera competizione delle idee per favorire o contrastare un progetto politico. I secondi sono quelli che personalizzano la lotta politica mettendo nell’arena pubblica non le ragioni pro e contro un progetto, ma le rappresentazioni colorite delle tipologie di chi sta da una parte e dell’altra. I primi si rispettano come gli avversari di una battaglia legittima, i secondi si offendono e creano le condizioni per un risentimento che sarà difficile da dimenticare.

È da anni, da quanto Berlusconi “scese in campo”, che la lotta politica ha preso la strada dello stile teatrale, della rappresentazione estetica – con forme mediatiche che hanno lo scopo di colpire le percezioni per mobilitare le emozioni e rendere la contesa radicale, non dialogica. Di creare identificazioni non forti nelle convinzioni ideali ma forti nella vocalizzazione e nella pittorica rappresentazione. Come se ogni battaglia fosse l’ultima, come se la catastrofe e il diluvio seguissero a una vittoria o a una sconfitta. È questo stile populista del linguaggio estetico e tutto privato (ingiudicabile con la ragione pubblica) che ha corroso negli anni la nostra abitudine alla lotta partigiana, trasformandola in un Colosseo, uno spettacolo che vuol vedere il sangue che colora di rosso l’arena.

Le ragioni a favore o contro sono spessissimo passate in secondo piano. Questo succede soprattutto oggi che siamo in dirittura di arrivo. Per cui i blog e i social network assalgono chi si schiera con il Sì come fosse un rinnegato, e offendono mortalmente chi vota No come fosse un nazi-fascista, un “falso” partigiano. A chi vota Sì è affibbiato il titolo di lacchè del potere, a chi vota No è appiccicata l’immagine della “palude”. Chi vota No sarebbe per la conservazione e chi vota Sì sarebbe per l’innovazione e intanto non si riesce a spiegare senza essere sbeffeggiati e sbeffeggiare che cosa si vuole preservare e che cosa si desidera innovare.

Siccome i sacerdoti del Sì non possono vantare, proprio come quelli del No, alcuna privilegiata saggezza, sarebbe stato opportuno mettere sul tappeto le questioni reali implicate in questa battaglia sulla nostra Costituzione: il carattere di questa nuova versione della Costituzione e gli effetti che potrebbe generare, soprattutto se accoppiata con l’Italicum (una legge dello Stato il cui peso ingombrante è stato accantonato da Renzi, con la promessa verbale a Gianni Cuperlo di rivederla dopo il 4 dicembre). Dicevano i teorici e i politici settecenteschi che hanno teorizzato e/o scritto le costituzioni che queste devono essere scritte per i demoni, non per gli angeli. E come Peter sobrio che scrive le regole per Peter ubriaco, le carte di regole e di intenti servono proprio per esorcizzare e contenere il potere, in particolare quello istituzionalizzato, nell’eventuale occorrenza che venisse tenuto da mani sconsiderate. Come Benigni, anche altri sostenitori del Sì riconoscono che il nuovo Senato è pasticciato; diversi, anche nel Pd, si preoccupano degli effetti combinati della riforma con l’Italicum, che contrariamente a quanto succede per i sindaci premia non chi ha raggiunto il cinquanta per cento, ma il quaranta per cento. È legittimo farsi queste domane e voler discutere di queste questioni. È legittimo che i cittadini democratici si preoccupino di sapere quando potere resterà a loro, quanta forza avrà la loro voce.

E invece, il clima è da mesi rovente, rabbuiato dalla retorica del plebiscito. Il manicheismo fa spettacolo ma non fa prendere decisioni sagge – la deliberazione democratica deve poter contare sul fatto che si entra in una discussione con un’idea e se ne può uscire con un’altra. Ma in questa campagna referendaria abbiamo dismesso i panni della discussione: ciascuno alla fine resta dell’idea che aveva all’inizio, mentre gli incerti e gli indifferenti saranno probabilmente colpiti da una battaglia più personalizzata che ragionata. Chi sta con Renzi e chi sta contro Renzi. Tutti ci siamo fatti e ci facciamo conformisti. A questo si giunge quando la Costituzione è fatta oggetto plebiscitario, o usata come un programma elettorale – per contare nemici e amici. Di costituzionale vi è davvero poco. Figuriamoci se questo fosse stato il clima dei Costituenti! Avremmo avuto la guerra civile non settant’anni di vita civile.

Quale che sia l’esito, dopo il 4 dicembre 2016 il nostro sarà un paese più diviso. Cui prodest?

L’ultima lezione di Noam Chomsky: un pacato invito alla rivolta

 

 

L’ultima lezione di Noam Chomsky: un pacato invito alla rivolta
Il documentario, intitolato Requiem for the American Dream, descrive una società frantumata, individualista e votata alla diseguaglianza.  di

«Durante la Grande Depressione, che io sono vecchio abbastanza da ricordare, la maggior parte dei membri della mia famiglia erano lavoratori disoccupati. Si stava male, ma c’era la speranza che le cose potessero andare meglio. C’era un grande senso di speranza. Oggi non c’è più». Iniziano così i 112 minuti di Requiem for the American Dream, frutto del lavoro di 4 anni di Peter Hutchison, Kelly Nyks e Jared P. Scott, un prodotto che più che un documentario somiglia alla lezione finale di un grande interprete dei nostri tempi, forse il più grande: Noam Chomsky.

Professore al MIT di Boston, ma soprattutto attivista e anima della sinistra americana per più di mezzo secolo, Chomsky, che ora ha 87 anni, parla con la calma e la tranquillità di un grande vecchio che, senza fretta e senza quel pathos tipico dell’indignazione, unisce i puntini che il capitalismo americano ha lasciato dietro di sé e descrive limpidamente l’esatta dimensione della sfida che abbiamo davanti. O della tragedia.

Al centro del discorso di Chomsky c’è il terrificante — seppur preannunciato — risveglio di una nazione dal cosiddetto “sogno americano”, quell’American Dream che ha lasciato sul campo una delle più gravi e profonde disuguaglianze della Storia moderna.

Chomsky parte dall’inizio della storia americana, dai giorni i cui i padri fondatori costituivano il Senato sulla base della missione molto precisa di proteggere la minoranza delle classi abbienti e limitare la democrazia, ovvero il potere della maggioranza. Una missione poi rafforzata e rilanciata negli anni Sessanta, come reazione alle proteste e all’organizzazione della popolazione. Una reazione potente, precisa, disarmante, che nemmeno lui stesso all’epoca seppe riconoscere, e che oggi lascia un mondo in rovina, con un sistema economico ridisegnato sulle esigenze della finanza, ma soprattutto con la programmatica trasformazione di una classe — i lavoratori — in una galassia informe di precari.

Disinformati da una informazione che da cane da guardia del potere si è trasformata in cane da guardia al servizio del potere, alienati dalla frammentazione del tessuto sociale e commerciale, isolati nell’economia del lavoro e nella stessa vita privata: la creatura sociale che ha preso il posto di quei lavoratori che tanto hanno spaventato la classe dirigente nel Novecento è franta, alienata, depressa e sempre più ignorante. È diventato un popolino che non sa più chi votare, schiavo dell’intrattenimento, marginalizzato nella vita politica.

Lo spettro che si aggirava per l’Europa a metà dell’Ottocento, ovvero quelle prima generazioni di lavoratori che seppero rispondere alla prima industrializzazione e che convinsero Marx a credere che potessero essere il motore del cambiamento e la materia umana dell’uomo nuovo, è ormai diventato il fantasma di se stesso. Un esercito di fantasmi sfruttati, ma soprattutto — ed è l’ultimo punto del decalogo di Chomsky — un esercito marginalizzato.

«Il 70 per cento della popolazione», dice Chomsky, «non ha alcun modo di influenzare la politica». L’attivismo esiste, ma è sempre più morbido, isolato, rannicchiato e di conseguenza inutile. La rabbia della gente si sta accumulando, conclude Chomsky, e «sta prendendo la forma di una rabbia non focalizzata, frustrata». Il risultato ce l’abbiamo già tutti davanti agli occhi tutti: la disintegrazione sociale, la lotta non più di una classe sfruttata e subalterna contro una classe superiore e abbiente, ma una lotta intestina tra poveri.

fonte l’INKIESTA che ringraziamo .

 

 

L’avventurismo del governo italiano che intende inviare militari italiani alle frontiere con la Federazione Russa

 

 

(da repubblica.it ) ” Un contingente di militari italiani sarà schierato in Lettonia, nell’ambito di una forza multinazionale Nato sotto comando canadese ­ complessivamente tra i 3 e i 4mila uomini sottoposti a rotazione ­ a difesa delle frontiere esterne con la Russia nelle repubbliche baltiche enella Polonia orientale. La notizia, emersa da un’intervista al segretario generale dell’Alleanza Atlantica, Jens Stoltenberg, viene confermata dai ministri Pinotti e Gentiloni. Con una precisazione: la missione non contraddice la politica italiana improntata al dialogo con la Russia. Ma Mosca accusa la Nato di creare nuove divisioni. Mentre in Italia le opposizioni insorgono e chiedono all’esecutivo di riferire al più presto a un Parlamento del tutto ignaro del prossimo impegno militare.”

L’Alleanza Atlantica ( NATO ), sopravvissuta alla guerra fredda si rigenera con il rilancio di nuove tensioni alle frontiere con la Federazione Russa. Il Patto di Varsavia non esiste più, la NATO invece viene rilanciata per una politica internazionale tesa a mettere in difficoltà la UE e ad impedire che l’Europa abbia una propria politica estera indipendente dagli USA.
Si parla di un contingente di 3 o 4 mila uomini ( azione simbolica ) da schierare con esercitazioni sulle frontiere esterne dell’Europa con la Federazione Russa.
Un’operazione che non ha alcuna valenza militare, serve solo a provocare, a creare ulteriori tensioni. L’Italia ha sempre curato le relazioni con la Russia, prima con l’URSS ora con la Federazione Russa. Il governo italiano partecipa con 140 militari a questa operazione di provocazione pericolosa senza che il Parlamento sia stato consultato. La compromissione dell’Italia in questa impresa dissennata ha un solo scopo: distruggere quel piccolo spazio di autonomia del nostro paese nella politica internazionale e rompere quelle relazioni commerciali ed economiche  con la Federazione Russa già messe in discussione dalle sanzioni.
In poche parole la ministra della Difesa Pinotti e il ministro degli Esteri stanno attivando un percorso pericoloso, inutile e fuori controllo.
Quando si scherza con il fuoco si rischia di bruciarsi le mani…

Crisi ambientali e migrazioni forzate di Guglielmo Ragozzino

La battaglia ambientale e la crisi dei rifugiati: l’ondata silenziosa oltre la fortezza Europa. Una raccolta di saggi e articoli pubblicata dall’associazione A Sud

Nel vecchio secolo la Fiat era considerata il peggio del peggio. Cattiva, ignorante, prepotente, paurosa. Tutti volevano trasformarla, molti abbatterla. Non che non sia cambiata abbastanza da allora, sotto l’urto dei tempi; ma negli anni è rimasta sempre la peggiore di tutte. I quotidiani della nuova sinistra che erano allora tre, si prodigavano offrendo soluzioni, talvolta impraticabili, spesso molto generose. Ho in mente un’immagine che mostrava una gigantesca Fiat, una imprendibile fortezza di cemento e mattoni che però aveva sopra al tetto un certo numero di minuscoli operai dotati di picconi che dall’alto e di lato, cercando di distruggerla cominciavano a farla a piccoli pezzi. Come sia andata a finire, qualcuno lo sa. Roberto Zamarin, il vignettista che disegnava Gasparazzo per “Lotta Continua” e quando aveva finito in redazione, a notte, partiva in macchina per distribuire il giornale, morì nella notte in un incidente stradale. Quanto alla Fiat, bastava aspettare e – come si è visto – si sarebbe cancellata da sé.

segue su fonte sbilanciamoci.info

Marcinelle, 8 agosto 1956: carbone in cambio di vite umane

di Fiorenzo Angoscini

libretto 3 [Oggi si sente spesso ripetere che l’attuale Unione Europea avrebbe tradito, con le sue misure economiche draconiane, lo spirito fondatore della stessa. Eppure, esattamente sessant’anni fa, la tragedia mineraria di Marcinelle aveva già rivelato il patto di sangue che fondava la CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio).
Il trattato costitutivo della stessa fu firmato a Parigi il 18 aprile 1951 ed entrò in vigore il 24 luglio 1952. Il “mercato comune” previsto dal trattato venne inaugurato il 10 febbraio 1953 per il carbone e il ferro e il 1º maggio seguente per l’acciaio. Il trattato aveva una durata di 50 anni e la CECA successivamente divenne parte dell’Unione europea. I paesi firmatari erano: Belgio, Francia, Repubblica Federale Tedesca, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi. S.M.]

Marcinelle, sobborgo operaio di Charleroi, lembo di terra vallona dove si è combattuto un frammento di guerra di classe, si trova nel cuore del bacino minerario dello stato artificiale belga.
Polvere nera di mina assassina. Umili abitazioni, piccoli esercizi commerciali di poco svago e relativo divertimento, al cui interno, come in tutto il borgo, si respirano miseria, povertà e silicosi.
Nel resto della nazione, quella con spirito fiammingo, sulle porte e vetrine dei pubblici locali, campeggia un cartello perentorio: “vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”.

marcinelle interdit A Le Bois du Cazier (nome della miniera vigliacca) torri di estrazione, un’infinità di pozzi innaturali, scavati, violentandola, nelle viscere della terra, ingoiano tutti i giorni, tramite montacarichi criminali, uomini (unici e veri infoibati) e vagoncini da riempire di carbone (coke) da barattare, poi, con le loro vite. Alti camini di ciminiere sputano in continuazione fumo e fuliggine insieme a sudore e sangue di immigrati. Una coltre di polvere grigiastra sporca case, giardini, parchi e monumenti.

segue su fonte CARMILLAONLINE

Poco testo e troppi video: così i social ci espongono alla demagogia

Poco testo e troppi video: così i social ci espongono alla demagogia
Lo scrittore iraniano Derakshan: «Una democrazia sana e rappresentativa ha bisogno più testi che video. Non è un problema americano o inglese, ma una minaccia alla nostra civiltà»

fonte La Stampa
I demagoghi di tutto il mondo, di destra o di sinistra, adorano la televisione. Questo mezzo lineare, emozionale e passivo, centrato sull’immagine, ha ridotto la politica a un reality. Come ha dimostrato Neil Postman in «Amusing Ourselves to Death»” (Ci divertiamo da morire) la televisione ha ampiamente abbassato il livello del dibattito pubblico nella maggior parte delle democrazie. Dagli Stati Uniti all’ Iran, dal Venezuela alla Francia, dall’ Egitto alla Russia, dall’ Italia alla Turchia, la competizione per l’audience è pari a quella per le elezioni. In molti paesi l’indice di ascolto è automaticamente tradotto in termini di voti.

E, cosa ancora più allarmante, internet, l’ultimo spazio pubblico dedicato alla parola dopo il declino del giornalismo scritto, si sta arrendendo al format televisivo. La versione della diretta proposta dai social network come Facebook e Twitter sta uccidendo il web e quindi anche il giornalismo scritto. Facebook è più simile al futuro della televisione che al web degli ultimi due decenni.

Una recente ricerca dell’università di Oxford dimostra che guardare video online è un fenomeno in crescita negli Stati Uniti e nella maggior parte del mondo tranne che in Nord Europa. Forse perché lì hanno un equilibrio più sano tra vita e lavoro e anche perché il loro sistema pubblico di istruzione incentiva ancora la lettura e il pensiero critico.

Intanto Facebook ha annunciato che presto i video domineranno gli aggiornamenti delle notizie, perché “comunicano una maggior mole di informazioni in un tempo molto più breve e quindi questa tendenza ci aiuta a diffondere più informazioni in molto meno tempo”, come dice Nicola Mendelsohn, vice presidente di Facebook.

Ciò conferma le mie riflessioni quando, uscendo da una prigione iraniana nel 2014, scoprii un internet completamente diverso dove il testo era in declino e andavano di moda le immagini, ferme o in movimento. Da pioniere del blog in Iran, quello che avvertii dopo sei anni di isolamento era che i blog, il miglior esempio di una sfera pubblica decentrata, erano finiti. Facebook e Instagram avevano ucciso i link esterni per massimizzare i profitti trattenendo gli utenti al loro interno e bombardandoli di pubblicità. Così facendo stavano ammazzando il web aperto, che si basava sui link. Internet è diventato sempre di più uno strumento d’intrattenimento piuttosto che uno spazio alternativo per la pubblica discussione. Peggio ancora, ho iniziato a notare uno strano disagio tra i giovani se dovevano leggere qualcosa più lungo di 140 caratteri.

Ovviamente il testo scritto non morirà mai, ma la capacità di comunicare attraverso l’alfabeto in molte società sta lentamente diventando un privilegio riservato a una piccola élite. Un po’ come nel Medioevo quando solo i politici e i monaci sapevano comunicare con l’alfabeto. Tutti gli altri sono destinati a diventare gli analfabeti del 21 secolo che principalmente comunicano con immagini, video – e naturalmente, emoji.

L’emergere di questa classe di illetterati, inchiodati ai loro vecchi apparecchi televisivi o alle loro personali tv mobili imperniate su Facebook, è una buona notizia per i demagoghi. Basti pensare a come Donald Trump ha magistralmente trasformato la formula televisiva nella sua macchina per le pubbliche relazioni pubblica e gratuita. Neil Postman ha spiegato in modo perfetto il perché nel suo libro del 1985. A suo giudizio negli Usa la differenza tra i discorsi pubblici del 18 o del 19 secolo e quelli attuali è che la pubblica opinione nell’era televisiva è un insieme di “emozioni piuttosto che di opinioni, ecco perché cambiano da una settimana all’altra, come dicono i sondaggi”. A suo avviso la natura della tv, che è di mero intrattenimento, produce solo disinformazione, che “non significa falsa informazione. Significa informazioni fuorvianti — fuori luogo, irrilevanti, frammentarie o superficiali  — informazioni che creano l’ illusione di conoscere qualcosa ma che in effetti allontanano dalla conoscenza”.

La copertura del recente referendum sulla EU da parte delle tv del Regno Unito rappresenta un buon esempio. Anche se erano conformi alle regole britanniche sull’ imparzialità, c’è chi pensa che i numerosi dibattiti dove entrambe le parti avevano lo stesso tempo per argomentare non abbiano reso giustizia a un tema delicato e complesso come la Brexit. Soprattutto ora che alcune affermazioni iniziali dei fautori del sì all’uscita dall’Unione, come i 350 milioni di sterline “dati ogni settimana all’ EU” per conto del sistema sanitario britannico, sono smentite dalle stesse persone che le avevano diffuse. C’era già molto materiale per confutarle disponibile sul web e sulla carta stampata. Ma parlare di numeri e di matematica in tv è sempre noioso e inutile. (un proverbio persiano recita così, “uno stupido getta una pietra in un pozzo, ma un centinaio di saggi non riescono a tirarla fuori.”).

Justin Webb, ex direttore della BBC per il Nord America, è arrivato al punto di dare la colpa alle regole di imparzialità vigenti. La scorsa settimana ha scritto su Radio Times: “Uno dei messaggi più chiari durante la campagna referendaria era che il pubblico agognava la verità. La gente voleva andare oltre i proclami e i contro proclami e capire che cosa c’era di vero.” Il Guardian suggeriva che “i media dovrebbero rivedere il loro modo di coprire la politica e di informare alla luce del voto per lasciare l’Unione europea”. Il tramonto del giornalismo scritto sia sulla carta stampata che sul web, significa discorsi politici super semplificati ed emotivi, partecipazione politica disinformata, e naturalmente, più demagogia nel mondo.

È difficile dire se sia stato prima il pubblico a chiedere più video, o se siano stati i media che, spaventati dalla prospettiva di tecnologie in grado di bloccare la pubblicità, abbiano iniziato la rincorsa ai video, che attirano più pubblico, portano più pubblicità e più difficile da bloccare. E nondimeno, affrontiamo le gravi conseguenze di questa svolta per il futuro delle nostre democrazie. È chiaro che per una democrazia sana e rappresentativa abbiamo bisogno più testi che video, almeno per resistere alle demagogie che si autoalimentano. Questo non è un problema americano o inglese. Questa è una minaccia alla nostra civiltà.

Traduzione di Carla Reschia

*Hossein Derakhshan (@h0d3r) è un autore iraniano-canadese, un giornalista freelance e un analista dei media. Ha scritto “The Web We Have to Save (Matter)” ed è l’ideatore di “Linkage”, un progetto artistico collettivo per promuovere i link esterni e il web aperto.

RÍO 2016: ¿QUÉ SERÁ DE LOS DERECHOS HUMANOS DURANTE LOS JUEGOS?

por Mathilde Dorcadie

 

En agosto, la ciudad de Río de Janeiro deberá recibir un millón de visitantes para uno de los acontecimientos de mayor interés mediático del año 2016. La policía y las fuerzas armadas tendrán que responder al doble reto de proteger la seguridad de los turistas y de las delegaciones deportivas, al mismo tiempo que garantizan los derechos de la población local.

No obstante, la política pro seguridad adoptada y las cifras de la violencia policial de los últimos años hacen que tanto las organizaciones no gubernamentales como los observadores pongan en duda el comportamiento ejemplar de las futuras operaciones policiales durante la celebración de los Juegos Olímpicos y Paralímpicos.

<p>La policía de Río, a menudo acusada de graves violaciones de los derechos humanos, preparada para garantizar la seguridad pública durante los Juegos Olímpicos de este verano.</p>
La policía de Río, a menudo acusada de graves violaciones de los derechos humanos, preparada para garantizar la seguridad pública durante los Juegos Olímpicos de este verano.(Mathilde Dorcadie)

Durante todo el período de competiciones, no menos de 85.000 representantes de las fuerzas del orden estarán sobre el terreno para garantizar la seguridad en Río de Janeiro: la policía civil, la policía militar, soldados de la Fuerza Nacional de Seguridad Pública (unidad especial del Ministerio de Justicia), tropas del Ejército, pero también brigadas de seguridad financiadas por el sector privado (por ejemplo, la operación “Seguridad Presente”, creada en colaboración con una asociación de comerciantes); cuenta, además de vehículos blindados de última generación, con equipos caninos, robots anti-bombas y dispositivos aéreos no tripulados mejor conocidos como “drones”.

Todo este dispositivo será coordinado por la Secretaría brasileña de Seguridad para Grandes Eventos Secretaria Extraordinária de Segurança para Grandes Eventos (SESGE), una entidad creada específicamente dentro del Ministerio de Justicia, que en Brasil recubre parcialmente las competencias del Ministerio del Interior.

Para el profesor e investigador en políticas de seguridad pública, Antônio Falvio Testa, de la Universidad de Brasilia, Brasil está preparado para recibir el evento deportivo en lo que concierne a la seguridad. “Todo debería transcurrir sin problemas, como ha transcurrido sin incidentes en la Copa Mundial, la Copa de las Confederaciones, las Jornadas Mundiales de la Juventud…”, comenta a Equal Times.

“El problema no es tanto la cuestión del terrorismo procedente del exterior, sino la amenaza interna de las organizaciones criminales”.

De hecho, desde la adjudicación de los Juegos a la ciudad de Río de Janeiro en 2009, se discutió el tema de la seguridad pública entre los organizadores, las autoridades y el Comité Olímpico. Brasil es un país en el que las estadísticas de la violencia armada y las tasas de homicidio se sitúan entre las más altas del mundo, salvo en los conflictos militares.

En el año 2014 se registraron casi 60.000 homicidios, según el Atlas de la violencia publicado por el Foro brasileño de seguridad pública. Pese a los esfuerzos de los últimos años, las estadísticas en materia de delincuencia y violencia no son mejores y, según el Instituto de Seguridad Pública (ISP, organismo gubernamental), las cifras han sido aún superiores en Río de Janeiro para los primeros meses de 2016 en lo que se refiere a robos y asaltos a mano armada.

 

“Limpieza social”

Entre los homicidios, las organizaciones de derechos humanos denuncian los perpetrados por las fuerzas de policía, en circunstancias que no siempre son legítimas ni adecuadamente esclarecidas.

Para la oficina local de Amnistía Internacional, las operaciones de seguridad destinadas a reducir la criminalidad y a pacificar las favelas ante la perceptiva de acoger eventos como la Copa Mundial o los Juegos Olímpicos, tienen lugar en detrimento de la población local. En siete años de preparación, “han sido asesinadas por la policía 2.500 personas, solamente en la ciudad de Río de Janeiro, y han sido muy contados los casos en los que se ha obtenido justicia”, denunció Atila Roque, director ejecutivo de Amnistía Brasil, en la presentación del último informe publicado por este ONG.

Peor aún, se han señalado varios casos de “ejecuciones extrajudiciales”, es decir, homicidios en situaciones en donde las víctimas no estaban armadas ni opusieron resistencia.

En el curso de la última década, según la ONG, muere cada día una media de casi dos personas a manos de los representantes de las fuerzas del orden.

Además de los homicidios, los defensores de los derechos humanos denuncian también la detención irregular de personas sin hogar, de jóvenes negros y pobres que se encuentran en la playa, así como los desalojos forzados brutales y controvertidos, lo que ha llevado a organizaciones como la ONU a hablar de“limpieza social” de la ciudad, subrayando especialmente el alarmante número de casos que involucra a menores.

Para la abogada Karina Quintanilha, que defiende en Sao Paulo a víctimas de la violencia policial, existe “una voluntad de generar un clima de miedo, ante la proximidad del evento, entre aquellos a los que las autoridades consideran como ‘enemigos’ del orden público”. Recientemente llevó los casos de violencia contra estudiantes de enseñanza secundaria ante la Corte Interamericana de Derechos Humanos en Washington.

“Se constata un endurecimiento de la represión desde las grandes manifestaciones de junio de 2013, tanto de parte de la policía como del poder político y judicial”.

Alexandre de Moraes, el nuevo ministro de Justicia, nombrado en el Gobierno interino en mayo tras la marginación de Dilma Rousseff, es el representante de esta línea dura. “Como secretario de Seguridad Pública del Estado de San Pablo, su cargo anterior, hizo grandes inversiones en equipo antidisturbios, desarrolló nuevas tácticas de mantenimiento del orden y apoyó la creciente criminalización de todo acto cometido por manifestantes”, señala Karina Quintanilha.

“Es un poco como si el Estado de San Pablo hubiera sido su laboratorio. Y no sabemos lo que es capaz de hacer a escala nacional”.

El Gobierno interino está en funciones por un período aún indefinido. Pero lo que es seguro es que las leyes pro seguridad, promulgadas por la presidenta Rousseff, se encontrarán en vigor en el momento de los Juegos Olímpicos, lo que inquieta a activistas y manifestantes.

Por ejemplo, la ley antiterrorista, aprobada en marzo, tiene especialmente preocupada a la organización Artigo 19, que lucha por el respeto de la libertad de expresión, de opinión y de manifestación.

Camila Marques, abogada dentro de esta organización, explica que “esta ley es peligrosa porque es vaga y deja demasiado margen a la interpretación de los jueces. Fue aprobada de forma extremadamente rápida sin debate público”.

Algunas acciones militantes, por ejemplo, para denunciar los abusos en la preparación de los Juegos ahora pueden tener cabida en el ámbito de esta ley, socavando así la libertad de opinión.

Por otra parte, una ley especial hecha a petición del Comité Olímpico Internacional, la Ley general de los Juegos Olímpicos, también restringirá el derecho a circular y a manifestar en algunos lugares y prevé penas de hasta un año de prisión para aquellos que utilicen o desvíen la “marca olímpica” a efectos críticos.

A juicio de Camila Marques, “lamentablemente, los grandes acontecimientos deportivos siempre han tenido dificultades para respetar los derechos humanos, y Brasil no es la excepción”.

FONTE EQUALTIMES.ORG

Este artículo ha sido traducido del francés.

Luigi Ferrajoli Un monocameralismo imperfetto per una perfetta autocrazia

Luigi Ferrajoli
Un monocameralismo imperfetto per una perfetta autocrazia
1. Potere di revisione costituzionale e potere costituente – C’è un fatto che accompagna, da circa trenta anni, la lunga crisi della democrazia italiana. All’aggravarsi di tutti i suoi aspetti – il discredito e lo sradicamento sociale dei partiti, la loro subalternità all’economia e alla finanza, la loro opzione comune e sempre più esplicita per le controriforme in materia di lavoro e di stato sociale – ha fatto costantemente riscontro il progetto di indebolire il Parlamento e di rafforzare il governo, tramite modifiche sempre più gravi della seconda parte della Costituzione repubblicana: dapprima, negli anni Ottanta e Novanta, i tentativi delle  Commissioni Bozzi, De Mita-Jotti e D’Alema; poi l’assalto ben più di fondo alla Costituzione da parte del governo Berlusconi con la riforma del 2005, scritta dai cosiddetti “quattro saggi” in una baita di Lorenzago e bocciata dal referendum del giugno 2006 con il 61% dei voti; infine l’ultima, non meno grave aggressione: la legge di revisione costituzionale RenziBoschi approvata il 12 aprile 2016, sulla quale si svolgerà il referendum confermativo nel prossimo ottobre. Di nuovo, come sempre, l’argomento a sostegno della revisione, oltre a quello penoso e demagogico della riduzione dei costi della politica, è stato la necessità di accrescere la “governabilità” nel tentativo, ancora una volta, del ceto di governo di far ricadere sulla nostra carta costituzionale la responsabilità della propria inettitudine.        L’attuale revisione costituzionale investe l’intera seconda parte della Costituzione: ben 47 articoli su un totale di 139. Non è quindi, propriamente, una “revisione”, ma un’altra Costituzione, diversa da quella del 1948. Ma la nostra Costituzione non consente l’approvazione di una nuova Costituzione, neppure ad opera di un’ipotetica assemblea costituente che pur decidesse a larghissima maggioranza. Il solo potere ammesso dall’articolo 138 della nostra Costituzione è un potere di revisione, che non è un potere costituente ma un potere costituito.

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Il Pd non ha capito che cosa succede

Il Pd non ha capito che cosa succede

fonte Blog Giubberosse

Leggi le reazioni all’intervista durissima di D’Alema o a quelle di Bersani e Bassolino e capisci che nel Pd non capiscono quello che sta succedendo fuori dal Palazzo. No, proprio non c’è verso, altro che cambiaverso e lavoltabuona.
Il problema non sono D’Alema, Veltroni, Bersani (che pure sono tre ex segretari, mica passanti), il problema non è Prodi (che pure è un ex due volte premier e presidente della Commissione Ue, mica un professore emerito), il problema non è Bassolino (che pure è un ex sindaco ministro presidente di Regione, mica un podista della domenica). No, il problema vero non sono loro che a volte sbagliano a volte l’azzeccano come succede a ogni essere umano che non sia illuminato da qualche Sacra Missione.
Il problema vero è che c’è un’incazzatura in giro contro un Pd autoreferenziale, dove il massimo di espressione dirigente è, come scrive oggi Reichlin,  ripetere a pappagallo le frasi del Capo e dove si tenta di nascondere sotto il tappeto ogni problema perché tanto è roba da gufi. Un partito capace di non scandalizzarsi se qualcuno gonfia le schede bianche e nulle alle primarie di Roma perché che volete che sia. Che non si scandalizza se alle primarie di Napoli c’è chi pagava gli elettori fuori dai seggi e chi faceva votare esponenti di destra dentro i seggi perché tanto il risultato non cambia e quindi niet al ricorso legittimo di Bassolino battuto per soli 452 voti. Un partito che ha fatto dell’apologia del leader e delle sue gloriose corse verso il futuro luminoso la sua ragione politica. Un partito che esalta con immaginifica enfasi qualche zero virgola in economia credendo di aver raggiunto i mirabolanti obiettivi di un novello piano quinquennale. Un partito infine che non sa più distinguere il vero dal falso e non ha nemmeno la più pallida idea di che cosa sia la vita reale dell’Italia reale.
No, il problema non sono D’Alema, Prodi, Bersani o Veltroni perché di loro come di ogni leader democratico che si rispetti si può anche fare a meno. Il problema sono quegli elettori che sono stanchi di propaganda, stanchi di sentire sempre le stesse parole sempre su di giri, stanchi di essere raggirati quando votano alle primarie e non possono fidarsi di chi dirige il traffico dello spoglio, stanchi di sentirsi definire truppe cammellate di qualche capobastone se decidono di non andare ai gazebo. Stanchi a tal punto che spesso non sanno più per chi votare e se votare.
Ecco qual è il vero problema cari dirigenti del Pd. Voi potrete continuare a far finta di niente, a dire che l’Italia corre e voi con lei, che chi non corre gufo è e che le primarie sono state un trionfo di popolo e di partecipazione e che tutti quelli che la pensano diversamente sono da asfaltare.  Ma il rischio è che alla fine di questa fantasmagorica marcia trionfale sia asfaltata la sinistra. E resti un triste desolante deserto.

fonte blog giubberosse

La sindrome del socio Conad della pubblicità e Mauro Felicori  

 

 

Conosco da anni Mauro Felicori, da bolognese come lui non mi stupisce il fatto che lavori fino a tardi…

La sindrome del socio Conad della pubblicità che si alza nel cuore della notte per andare a verificare che gli yogurth stiano bene al fresco e le mortadelle non rotolino da sole dagli scaffali si attaglia bene al neo direttore della Reggia cui auguro pieno successo nella sua impresa. Una domanda tuttavia mi viene spontanea : perché in questo paese è ancora così forte la retorica stakanovista ? Vi era un tempo in cui la Pravda descriveva come all’interno del Cremlino vi fosse una finestra con la luce sempre accesa , era quella dello studio del compagno Stalin che lavorava tutta la notte per la patria del socialismo. Qualcosa del genere si può ritrovare anche nella stampa degli anni 30 del secolo scorso, quando il crapone romagnolo si attardava fino alle prime luci dell’alba a Palazzo Venezia per lavorare per il popolo italiano…. L’elenco potrebbe continuare con altri personaggi meno detestabili dei due sopracitati.
Ritengo tuttavia sia doveroso smontare l’ondata di retorica stakanovista di molti quotidiani che hanno approfittato del documento scritto da due o tre sprovveduti  e assai “ingenui” rappresentanti sindacali. Infatti per chi conosce un po’ le nuove teorie di management organizzativo in uso in grandi aziende sa bene che viene giudicato molto negativo il fatto che un dirigente si attardi a notte fonda in ufficio : vuol dire che non sa usare bene le ore diurne, che si è organizzato male. In diverse multinazionali e proibito rimanere in ufficio oltre l’orario previsto dal contratto o da regolamento aziendale. Infatti non serve che uno arrivi al lavoro il giorno dopo stracotto.
È ancora, grandi aziende tedesche e USA hanno adottato nei loro server aziendali programmi che interrompono dopo l’orario di lavoro al sabato e alla domenica il recapito
ai dipendenti di email di lavoro… Voglio dire che la canea sollevata su questo caso è molto provinciale e superficiale. Certo , e’ possibile che vi siano aree di fannullismo che vanno combattute ma queste non si sconfiggono con la retorica stakanovista che è l’altra faccia del problema, occorrono relazioni e regole chiare per tutti perché bastino le ore di lavoro normali per fare funzionare il tutto.
Ancora un augurio a Mauro perché consegua fino in fondo i risultati che si è prefisso e un augurio anche agli sprovveduti sindacalisti locali: ragazzi studiate studiate studiate e pensateci bene prima di scrivere documenti che fanno del danno ai lavoratori e al sindacato…

RAVENNA, SALUTE E SICUREZZA NEL LAVORO OGGI, INTERVISTA AD ANDREA MARCHETTI

SALUTE E SICUREZZA NEL LAVORO A RAVENNA
INTERVISTA AD ANDREA MARCHETTI CGIL RAVENNA

 


Abbiamo intervistato Andrea Marchetti, responsabile per la Cgil del Coordinamento Salute e Sicurezza nel Lavoro sullo stato dell’arte nel territorio di Ravenna.
Come stanno andando le cose a Ravenna, un territorio con molte realtà produttive di grande complessità, dal porto all’industria chimica ove la gestione dei rischi da parte delle aziende è il fattore primario per evitare gravi incidenti sul lavoro e ridurre l’impatto sulla salute non solo dei lavoratori ma anche della popolazione ?
Queste ed altre sono le domande che abbiamo rivolto ad Andrea Marchetti.

L’INTERVISTA

Relazione sull’indagine sul caporalato svolta dalla Commissione del Senato in seguito alla morte della bracciante Paola Clemente

 

 

Relazione sull’indagine sul caporalato svolta dalla Commissione del Senato in seguito alla morte della bracciante Paola Clemente

Relazione relativa all’indagine, istituita l’8 settembre 2015 dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali del Senato, in merito al decesso della sig.ra Paola Clemente, il 13.07.2015 in Andria  ( Bari)

IL RAPPORTO

Mister Eternit blocca il libro sul disastro ambientale

LA CENSURA SU AMAZON

Mister Eternit

Mister Eternit blocca il libro sul disastro ambientale

di Piero Bosio
Domenica 06 dicembre 2015 ore 02:39
“Quel libro non deve uscire su Amazon nella sua versione inglese. Bloccatelo”. E così è stato. Il capo dell’Eternit Stephan Schmidheiny ha scatenato i migliori avvocati svizzeri per bloccare l’uscita dell’ e-book promosso dalla casa editrice Falsopiano e l’Isral (Istituto storico della Resistenza di Alessandria).

Il libro digitale in versione inglese, dal titolo The Big Trial (Il Grande Processo) , era stato scritto dal magistrato Sara Panelli, uno dei tre pubblici ministeri (insieme a Guariniello e Colace) del maxi processo di Torino contro l’Eternit , e da Rosalba Altopiedi, consulente per la Procura in quella inchiesta. Il testo racconta e ricostruisce alcune fasi del processo Eternit e del principale accusato, Stephan Schmidheiny.

> l’articolo segue sulla fonte radiopopolare.it

commento: Mr Eternit non è stato assolto dalle accuse per cui era stato condannato in primo e secondo grado di giudizio, il processo non ha potuto concludersi con la conferma delle condanne di primo e secondo grado in quanto i reati erano caduti in prescrizione ….

Il Rapporto sul terrorismo globale

 

report

Il Rapporto sul terrorismo globale

Maurizio Murru

Nel 2014, le vittime del terrorismo sono state 32.658, un aumento dell’80% rispetto alle 18.111 del 2013. Il 78% di esse è concentrato in cinque paesi: Afghanistan, Iraq, Nigeria, Pakistan e Siria. Dal 2000, quando furono 3.329, sono aumentate nove volte. Boko Haram, l’organizzazione terrorista più sanguinaria.

Global Terrorism Index 2015

È da poco stato pubblicato il “Global Terrorism Index 2015”. Una analisi documentata e ad ampio raggio eseguita dall’Institute for Economics and Peace, un gruppo di studio senza scopo di lucro con sedi a Sidney, New York e Città del Messico (www.economicsandpeace.org). Questo studio esamina 162 paesi che, assieme, contengono il 99,6% della popolazione mondiale. Ne tentiamo una sintesi. Quando non altrimenti specificato, i dati citati provengono da questo documento che chiameremo, per semplicità, “il Rapporto”.

l’articolo segue alla fonte su saluteinternazionzale.info

TTIP: UNA MINACCIA PER LE NORME EUROPEE E NAZIONALI CHE REGOLANO AMBIENTE LAVORO SALUTE

TTIP: UNA MINACCIA PER LE NORME EUROPEE E NAZIONALI CHE REGOLANO AMBIENTE LAVORO SALUTE

Non so quanti lettori conoscano sia pure in superficie cosa è il TTIP e i relativi rischi di azzeramento dei sistemi giuridici degli stati membri dell’Europa che tutelano ambiente, diritti dei lavoratori e salute, intesa come diritto alla salute dei cittadini.

Il fatto che la maggioranza dei cittadini non conosca cosa sia il TTIP, quale sia il merito e il contenuto di questi accordi, quali impatti positivi e negativi potranno avere sulla vita quotidiana, non è un caso, è il risultato di una scelta politica dei governi e della Commissione Europea che ha emarginato il ruolo dello stesso Parlamento europeo rispetto alla trattativa.

La mancanza d’informazione su questo Trattato è inversamente proporzionale alla sua importanza e alla sua capacità di influire sulle nostre vite future.

Il TTIP è un trattato internazionale quadro composto da una serie di negoziati specifici sul commercio che ha lo scopo di de/regolamentare il commercio tra Stati Uniti ed Europa.

Per raggiungere questo risultato il TTIP prevede di ridurre se non eliminare  le barriere regolamentari esistenti e differenti tra USA ed Europa: in particolare, l’Unione Europea dovrà abbassare  le barriere poste per la protezione dell’ambiente, della salute dei consumatori attraverso le politiche di deregolamentazione del cibo e di altri prodotti, limitare la tutela del consumatore, dovrà  riconsegnare al mercato le prestazioni sanitarie erogate dai SSN pubblici, in modo da agevolare gli scambi con gli operatori statunitensi che operano in un regime meno regolamentato.

Il TTIP prevede l’istituto del ISDS (Investor-state dispute settlement) anche noto come “trattato per la risoluzione delle controversie tra investitore e stato” il quale consentirà alle aziende di far causa ai governi citandoli davanti ad un collegio arbitrale costituito da tre avvocati esperti di diritto societario. Si tratterebbe di un collegio arbitrale dove le altre parti in causa non avrebbero alcuna rappresentanza e che non prevede alcuna possibilità di riesame davanti ad un’autorità giudiziaria.

L’inserimento di questa clausola in alcuni trattati commerciali già esistenti (ma d’importanza inferiori a quella del TTIP) ha permesso ad una serie di grandi aziende multinazionali  di opporsi alle decisioni prese da alcuni governi allo scopo di fornire una protezione a beni costituzionamente indisponibili alle logiche di scambio, quali l’ambiente e la salute dei cittadini, citando gli Stati in giudizio.

Alcuni esempi tratti dalla stampa internazionale: la Philip Morris sta già facendo causa ai governi di Uruguay e Australia per le loro politiche dure contro il fumo;  Occidental, un’azienda petrolifera, ha ottenuto un risarcimento di 2,3 miliardi di dollari dall’Ecuador, reo di aver revocato all’azienda la concessione per le trivellazioni in Amazzonia dopo aver scoperto che la stessa aveva infranto la legge. La Vattenfall ha intentato causa al governo tedesco, responsabile di aver rinunciato all’energia nucleare. Un’azienda australiana ha citato in causa il governo di El Salvador che non aveva dato le concessioni di sfruttamento per una miniera d’oro che rischia di inquinare l’acqua potabile.
Con questa  logica  le multinazionali dell’amianto potrebbero promuovere cause di risarcimento per gli investitori chiamando in causa i governi che hanno messo al bando la produzione e il commercio di manufatti in amianto….

I mass media italiani non hanno speso una parola per informare i cittadini sul percorso “occulto” di questi negoziati. Quelli che ne hanno parlato hanno riprodotto le veline della Commissione Europea.

Il governo per voce del Presidente  del Consiglio ha affermato che il TTIP una volta approvato sarà una grande opportunità …. Non ha precisato per chi .

Sabato 10 ottobre u.s. sono stato testimone a Berlino, città dove risiedo per alcuni mesi ogni anno,  di una straordinaria e pacifica manifestazione che ha visto sfilare da HauptBanhof alla stele Siegessaule più di 200 mila persone, uomini donne, famiglie con i figli in carrozzina che aveva come slogan STOP TTIP. La manifestazione è stata promossa da sindacati dei lavoratori dipendenti DGB, VER.DI, IG METALL,  da associazioni di produttori agricoli, da centinaia di associazioni ambientali e di promozione del welfare…

La richiesta più decisa oltre a richiedere lo STOP degli attuali negoziati è quella della trasparenza, del diritto dei cittadini a conoscere con precisione i termini del trattato. Conoscenza che è stata negata agli stessi parlamentari  europei che hanno potuto sbirciare alcuni documenti in una sala speciale senza quaderni o penne per prendere appunti…
Abbiamo parlato di TTIP perche avrà, se non sarà fermato, effetti devastanti  anche sulle legislazioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Per questo motivo invitiamo i lettori a documentarsi e ad essere vigilanti ed esigenti per quanto riguarda la trasparenza.

Gino Rubini, editor

Riferimenti e Documenti

1) TTIP, nessun vincolo su ambiente, clima e lavoro

http://www.vita.it/it/article/2015/10/26/ttip-nessun-vincolo-su-ambiente-clima-e-lavoro/137122/

2) FILTRA LA PROPOSTA EUROPEA SULLO SVILUPPO SOSTENIBILE NEL TTIP: TANTI BUONI PROPOSITI, NESSUN VINCOLO A RISPETTARLI

http://stop-ttip-italia.net/2015/10/26/ttip-e-sviluppo-sostenibile-nessun-vincolo-solo-parole/

3) TTIP: trattato Usa-Ue sul commercio, lati oscuri e rischi che i governi non contino più nulla

http://www.repubblica.it/solidarieta/equo-e-solidale/2015/07/09/news/ttip_il_trattato_della_discordia_sul_commercio_usa-ue-118729492/

4)FERMA IL TTIP

http://www.greenpeace.org/italy/it/Cosa-puoi-fare-tu/partecipa/stop-ttip/

5) Berlin anti-TTIP trade deal protest attracts hundreds of thousands

http://www.theguardian.com/world/2015/oct/10/berlin-anti-ttip-trade-deal-rally-hundreds-thousands-protesters

6) TTIP: Jeremy Corbyn, Nigel Farage, Nicola Sturgeon and Natalie Bennett sign appeal to exempt NHS from trade deal
The organisers, from Unite, say that they approached the Conservatives asking for support but were refused

http://www.independent.co.uk/news/uk/politics/ttip-jeremy-corbyn-nigel-farage-nicola-sturgeon-and-natalie-bennett-sign-appeal-to-exempt-nhs-from-a6708156.html

Parlamento non voterà la legge elettorale ma un plebiscito per Renzi

Questa è la lettera che il presidente del Consiglio e segretario del Pd ha inviato questa mattina ai militanti, indirizzata ai segretari dei circoli dem. La lettera giunge mentre alla Camera si avvia la discussione in aula sulla legge elettorale

Care compagne e compagni, care amiche e cari amici, care democratiche e cari democratici,
scrivo a voi responsabili dei circoli del nostro partito in un momento delicato della vita istituzionale del Paese.

Dopo anni di crisi e di austerità, finalmente l’Italia inizia a rimettersi in moto. Le regole europee stanno cambiando, anche grazie al fatto che il PD è stato il partito più votato d’Europa. Migliaia di persone vedono trasformato il proprio lavoro precario in un contratto a tutele crescenti e conoscono finalmente il significato di parole come mutuo, ferie, diritti. I provvedimenti sull’economia – dagli 80 euro fino alla decontribuzione per i nuovi assunti – stanno spingendo molti settori a ripartire e le previsioni dei prossimi mesi sono finalmente positive (grazie anche ad eventi come Expo su cui abbiamo fatto pulizia perché crediamo profondamente che sarà una grande opportunità per l’Italia e un’occasione di confronto globale su temi come la lotta alla fame e la povertà).

Stiamo lavorando duro sulla giustizia: grazie al lavoro del PD è nata finalmente l’Autorità Anti Corruzione, si è introdotto il reato di autoriclaggio, la responsabilità civile dei magistrati, regole più serie per la custodia cautelare. E tra qualche settimana saranno legge le nuove norme sulla corruzione (pene più dure, prescrizione più difficile), sul falso in bilancio, sui reati ambientali, sui furti in appartamento. Una nuova stagione dei diritti si è aperta, dopo anni di tentennamenti: dal divorzio breve fino alla legge sul terzo settore, passando dalla discussione parlamentare sulla cittadinanza e sulle unioni civili.
La rivoluzione digitale porterà fisco e pubblica amministrazione a cambiare passo, smettendo di essere controparte degli utenti, ma finalmente consulenti e amici del cittadino. La fatturazione elettronica, la dichiarazione precompilata, l’imminente pin unico dimostra che possiamo davvero rendere questo Paese più semplice e efficiente. Per questo l’infrastruttura più grande sulla quale stiamo lavorando è quella digitale, la rete banda ultra larga. Ma non dimentichiamo la necessità di mettere in sicurezza le opere lasciate a metà da una burocrazia che ha visto negli appalti pubblici lavorare più gli avvocati che gli ingegneri: ecco perché il codice appalti, ad esempio, è fondamentale per dare regole certe e portare a compimenti i lavori. Ed ecco perché abbiamo sbloccato le opere contro il dissesto idrogeologico.

La vera sfida però riguarda la possibilità di tornare a investire nel capitale umano. Sulla ricerca, sull’innovazione, sulle città sostenibili. E tutto parte dalla scuola. Il nostro disegno di legge – maturato dopo una campagna di ascolto lunga mesi – può essere migliorato ancora. Siamo aperti e pronti all’ascolto. Ma un punto deve essere chiaro: la scelta dell’autonomia è decisiva. Significa che la scuola non deve essere nelle mani delle circolari ministeriali e dei sindacati, ma dei professori, delle famiglie, degli studenti. Grazie alle scelte del PD in Parlamento per la prima volta dopo anni ci saranno più soldi per le scuole e per l’edilizia scolastica, si torna ad assumere e si faranno di nuovo i concorsi, i professori avranno più risorse per la loro formazione, il merito dovrà essere valutato in modo puntuale e dagli asili nido al diritto allo studio il sistema educativo sarà più giusto.

Lo stiamo facendo in un momento non facile. Avanza in Europa un’ondata di contestazione che è forte in tutti i Paesi, a cominciare dalla Francia di Le Pen. In Italia questa sfida demagogica è incardinata su due forze, non solo su una: la Lega di Salvini, i Cinque Stelle di Grillo. Il PD è stato argine a questa deriva, grazie alla scelta di fare le riforme attese da anni su cui altri governi si sono, invece, fermati e impantanati in passato. Le riforme istituzionali e costituzionali sono il simbolo di questa battaglia. C’è chi contesta il sistema e chi propone di cambiarlo: noi siamo questo cambiamento, possibile e necessario.

Gli italiani ci hanno dato credito. Eravamo al 25% nel 2013, siamo passati al 41% nel 2014. In un anno abbiamo aumentato in modo incredibile il consenso. Abbiamo vinto nel 2014 cinque regioni su cinque: una era l’Emilia Romagna, le altre quattro le abbiamo strappate al centrodestra. Siamo oggi la forza politica che può restituire speranza e orgoglio all’Italia. Ma non possiamo fare melina. Non possiamo puntare a star qui solo per conservare la poltrona: siamo al Governo per servire l’Italia, cambiandola. Non ci abitueremo mai alla palude di chi vorrebbe rinviare, rinviare, rinviare.

Ecco perché la legge elettorale che domani va in Aula alla Camera diventa decisiva. Non solo perché è una legge seria, in linea con le precedenti proposte del nostro partito. Ma anche perché non approvare la legge elettorale adesso significherebbe bloccare il cammino di riforme di questa legislatura. E significherebbe dire che il PD non è la forza che cambia il Paese, ma il partito che blocca il cambiamento. Sarebbe il più grande regalo ai populisti. Ma sarebbe anche il più grande regalo ai tanti che credono nel potere dei tecnici: quelli che pensano che la parola politica sia una parolaccia e bisogna affidarsi ai presunti specialisti che ci hanno condotto fin qui, prima dell’arrivo al governo del PD.

Nel merito la legge elettorale è modellata sulla base dell’esperienza dei sindaci. Chi vince governa per cinque anni. È previsto il ballottaggio. Il premio è alla lista per evitare che i partiti più piccoli possano dividersi dal giorno dopo le elezioni e mettere veti. Circa la metà dei seggi viene attribuita a candidati espressione del collegio (candidato di collegio, non più liste bloccate come nel porcellum) e l’altra metà con preferenze (massimo due, una donna e un uomo). Si può sempre fare meglio, per carità. Ma questa legge rottama il Porcellum delle chilometriche liste bloccate con candidati sconosciuti e il Consultellum che tanto assomiglia al proporzionale puro della prima repubblica, imponendo inciuci e larghe intese.

Questa legge l’ha voluta il PD. L’abbiamo definita una urgenza e ora dovremmo fermarci? L’abbiamo proposta alle primarie del dicembre 2013, con due milioni di persone che ci hanno votato. L’abbiamo ribadita alla prima assemblea a Milano. L’abbiamo votata in direzione a gennaio 2014. L’abbiamo votata, modificata sulla base delle prime richieste della minoranza interna, alla Camera nel marzo 2014. L’abbiamo di nuovo modificata d’accordo con tutta la maggioranza e l’abbiamo votata al Senato nel gennaio 2015. L’abbiamo riportata in direzione nazionale e l’abbiamo votata. Poi abbiamo fatto assemblea dei deputati e l’abbiamo votata ancora una volta. L’abbiamo votata in Commissione e adesso siamo alla terza lettura alla Camera, in un confronto parlamentare che è stato puntuale, continuo, rispettoso.

Vi domando: davvero è dittatura quella di chi chiede di rispettare il volere della stragrande maggioranza dei nostri iscritti, dei nostri parlamentari, del nostro gruppo dirigente? Davvero è così assurdo chiedere che dopo 14 mesi di dialogo parlamentare si possa finalmente chiudere questa legge di cui tutti conosciamo il valore politico? Davvero vi sembra logico che dopo tutta questa trafila ci dobbiamo fermare perché una parte della minoranza non vuole?

Se questa legge elettorale non passa è l’idea stessa di Partito Democratico come motore del cambiamento dell’Italia che viene meno. Se davanti alle prime difficoltà, anche noi ci arrendiamo come potremo costruire un’Italia migliore per i nostri figli? Se gli organi di un partito (primarie, assemblea, direzione, gruppi parlamentari) indicano una strada e poi noi non la seguiamo come possiamo essere ancora credibili? Abbiamo portato il PD a prendere tanti voti degli italiani: davvero oggi possiamo fermarci davanti ai veti?

Ecco perché nel voto di queste ore c’è in ballo la legge elettorale, certo. Ma anche e soprattutto la dignità del nostro partito. La prima regola della democrazia è rispettare, tutti insieme, la regola del consenso interno. Quando ho perso le primarie, ho riconosciuto che la linea politica doveva darla chi aveva vinto. Adesso non sto chiedendo semplicemente lealtà; sto chiedendo rispetto per una intera comunità che si è espressa più volte su questo argomento, a tutti i livelli. Perché questa legge elettorale l’abbiamo cambiata tre volte per ascoltare tutti, per ascoltarci tutti. Ma a un certo punto bisogna decidere.

Ho preso l’impegno con voi, iscritti al PD, di guidare il partito fino al dicembre 2017, quando si terranno le primarie. In quell’appuntamento toccherà a voi, alla nostra comunità, scegliere se cambiare segretario. Ma fino a quel giorno lavorerò senza tregua per dare alla nostra comunità la possibilità di essere utile all’Italia. Milioni di nostri concittadini affidano le loro speranze al nostro lavoro: già altre volte in passato le divisioni della nostra parte hanno consentito agli altri di tornare al potere e di fare ciò che abbiamo visto. Farò di tutto perché questo non risucceda. Possono mandare a casa il Governo se proprio vogliono, ma non possono fermare l’urgenza del cambiamento che il PD di oggi rappresenta.

Grazie per il sostegno
Matteo

Commento: oltre al messaggio palese vi è in questa epistola ai “fedeli” che sono rimasti ” in comunità ” un altro messaggio meno evidente ma molto chiaro. Cari signori voi fate parte di una comunità della quale io sono il capo che deciderà chi di voi sarà dentro o fuori dalle liste nelle prossime elezioni…
Quindi non rompete le scatole, dimenticate la vostra autonomia di parlamentari ( art.67 della Costituzione ) e fate come vi dico io … Sembra dire il Renzi. In altri termini si può dire che si tratta di un testo minaccioso che delinea chi sarà dentro al “cerchio magico ” e chi sarà mandato a casa con l’esclusione dalle liste. Il tacchino impettito avrà da alzare la voce con qualche deputato e alla fine tutto finirà con la cosiddetta sinistra che voterà tutto, anche il proprio suicidio politico definitivo. Il voto alla Camera non sarà un voto per la legge elettorale ma su Renzi.Ancora una bufala

Pietà l’è morta. E anche l’onestà intellettuale del giornalismo italiano.

di Nico Macce

Schermata 2015-03-03 a 23.47.22Per comprendere il ruolo di disinformazione che hanno i nostri media prendo due esempi freschi freschi.

Il primo è un raffronto tra gli attacchi brutali della polizia messicana contro gli insegnanti in lotta (qui e qui le informazioni del caso) e l’omicidio di Nemtsov a Mosca, un presunto oppositore di Putin.
 Se digitate “Messico e insegnanti” su Google, appaiono pagine della sinistra radicale. Ciò significa e conferma ciò che ho potuto constatare in questi giorni, ossia che sui media, di un fatto così importante e di sangue non c’è traccia. O molto, molto poco e senza alcuna riflessione politica, quasi fosse un fatto di cronaca, di delinquenza comune in un paese democratico a prescindere.

l’articolo segue su fonte carmillaonline.it

MISURARE LA FATICA NEL LAVORO, INTERVISTA A ROBERTO BENNATI ESPERTO DI ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO, COLLABORATORE FIOM CGIL EMILIA ROMAGNA

A Roberto Bennati, esperto di organizzazione del lavoro che collabora da anni con la FIOM CGIL EMILIA ROMAGNA, abbiamo chiesto di fare il punto sulla trasformazione  delle condizioni di lavoro nel corso degli ultimi anni e sugli scenari attesi dopo l’approvazione del Jobs Act.

Le domande che gli abbiamo posto:

– In questa fase stanno cambiando anche gli strumenti di misura della prestazione lavorativa fisica e congnitiva sia del singolo lavoratore sia del lavoro di gruppo ?
– Scientificità o arbitrio nella definizione dei nuovi standard ISO in materia di metrica e odl ?
– Quali sono gli strumenti a disposizione dei lavoratori e delle lavoratrici per essere a conoscenza regolare la propria prestazione lavorativa ? Quale contrattazione possibile dopo il Jobs Act ?
– Cosa potrebbe e/o dovrebbe fare il sindacato per dotarsi e dotare i lavoratori di una strumentazione efficace per la contrattazione della metrica , degli orari dei turni, dei carichi di lavoro… ?
– Esperienze e considerazioni su percorsi possibili per contrattare condizioni di lavoro dignitose in quest’epoca storica 

 

 

Vincenzo Comito: Quando la Germania era un debitore flessibile

Diffondiamo da www.sbilanciamoci.info del 23 febbraio 2015

 

 

 

Tra l’Ottocento e il Novecento dello scorso millennio lo stato tedesco ha fatto default o ha ottenuto degli alleggerimenti dei suoi debiti ben otto volte

È ben noto come la Germania abbia assunto un atteggiamento intransigente sulla questione del debito pubblico all’interno dell’eurozona e come essa tenda a spingere duramente perché i vari paesi adottino, per risolverlo, delle strette politiche di austerità, politiche che peraltro rischiano di uccidere il malato. Ne abbiamo avuto ancora una riprova con l’attuale crisi greca; nel corso dei negoziati i responsabili del paese teutonico sono stati i capifila e i portabandiera del partito dell’intransigenza, sino ad arrivare all’insulto verso un governo democraticamente eletto.

Ma da diverse parti, negli ultimi tempi, si tende a sottolineare come in passato il paese non sia stato quel campione di virtù che oggi cerca di apparire; in effetti, alcuni studiosi si sono chiesti quale sia stato in concreto, nel corso del tempo, il curriculum di tale paese sulla stessa questione ed hanno trovato degli elementi interessanti.

Si può cominciare ricordando come, certo, la gran parte dei paesi in tutte le regioni del globo sia passata attraverso una o più fasi di default, o comunque di ristrutturazione del proprio debito, nei confronti dei prestatori esteri, ma anche come la Germania sia stata tra i più assidui ad incappare in tale problema.

Apprendiamo così (Reinardt & Rogoff, 2009) che tra l’Ottocento e il Novecento dello scorso millennio lo stato tedesco, in effetti, ha fatto defaulto ha ottenuto degli alleggerimenti dei suoi debiti ben otto volte nel periodo, come del resto la Francia e contro una sola volta per l’Italia e cinque per la Grecia. Va peraltro riconosciuto che i campioni europei in questo sport sono stati gli spagnoli, con ben tredici volte. I tedeschi hanno comunque conquistato un brillante secondo posto a pari merito con il paese transalpino.

La rivalità franco-tedesca e le riparazioni dopo la grande guerra

In un certo senso, la Germania ha cercato di sottoporre la Grecia allo stesso trattamento inflitto alla Francia dopo la guerra franco-prussiana del 1870, quando i cittadini transalpini, dopo la veloce sconfitta, furono obbligati a pagare un grande volume di danni di guerra, 5 miliardi di franchi, pari al 20% del pil di allora del paese; esso dovette inoltre cedere l’Alsazia, una parte della Lorena e dei Vosgi, ai vincitori, che comunque occuparono una vasta area della Francia sino a che non fu effettuato l’intero pagamento del debito, ciò che avvenne, con molta solerzia, nel 1873. Sempre i francesi furono inoltre obbligati a concedere ai nemici la clausola della nazione più favorita.

E viene la prima guerra mondiale. Come è noto, questa volta, alla fine, si rovesciano le parti, la Francia si trova nel rango dei vincitori e la Germania invece in quella degli sconfitti.

L’obiettivo fondamentale del primo ministro francese del tempo, Georges Benjamin Clemenceau, fu allora quello di vendicarsi della sconfitta del 1870 e di annullare praticamente i progressi economici fatti dalla Germania dopo quella data. Egli riuscì ad imporre rilevanti perdite territoriali al paese nemico e cercò parallelamente, nella sostanza, di distruggere, o quantomeno di danneggiare al massimo, il suo sistema economico.

Ecco che lo statista francese riesce ad imporre alla Germania anche il pagamento di danni di guerra molto ingenti. La Gran Bretagna e gli Stati Uniti si accodarono alla fine alle richieste dell’alleato.

Il problema finanziario che si poneva era comunque abbastanza complesso. Da una parte stavano i prestiti interalleati fatti prevalentemente per acquistare le armi e gli equipaggiamenti relativi (la Gran Bretagna aveva preso a prestito dagli Stati Uniti, la Francia dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti), dall’altra il problema delle riparazioni tedesche a Francia e Inghilterra. Le somme in gioco erano enormi: i debiti interalleati erano stimati in circa 26,5 miliardi di dollari, la gran parte dei quali dovuti agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna, mentre la commissione per le riparazioni del 1921 fissò in maniera definita, dopo vari summit preliminari che andavano più o meno nello stesso senso, il debito della Germania in 33 miliardi di dollari, la gran parte dovuti a Francia ed Inghilterra (Aldcroft, 1993). Tali riparazioni avrebbero dovuto essere regolate in rate trimestrali a cominciare dal gennaio del 1922.

Mentre la Francia legava le due questioni, dichiarando che il paese avrebbe ripagato i suoi debiti quando gli sarebbero stati versati i proventi delle riparazioni, la Gran Bretagna e gli Usa avevano chiaro che gli indennizzi non potevano superare certi limiti.

I dubbi di Keynes e i vari tentativi di ristrutturazione del debito

Nel 1919 Maynard Keynes aveva 36 anni e aveva partecipato alla conferenza di pace come rappresentante del governo inglese per le questioni finanziarie. Ma egli si dimise presto, essendosi trovato in totale disaccordo con l’impostazione che gli alleati stavano dando alla sistemazione dell’Europa dopo la guerra.

Egli pubblicò così subito dopo “Le conseguenze economiche della pace”, un saggio molto polemico contro la follia della “pace cartaginese” che i vincitori della guerra stavano, a suo dire, imponendo alla Germania. Le riparazioni avevano un onere finanziario, affermò l’autore, che la Germania non era in grado di sostenere (egli calcolò a questo proposito che il paese avrebbe potuto restituire, grosso modo, solo un quarto della somma stabilita) e previde lucidamente che le conseguenze del trattato di pace sarebbero state molto dannose per il futuro del continente.

I tedeschi cominciarono a versare le prime rate, ma nel corso del 1922 la situazione economica del paese si deteriorò rapidamente, con l’accelerazione dei processi di inflazione e di svalutazione della moneta; i tedeschi chiesero dunque una moratoria dei pagamenti, ma essa fu loro negata. Ma la Germania non era più in grado di pagare (Aldcroft, 1993) e, comunque, non fece nessuno sforzo per tentare.

Nel gennaio del 1923, i francesi e i belgi, di fronte al fatto che i tedeschi non pagavano le somme richieste, decisero di occupare la Ruhr. Ma tale mossa concorse a completare il collasso economico e finanziario della Germania.

Si stabilì, a questo punto, di convocare una conferenza internazionale, che si tenne a Londra nel 1924 e che diede origine al piano Dawes, dal nome del presidente della conferenza, un banchiere americano. Secondo questo piano, la moneta tedesca avrebbe dovuto essere stabilizzata dopo l’enorme livello raggiunto dall’inflazione e le truppe francesi avrebbero dovuto essere ritirate dalla Ruhr. Un flusso di aiuti americani alla Germania avrebbe permesso a quest’ultima di rimborsare i suoi creditori. L’importo totale dei debiti della Germania veniva lasciato quale fissato nel 1921, ma venivano allungati i tempi di pagamento.

Così nel periodo 1924-1930 la Germania prese a prestito soprattutto dagli Stati Uniti circa 28 miliardi di marchi e ne restituì ai paesi alleati come danni di guerra circa 10,3 (Aldcroft, 1993).

Ma, quando nei tardi anni venti, i prestiti statunitensi smisero di arrivare e molte banche straniere richiesero la restituzione di prestiti precedenti, la situazione si fece di nuovo difficile.

Un ulteriore accordo venne così negoziato nel 1929; era il piano Young, dal nome di un altro plenipotenziario statunitense. Il piano proponeva ormai una riduzione del totale del debito tedesco e degli importi da pagare annualmente.

La situazione economica internazionale intanto non fece funzionare l’accordo che per due anni. Nel 1931 la moratoria Hoover sospese per un anno i pagamenti, ma di fatto si trattò di una moratoria definitiva.

Alla fine gli Stati Uniti avevano ricevuto in restituzione dagli alleati circa 2,6 miliardi di dollari, contro crediti per prestiti ed interessi di 22 miliardi. La Francia a sua volta aveva ricevuto in pagamento dalla Germania circa un terzo dell’importo stimato dei danni di guerra (Aldcroft, 1993).

Le riparazioni dopo la seconda guerra mondiale

E viene poi la seconda guerra mondiale. Anche in questo caso, dopo la fine delle ostilità, si trattava di sistemare la questione delle riparazioni.

La conferenza di Postdam nell’agosto del 1945 fissò subito il principio delle restituzione dei danni di guerra e un accordo di base in proposito venne ipotizzato per le zone occidentali del paese nel 1950. Intanto era stato avviato il piano Marshall, con il quale gli Stati Uniti concessero al paese rilevanti somme di denaro per far ripartire la loro economia.

Furono gli Stati Uniti a guidare tutta l’operazione dei risarcimenti nel 1953, consci che fosse necessario aiutare la ripresa della Germania e dell’Europa dopo una guerra devastante, evitando di commettere gli stessi errori del primo dopoguerra. Pesava fortemente, peraltro, anche la volontà degli Stati Uniti di fare della Germania Occidentale un baluardo contro il blocco sovietico.

Così nell’agosto del 1953, dopo trattative durante diversi mesi, ventuno paesi firmarono a Londra un trattato, noto come London Debt Agreement, che consentì alla Germania di suddividere la questione in due parti. La prima corrispondeva ai debiti accumulati fino al 1933, stimati in 16 miliardi di marchi; fu consentito di rateizzare il loro pagamento in 30 anni, a tassi di interesse molto bassi, ciò che equivaleva alla pratica cancellazione dello stesso. L’altra parte, corrispondente ad altri 16 miliardi di marchi e che faceva riferimento ai debiti dell’epoca nazista e della guerra, avrebbe dovuto essere ripagata, secondo modalità da concordare, dopo l’eventuale riunificazione del paese. Ma nel 1990, a processo di unificazione concluso, il governo tedesco si oppose alla rinegoziazione dell’accordo, a ragione in particolare dei costi che sarebbero stati necessari per risollevare economicamente la parte est del paese.

In ambedue le occasioni tra i creditori c’era anche la Grecia, che dovette accettare molto a malincuore tali decisioni.

La stessa Grecia ha sollevato a più riprese, ma invano, la questione dei danni di guerra subiti da parte della Germania. Tra l’altro, in effetti, nel corso delle vicende belliche il paese, occupato dai tedeschi, era stato costretto a prestare al Reich 476 milioni di reichsmark senza interessi. Tale somma corrispondeva ormai nel 2012, secondo alcuni calcoli, a circa 14 miliardi di dollari e a circa 95 miliardi se si calcolavano anche degli interessi al tasso molto ragionevole del 3% annuo. A fine 2014 la cifra totale dovrebbe aver superato i 100 miliardi di dollari.

La Germania si rifiuta a tutt’oggi di prendere in considerazione l’intera partita.

 

Testi citati nell’articolo

-Reinardt C. M., Rogoff K. S., This time is different, Eight centuries of financial follies, Princeton University Press, Princeton, N. J., 2009

-Aldcroft D. H., The european economy 1914-1990, Routledge, Londra, 3a ed., 1993

 

LE RAGIONI DI LANDINI

 

di Paolo Ciofi – 25 febbraio 2015

Ricapitoliamo i fatti. Il segretario della Fiom Maurizio Landini, in un’intervista rilasciata al Fatto Quotidiano, dichiara che siamo alla «fine di un’epoca» e che pertanto «è venuto il momento di sfidare democraticamente Renzi». Per questo, precisa, «il sindacato si deve porre il problema di una colazione sociale più larga e aprirsi a una rappresentanza anche politica». Il quotidiano diretto da Marco Travaglio traduce e strilla un titolo a tutta pagina «Landini: ora faccio politica». Si scatena una indecente bagarre mediatica. E sebbene lo stesso Travaglio riconosca che quelle parole messe tra virgolette Landini non le ha mai pronunciate, il capo del governo le brandisce come un’arma impropria per mettere fuori gioco il segretario del principale sindacato operaio di questo paese, con l’obiettivo di delegittimarlo anche moralmente. Come se fare politica sia diventato un peccato mortale: per gli altri naturalmente, non per chi il potere politico lo detiene.

Il repertorio di frasi ad effetto del governante di Rignano, che come al solito si spoglia di ogni responsabilità pubblica, è abbondante. Ma la qualità è nettamente al di sotto del livello medio di alfabetizzazione politica: «Landini sceglie la politica perché ha perso con Marchionne»; «non è Landini che abbandona il sindacato, è il sindacato che ha abbandonato Landini»; «sul Jobs Act ognuno può avere l’opinione che vuole (bontà sua), ma è difficile pensare che tutte le manifestazioni non fossero propedeutiche all’entrata in politica». E così via. Senza alcun riferimento ai contenuti della materia del contendere. Perché, essendo stati imposti da colui che comanda, i contenuti sono per definizione giusti e «di sinistra». Dunque, indiscutibili.

In questa logica è addirittura inconcepibile che un sindacalista possa organizzare la protesta popolare e di massa contro l’eliminazione di diritti fondamentali come quelli sanciti dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Se lo fa non è per difendere un principio costituzionale, e perché crede nella giustizia sociale, nella solidarietà e nella democrazia, ma perché motivi loschi lo spingono a «entrare in politica». E se i sindacati protestano contro una patente violazione dei diritti del lavoro che moltiplica la precarietà, vanno ricondotti all’ordine. Meglio ancora se diventano una protesi dell’impresa, cioè del capitale, eliminando qualsivoglia rappresentanza generale e cancellando la contrattazione collettiva.

Insomma, un inguacchio retrogrado che guarda al passato. E che però è la dimostrazione inconfutabile della validità delle ragioni di Landini, quando denuncia che oggi il lavoro non ha rappresentanza politica, e che il sindacato deve coinvolgere tutti coloro che «per vivere devono lavorare». Dal sistema dei media l’attenzione viene invece strumentalmente concentrata sul dilemma se il segretario della Fiom scenderà o no in politica, nel tentativo finora riuscito di oscurare la sostanza del problema. In verità sono ormai molti anni che la classe operaia tradizionalmente intesa, i nuovi lavoratori generati dalla rivoluzione digitale, i precari e le partite iva, donne e uomini, giovani e anziani, non dispongono di un’autonoma e libera rappresentanza politica, che ne tuteli i diritti e la dignità, la condizione materiale e morale di fronte allo strabordante potere del capitale.

In questa area largamente maggioritaria sta la massa crescente degli elettori che non si sente più rappresentata dal sistema politico nel Parlamento della repubblica democratica fondata sul lavoro. Come dimostrano, tanto per stare ai dati più recenti, il successo di Grillo nelle elezioni politiche e l’astensione di oltre il 60 per cento degli elettori nel voto regionale dell’Emilia-Romagna. Landini dunque, sebbene con ritardo, enuncia una verità solare quando dice che in Italia il lavoro non ha rappresentanza politica. È un problema che dovrebbe agitare il sonno e turbare la coscienza di ogni democratico, perché il lavoro senza rappresentanza equivale a un’amputazione della democrazia. E proprio in questa amputazione risiede la causa più profonda della crisi democratica che stiamo vivendo, dalla quale certo non si esce con le (contro)riforme sociali e costituzionali del governo.

Non aiutano a chiarificare il quadro le filosofiche bubbole di Scalfari, per usare un termine a lui caro. Il quale prima ci fa sapere che «la definitiva attuazione del Jobs Act è un elemento molto positivo della politica economica renziana, anche se la fisionomia “classista” non sfugge a nessuno». E poi si rammarica osservando che se «la democrazia partecipata […] è in forte declino», «la causa si chiama indifferenza, soprattutto dei giovani». Come a dire: chi ti dovrebbe rappresentare non lo fa e anzi ti bastona, ma per non essere indifferente tu lo devi comunque votare.

Nel vuoto di rappresentanza che dura da anni, e che genera crescente indifferenza, c’è oggi però una novità rispetto al passato che Landini descrive così: «Renzi ha preso il programma di Confindustria e lo sta applicando», perdipiù «senza che nessun italiano abbia potuto votarlo». In altre parole, Renzi, che si proclama di sinistra, sta attuando il programma della destra e sta facendo ciò che neanche Berluscuni, il padre-padrone della destra, era riuscito a fare. Il massimo del trasformismo, che da una parte umilia il Parlamento esautorato della sua funzione legislativa, e dall’altra adotta un linguaggio menzognero e insultante degradando la politica a pura irrisione dell’avversario. Chi è Landini, se non uno sfigato, un povero perdente che vuole entrare in politica per scopi poco chiari? È dunque del tutto legittimo esporlo al pubblico ludibrio.

Nella sostanza si delinea una forma dura di autoritarismo, che punta al massimo di personalizzazione della politica, e quindi all’ascesa non effimera dell’uomo solo al comando. Con l’intento di consolidare un nuovo sistema di potere, conformando a questo fine l’insieme delle istituzioni e dei corpi dello Stato, dal parlamento alla magistratura. Su un aspetto Scalfari coglie nel segno: dal punto di vista sociale, questa è una fisionomia tipicamente classista, senza virgolette. In altre parole, siamo di fronte a un tentativo di modernizzazione capitalistica feroce, che cerca di farsi largo nella dimensione europea puntando tutto su un consenso trasformistico e mediatico. Ed è contemporaneamente la sepoltura senza onore della sinistra che sarebbe dovuta nascere dalla svolta della Bolognina di Occhetto.

Se ancora con Bersani l’ideologia prevalente nel Pd tendeva a conciliare il conflitto tra capitale e lavoro, fino a negarlo in una immaginaria visione buonista del liberismo dominante, con Renzi l’incantesimo si rompe. Lui sta con Marchionne contro Landini senza se e senza ma, vale a dire dalla parte del capitale contro il lavoro. E ci sta in modo ostentatamente dichiarato. Così il conflitto, che è organico al capitale come rapporto sociale, e che perciò non era mai scomparso in presenza di una la lotta di classe condotta con spietatezza dall’alto verso il basso, riappare alla luce del sole in una dimensione dichiaratamente politica. Fino a diventare un asse portante del governo e a mettere in discussione i principi della Costituzione, che fonda sul lavoro l’Italia democratica

da paolociofi.it

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Podcast Audio Diario Prevenzione – Ambiente Lavoro Salute – 10 febbraio 2015 – puntata n° 25

 


In questa puntata parliamo di:

La grande prevenzione. l’Europa è in fibrillazione per il rischio che la guerra “a bassa intensità” che si sta consumando in Ucraina si trasformi in guerra globale che potrebbe coinvolgere l’intera Europa. La “grande prevenzione è “smontare” le dinamiche che rischiano di portare al “punto di non ritorno” della guerra … Speriamo anche questa volta di cavarcela…

RSPP – Rassegna Stampa sulla Prevenzione e Protezione dai rischi e danni da lavoro
Newsletter mensile contenente materiali su temi ergonomici e di prevenzione dei rischi e danni da lavoro, oltre una rassegna stampa di materiali pubblicati sui maggiori siti dedicati alla materia. Uno strumento di lavoro di grande utilità ….

– FONDAZIONE DON CARLO GNOCCHI – ONLUS  IRCCS S. Maria Nascente
DISABILITA’  E   ACCOMODAMENTO   RAGIONEVOLE:   DAGLI  AMBIENTI  DI  VITA   AI  LUOGHI DI LAVORO Convegno,  Milano, 6 marzo 2015

L’EMILIA ROMAGNA E LE MORTI BIANCHE.UN TRAGICO BOLLETTINO DIETRO IL QUALE SI CELA L’IMMANE DOLORE PER LA PERDITA DI 93 LAVORATORI.
A BOLOGNA SONO 16 LE VITTIME REGISTRATE. SEGUONO: MODENA (13), REGGIO EMILIA (12), FERRARA E FORLI’ –CESENA (11), RAVENNA (9), PARMA (8), PIACENZA (7) E RIMINI (6).QUASI LA META’ DEI LAVORATORI ERANO QUARANTENNI E CINQUANTENNI. IL SETTORE MANIFATTURIERO QUELLO PIU’ COLPITO. 15 LE DONNE MORTE SUL LAVORO. 19 I LAVORATORI STRANIERI COINVOLTI NEL DRAMMA.

– Emilia Romagna: l’obbligo di installazione di linee vita in edilizia

Dal 31 gennaio 2015 in Emilia Romagna vige l’obbligo dell’installazione di dispositivi permanenti di ancoraggio sulle coperture. Focus sulle indicazioni della Delibera
149/2013 e sulle linee di indirizzo per la prevenzione delle cadute dall’alto.


– La sicurezza dei pedoni: un manuale sulla sicurezza stradale per decisori e professionisti

Il rischio chimico per i lavoratori nei siti contaminati  MANUALE OPERATIVO

Pubblicazione realizzata da INAIL
Dipartimento Innovazioni Tecnologiche e Sicurezza degli Impianti, Prodotti e Insediamenti Antropici
Progetto: Gruppo di Lavoro INAIL su “Salute, ambiente e sicurezza nelle attività di bonifica dei siti contaminati”, Linea di ricerca P18L03 “Salute e sicurezza nelle attività di bonifica dei siti contaminati” (Piano di attività 2013-2015)

– Notizie in breve 

Documenti e  notizie di cui parliamo nel Podcast  sono pubblicate su
http://www.diario-prevenzione.it

 

 

Modena city ramblers – La strage delle fonderie

Modena city ramblers – La strage delle fonderie

Pubblicato il 18 feb 2013

canzone tratta dal nuovo disco dei Modena city ramblers, “Niente di nuovo sul fronte occidentale”
Testo:
Era un freddo mattino di un giorno d’inverno,
l’aria era piena di sogni e paure,
Renzo Bersani con gli altri operai
per un futuro che non sarà mai.

Angelo Appiani, di anni trenta,
condannato a morte senza sentenza,
aveva lottato contro i tedeschi,
finiva in un colpo la sua Resistenza.

Arturo Chiappelli provò anche a scappare
lungo i binari che correvan lontano,
ma un mitra bastardo lo prese di netto,
di rosso macchiò il suo nero cappotto.

Alla Crocetta erano in tanti davanti
ai cancelli della fonderia,
volevano pane e lavoro per tutti,
vennero uccisi e cosi sia.

Roberto Rovatti portava un cartello,
venne picchiato con il calcio dei fucili,
a sangue freddo gli spararono addosso,
come una bestia buttato in un fosso.

Ennìo Garagnani aveva vent’anni,
corse via in fretta per la paura,
un colpo solo fermò la sua fuga,
pistola vigliacca lo prese alla nuca.

Arturo Malagoli guardò verso il cielo,
pensava che forse potesse salvarlo,
un altro sparo esplose assassino,
colpendolo a morte senza avvisarlo.

Di quella fabbrica e quel giorno
d’inverno restano solo finestre sventrate,
restano solo mattoni spezzati,
mattoni e ricordi mai cancellati.

Alla Crocetta erano in tanti
davanti ai cancelli della fonderia,
volevano pane e lavoro per tutti,
vennero uccisi e così sia.
Volevano pane e lavoro per tutti,
vennero uccisi e così sia.

La tortura. Il tradimento dell’etica medica

La tortura. Il tradimento dell’etica medica
Autore:  Angelo Stefanini

fonte saluteinternazionale.info

Waterboarding, alimentazione rettale, catene ai piedi, privazione del sonno.È inconcepibile che un essere umano possa sottoporre un’altra persona a tortura. Ancora più scioccante è che professionisti della salute abbiano effettivamente progettato e partecipato al programma segreto di torture della CIA.

Dal 2009 al 2014 il Senate Select Committee on Intelligence (SSCI) degli Stati Uniti ha condotto una valutazione completa del Programma di interrogatori e detenzione della CIA (Central Intelligence Service) negli anni successivi all’attacco del 11/9/2001. Salutata come una delle più importanti nella storia del Senato, si tratta della prima analisi indipendente del programma e dei suoi pretesi successi sulla base delle effettive informazioni raccolte dalla CIA. Composta di oltre 6.000 pagine e frutto di cinque anni di lavoro, è costata 40 milioni di dollari. Il 9 dicembre 2014, otto mesi dopo la decisione di divulgarne alcune parti, la SSCI ha autorizzato la diffusione di un Executive Summary di 525 pagine[1]. Il resto della relazione rimane secretato.

Il documento fornisce i dettagli raccapriccianti degli abusi che hanno avuto luogo in diversi black-sites (siti neri) di detenzione del governo USA come waterboarding[2], confinamento in una cassa a forma di bara, minacce contro i familiari, nudità forzata, esposizione a temperature di congelamento, alimentazione rettale, posizioni stressanti, uso prolungato di pannoloni a scopo umiliante, privazione del sonno per giorni interi, e altro ancora. La relazione afferma inoltre che le cosiddette “tecniche potenziate d’interrogatorio” si sono rivelate inutili a ottenere le informazioni attese, che la CIA ha travisato la loro efficacia e che il programma ha danneggiato la reputazione degli Stati Uniti in tutto il mondo.

L’obiettivo pubblicamente dichiarato del programma di interrogatori nelle strutture di detenzione USA era di ottenere informazioni che consentissero al governo degli Stati Uniti di identificare e bloccare eventuali attacchi terroristici. Le tradizionali linee guida per gli interrogatori utilizzate dall’FBI e dai militari escludono, anzi proibiscono, metodi che siano in violazione delle Convenzioni di Ginevra e della ‘Convenzione contro la tortura e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti’, trattati che gli Stati Uniti, come firmatari, sono obbligati a rispettare. Funzionari ai più alti livelli del governo hanno tuttavia ricusato queste linee guida, affermando di ritenere che i metodi tradizionali d’interrogatorio richiedevano tempi troppo lunghi per potere prevenire attacchi imminenti. Di conseguenza, quasi immediatamente dopo l’attacco alle torri gemelle, il governo USA ha adottato metodi brutali d’interrogatorio sottoponendo i primi detenuti catturati in Afghanistan alla fine del 2001, in particolare nella base aerea di Bagram e a Kandahar, a violenze, esposizione al freddo estremo, sospensioni fisiche da catene, privazione del sonno, illuminazione continua, nudità forzata e altre forme di umiliazione e trattamento degradante.

Professionisti della… salute?

L’Executive Summary della SSCI conferma che gli Stati Uniti hanno sistematicamente torturato detenuti e che le pratiche erano molto più brutali di quanto in precedenza ammesso. Ciò che rende tutto ciò ancora più aberrante è che gli operatori sanitari, i “professionisti della salute”, hanno giocato un ruolo primario nel programma illegale di tortura sviluppando, attuando nella pratica e tentando di giustificare il programma stesso. Senza la loro partecipazione le torture avrebbero potuto essere evitate. Allo stesso tempo, funzionari dell’amministrazione Bush ponevano le basi giuridiche per una politica che abbandonasse le restrizioni legali in materia di tortura e di trattamenti crudeli, inumani, o degradanti richieste dai trattati internazionali e dal diritto penale statunitense. All’inizio del 2002, il Consiglio della Casa Bianca dichiarava che la Convenzione di Ginevra non era applicabile ai detenuti di Guantanamo.

Un rapporto dell’organizzazione medica per i diritti umani Physicians for Human Rights – PHR, dal titolo “Fare del male: il ruolo centrale dei professionisti sanitari nel programma di tortura della CIA”[3], analizza l’orrendo tradimento dell’etica medica e le violazioni della legislazione internazionale e nazionale compiute. Oltre a un’analisi completa del documento della SSCI, PHR ha anche prodotto una scheda, a uso di giornalisti e politici, sulla pratica dell’alimentazione rettale che sconfessa le rivendicazioni dei torturatori di avere condotto queste procedure ‘per ragioni mediche’. “L’organizzazione PHR ritiene che i professionisti sanitari coinvolti abbiano svolto un ruolo non solo centrale, bensì essenziale nel programma di tortura della CIA in una misura in precedenza non compresa”. PHR afferma che “la CIA si affidava a professionisti sanitari in ogni fase del programma per commettere e nascondere le brutali e sistematiche torture commesse sui detenuti” ed evidenzia otto ‘categorie di abusi’ commessi in violazione di trattati, leggi e codici etici. I professionisti sanitari al soldo della CIA hanno:

Concettualizzato e progettato le tecniche di tortura della CIA, prestando poi assistenza nell’attuazione del programma e ottenendo per questi servizi lauti guadagni economici.
Intenzionalmente inflitto e / o minacciato di infliggere danni e sofferenze gravi a detenuti in custodia della CIA.
Svolto il ruolo di complici dell’Ufficio del Dipartimento di Giustizia (DoJ) mettendo in grado i suoi avvocati di simulare interrogatori ‘sicuri, legali, ed efficaci’, nella falsa logica di legalizzare pratiche che non potevano essere considerate come tortura se non qualora certificate come tale da professionisti sanitari.
Condotto ricerche su soggetti umani allo scopo di fornire copertura legale alla tortura. (I sanitari impiegati nel programma raccoglievano e analizzavano dati ottenuti dall’applicazione di tecniche di tortura allo scopo di legittimarla. Funzionari dell’Office of Medical Services della CIA hanno espresso il timore che queste pratiche potrebbero costituire ricerca illegale su soggetti umani, equivalente a un crimine contro l’umanità).
Monitorato la tortura inflitta ai detenuti e calibrato, valutato e documentato i livelli di dolore provocato intenzionalmente ai detenuti.
Visitato e medicato i detenuti prima, durante e dopo la tortura, al fine di consentire l’applicazione su di loro della tortura stessa.
Prestato ai detenuti assistenza medica subordinata al livello della loro collaborazione.
Omesso di documentare le pratiche della tortura fisica e / o psicologica inflitta ai detenuti.

Ruolo degli psicologi

Anche se pare che i metodi violenti d’interrogatorio siano stati inizialmente utilizzati ad hoc, è subito emersa la strategia psicologica utilizzata negli interrogatori allo scopo di indurre paura, ansia, depressione, dislocazione cognitiva, e disintegrazione della personalità nei detenuti per spezzare la loro resistenza. Su questa base teorica, gli agenti americani hanno sviluppato nuovi metodi di interrogatorio intesi a provocare ‘debilitazione, dipendenza e terrore’. L’Office of Medical Services della CIA riassumeva questi metodi come “cercare di dislocare psicologicamente il detenuto, massimizzare i suoi sentimenti di vulnerabilità e ridurre o eliminare la volontà di resistere ai nostri sforzi di ottenere informazioni critiche.”

Due nomi appaiono decine di volte nell’Executive Summary: Grayson Swigert e Hammond Dunbar. Sono gli pseudonimi di James Mitchell e Bruce Jessen, due psicologi a contratto che hanno svolto un ruolo centrale nella progettazione e nell’attuazione del programma di tortura della CIA. Ora sappiamo anche quanto la ‘società’ da loro costituita abbia incassato: oltre $80 milioni. Prima di lavorare per la CIA, Mitchell e Jessen erano stati impiegati come psicologi nel programma Sopravvivenza, Evasione, Resistenza e Fuga (SERE), inteso a formare i soldati a resistere a interrogatori coercitivi e maltrattamenti in caso di cattura. Pur in assenza di esperienza diretta nelle tecniche di interrogatorio, pur non conoscendo l’arabo ne’ avendo avuto mai a che fare con al-Qaeda, alla fine del 2001 Mitchell e Jessen vennero assunti dalla CIA per capovolgere i principi del SERE e trasformarli in nuove e più aggressive pratiche di interrogatorio. Una delle loro principali vittime fu il palestinese Abu Zubaydah, ritenuto un membro di alto rango di al-Qaeda. Zubaydah venne lasciato completamente nudo per quasi due mesi, permettendogli di indossare vestiti soltanto se collaborava. Fu privato del sonno per settimane incatenato a polsi e piedi. Nell’agosto del 2002 fu sottoposto a waterboarding almeno ottantatre volte.

Vario personale della CIA aveva espresso preoccupazione per i conflitti di interesse in cui si trovavano i due psicologi, i quali da una parte conducevano gli interrogatori e dall’altra offrivano consulenza psicologica su come condurli; valutavano l’efficacia degli interrogatori che essi stessi conducevano; e raccomandavano forme di interrogatorio da cui avrebbero beneficiato finanziariamente. L’’onorario’ giornaliero per tali attività era di $1.800[4].

L’esempio di Israele

In una bozza di memorandum preparato dall’Ufficio della Commissione Generale della CIA, l’’esempio di Israele’ viene citato come possibile giustificazione che “la tortura era necessaria per prevenire imminente e significativo danno fisico alle persone, dove non esista altro mezzo a disposizione per evitarlo”[5]. L’”esempio di Israele” si riferisce alle conclusioni della Commissione Landau[6] nel 1987 e le successive sentenze della Corte Suprema israeliana che vietano ai servizi di sicurezza di Israele di utilizzare la tortura negli interrogatori dei sospetti terroristi, ma consente l’utilizzo di “moderata pressione fisica” nei casi classificati come “bombe ad orologeria” (ticking bomb), ossia quando vi è un urgente bisogno di ottenere informazioni che potrebbero evitare un attacco terroristico imminente.

Secondo il Comitato Intelligence del Senato, l’avvocato della CIA che preparava la campagna “aveva descritto le somiglianze sorprendenti” tra il dibattito pubblico che circondava l’emendamento McCain (un atto congressuale approvato nel dicembre 2005 che regola i metodi di interrogatorio) e la situazione in Israele nel 1999, in cui la Corte Suprema israeliana stabiliva che “diverse … tecniche sono probabilmente lecite, ma richiedono una qualche forma di sanzione legislativa” e il governo israeliano alla fine si era limitato a legiferare su alcune di tali tecniche. Come conseguenza di questo approccio ‘soffice’ e grazie al supporto inequivocabile dalla Israeli Medical Association, i medici israeliani che lavorano nelle unità di interrogatorio hanno svolto per molti anni un ruolo analogo a sostegno dell’uso routinario della tortura come politica di stato, offrendo legittimità morale a chi conduce gli interrogatori. La documentazione prodotta da organizzazioni per i diritti umani a prova di questa pratica nel corso di molti anni in Israele è di gran lunga maggiore di quella che (anche se più recente) sta emergendo riguardo a Guantanamo, Bagram e altri ‘siti neri’ degli USA[7].

“Indossare una divisa” ha affermato il presidente dell’IMAP (Istitute on Medicine as a Profession) David Rothman “non può e non deve annullare i principi fondamentali della professione medica”. ‘Non fare del male’ e ‘mettere prima l’interesse paziente’ devono valere per tutti i medici, indipendentemente dal luogo in cui praticano la medicina”[8]. In tutto il mondo, il ruolo dei medici, degli operatori sanitari e delle loro organizzazioni professionali nella prevenzione della tortura è fondamentale sia nel sostenere i colleghi esposti a questa pratica sia nel denunciare i casi che giungono alla loro conoscenza[9]. Casi come quelli avvenuti nella caserma Bolzaneto nel 2001, la morte di Giuseppe Uva nel 2008 e Stefano Cucchi nel 2009 sono segnali che anche in Italia è necessario tenere alta l’attenzione.

Bibliografia

Senate Select Committee on Intelligence, Committee Study of the Central Intelligence Agency ‘s Detention and Interrogation Program. [PDF: 62 Mb]
Il waterboarding consiste in una forma di annegamento controllato, con l’acqua che invade le vie respiratorie senza che il soggetto possa controllarne il flusso né interromperlo o sottrarvisi, e quindi ritiene che la propria morte sia imminente.
Physicians for Human Rights, Doing Harm: Health Professionals’ Central Role in the CIA Torture Program, December 2014. [PDF: 388 Kb]
Ibid. P. 7.
CIA cited Israeli Supreme Court rulings to justify torture, Senate report says. Haaretz.com, 09.12.2014
Wikipedia: Landau Commission
Medici e tortura. Il caso di Israele. SaluteInternazionale.info, 10.03.2010
CIA made doctors torture suspected terrorists after 9/11, taskforce finds. The Guardian, 04.11.2013

fonte saluteinternazionale.info

José Mujica tiene un corazón de león.

Hoy resulta indispensable poner a la luz a los que son excepcionales, a usarlos de ejemplo, de punto de partida, de contraste.
En Pepe Mujica hemos encontrado a un hermano, una inspiración, un latido que se encuentra con miles de soñadores en el mundo. Sin duda, José Mujica tiene un corazón de león.