ARGENTINA: LE COMUNITÀ INDIGENE DENUNCIANO L’AVANZATA DELL’ESTRAZIONE DEL LITIO A JUJUY

FONTE FARN

Le comunità indigene nel bacino di Salinas Grandes e Laguna Guayatayoc denunciano l’avanzamento delle attività di estrazione del litio e la violazione dei loro diritti sanciti dalla Costituzione, Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) e la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti delle popolazioni indigene.

Lunedi 4 febbraio le comunità si sono svolte nel posto provincia di Agua Dulce di Jujuy, per manifestare contro il campo minerario che le aziende stanno installando Losi e Ekeko lì per iniziare a sviluppare un progetto di litio mineraria.

All’inizio della protesta, hanno dato ai responsabili dell’installazione una nota in cui chiedevano loro di cessare le attività per violare i loro diritti come comunità indigene. Inoltre, hanno inviato il governatore di Jujuy, Gerardo Morales, un’altra lettera in cui si chiedeva:

  • Il ritiro dal campo minerario;
  • L’interruzione del concorso di Jujuy Energy and Mining State Society (JEMSE) che invita a presentare progetti per lo sfruttamento del litio nelle Salinas Grandes e Laguna de Guayatayoc,
  • La firma il decreto di applicazione del protocollo di consultazione precedente Kachi Yupi: progetto che ha promesso di firmare nel 2017.

ABUSI IN LIBIA: LA COMPLICITA’ DEI SOVRANISTI

 

FONTE R/PROJECT.IT

di Fulvio Vassallo Paleologo

Non bastano i report e le testimonianze sugli abusi subiti dai migranti intercettai in acque internazionali dalla Guardia costiera libica e riportati nei lager dai quali erano fuggiti. Sempre più tragica, in particolare, la situazione dei somali e degli eritrei internati nei centri di detenzione contollati dalle milizie, senza alcuna distinzione possibile tra centri governativi e centri “informali”. Ovunque spadroneggiano i mercanti di esseri umani, che nessuna indagine penale sembra fermare.

Non interessano i documenti di Amnesty International che confermano la gravi violazioni dei diritti umani in Egitto ed in altri paesi dell’Africa del nord. Non bastano neppure le conferme della corruzione delle polizie dei paesi di origine o di transito con i quali gli stati europei, e la stessa Unione Europea, non esitano a concludere accordi bilaterali per contrastare quella che definiscono soltanto come “immigrazione illegale”. Interessi economici e calcoli elettorali schiacciano i diritti umani e li rimettono alla discrezionalità della politica. In nome degli interessi nazionali si strappano le Convenzioni internazionali, ed i rapporti tra gli stati diventano un campo nel quale si esercitano ricatti basati sulla forza militare ed economica. Tutto quello che si vorrebbe nascondere dietro la campagna del fango intentata contro le ONG e chiunque si ostini ad operare soccorsi umanitari, in mare, ed anche in terra.

Il vertice euro-arabo di Sharm el Scheikh ha confermato la politica europea di esternalizzazione delle attività di controllo delle frontiere, senza che ci sia stato alcun riguardo per le ragioni delle popolazioni e dei migranti oppressi dai regimi e dai governi che sono finanziati dagli stati europei all’esclusivo fine di impedire le partenze dei migranti verso l’Europa. La cooperazione internazionale tanto evocata nei documenti internazionali rimane priva di risorse adeguate e di qualsiasi controllo sulla effettiva destinazione dei finanziamenti quando questi arrivano nei paesi terzi. La questione ambientale costituisce soltanto un paravento per nascondere la sostanza degli accordi, centrati sulla divisione delle risorse energetiche tra i paesi più forti, e sulla ghettizzazione delle popolazioni più deboli, condannate ad un destino di fame e di morte.

Il vertice ha segnato il fallimento definitivo del Processo di Khartoum, avviato dal governo italiano nel 2014, con l’avallo del Consiglio Europeo del 12 maggio 2015, e quindi del Piano di azione Juncker. Forse qualcuno si è accorto che il dittatore sudanese Bashir, sotto accusa da parte della Corte Penale internazionale, non era proprio un partner affidabile, al punto che a Sharm Al Scheikh gli è stata interdetta la partecipazione. Chi scrive del Sudan viene minacciato, ma anche questo sembra trascurabile, nell’indifferenza generale. In Italia ancora si ritiene necessario ed opportuno collaborare con la polizia sudanese, quella stessa polizia che ancora in questi giorni sta massacrando l’opposizione che manifesta in piazza a Khartoum.

Ma il nuovo multilateralismo, rilanciato sotto l’egida del dittatore egiziano Al Sisi, non garantisce i diritti dei popoli ma i privilegi dei grandi gruppi economici. Che anche i dittatori possono assicurare. E infatti la questione centrale degli incontri si è centrata sullo sfruttamento delle grandi risorse energetiche del Mediterraneo orientale, con una attenzione estesa anche alla spartizione della Libia, dove le forze del generale Haftar, sostenute dagli egiziani, dai russi, e sottobanco dai francesi, avanzano ogni giorno sottraendo territorio ( e pozzi petroliferi) al traballante governo Serraj a Tripoli, sponsorizzato dall’Italia e da alcuni paesi europei soltanto per spartirsi risorse economiche e ottenere un maggiore contrasto dell’immigrazione.

La Conferenza internazionale sulla Libia, svoltasi a Palermo lo scorso anno, rimane soltanto una vetrina usata a scopi elettorali, ma è ormai superata dall’involuzione bellica tra la Tripolitania e la Cirenaica, sostenuta dal generale Haftar e dai suoi alleati al Cairo, a Parigi, a Mosca. Il premier Conte, ed i suoi due vice-presidenti del Consiglio, tanto abili nella propaganda elettorale, dovrebbero farsene una ragione, e magari parlare agli italiani senza raccontare altre menzogne. Il risveglio dal sonno dell’indifferenza potrebbe essere assai brusco. Non sembra proprio che ci siano le premesse per una rilancio del ruolo dell’Italia nella soluzione della crisi libica.

Si avvicina la guerra, una guerra commerciale in Europa, tante guerre nei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, ed ancora più a sud, fino all’Africa sub-sahariana, come in Niger, dove si vuole esternalizzare la frontiera europea. Forse sarà proprio la guerra, l’unica vera tragedia che costringerà il “popolo sovrano” ad interrogarsi sulla reale portata delle politiche di odio ed esclusione contro gli stranieri e contro chi presta loro assistenza. Il capovolgimento del principio di realtà sul quale si sta fondando l’attuale politica dei governi di destra in carica in Europa non potrà che produrre conflitti alle frontiere ed una disfatta economica dell’intero continente con una forte riduzione dei diritti fondamentali che verranno negati non solo agli stranieri ma agli stessi cittadini.

L’Unione Africana ha da tempo respinto i piani europei che prevedevano rimpatri collettivi e piattaforme di sbarco nei paesi nordafricani, ma in Europa si ritiene ancora che sia possibile riportare in Africa i migranti bloccati in acque internazionali nel Mediterraneo. Non sembra che la presenza dell’UNHCR in Libia riesca a garantire davvero i diritti dei migranti trattenuti nei centri di detenzione da quando sono diminuite le possibilità di fuga verso il Mediterraneo. In realtà le rotte migratorie più recenti sono interne al continente africano, e non portano necessariamente all’emigrazione verso l’Europa. Dunque i plitici nostrani non possono continuare a lucrare vantaggi elettorali su una emergenza che non esiste.

Le conclusioni del vertice euro-arabo di Sharm el Scheikh sono state seguite da una aberrante mozione fatta passare da Fratelli d’Italia in un parlamento, ancora intontito dall’esito delle elezioni in Sardegna, che programma un blocco navale davanti alle coste libiche e chiude definitivamente all’adesione dell’Italia al cd. Migration Compact.

Un progetto vecchio, quello del blocco davanti alle coste libiche, di chi dall’estrema destra sa solo diffondere odio per conquistare una fetta di consenso elettorale. Senza però chiarire con quali navi e con quali uomini, mentre la missione Eunavfor-Med (definita anche come Operazione Sophia) si avvia ad un epilogo fallimentare, dopo la chiusura altrettanto ingloriosa della missione NAURAS della Marina italiana. Vedremo chi andrà davvero a fare il blocco navale davanti le coste libiche. Di certo l’Unione Europea non appoggerà mai con propri mezzi una proposta simile.

I cittadini italiani potranno anche illudersi di essere più sicuri perchè un paio di ministri hanno “chiuso” i porti alle navi di soccorso delle ONG ed hanno costretto al ripiegamento i mezzi della Guardia Costiera. Ma dietro queste scelte disumane si aggrava l’isolamento internazionale del nostro paese, acuita dalla concorrenza con la Francia in Libia, e non solo, una situazione che ci esporrà ancora di più alla prossima crisi economica internazionale, sempre più probabile dopo le elezioni europee di maggio. Nessun paese europeo può pensare di uscire da solo dalla crisi economica, soprattutto se è indebitato come l’Italia, così come nessun paese europeo può pensare che adottando misure di blocco navale, unilateralmente, possa risolvere la crisi dei rifugiati e raggiungere una maggiore efficacia nella lotta contro l’immigrazione irregolare. Solo aprendo canali legali di ingresso, attraverso il rilascio di visti umanitari, e rilanciando una grande missione di soccorso in acque internazionali, si potranno battere le organizzazioni criminali che lucrano proprio sullo sbarramento delle frontiere.

Soltanto chi saprà costruire e realizzare progetti basati sulla solidarietà internazionale e sulla soluzione pacifica dei conflitti, avrà un futuro. Quelli che scelgono di rinchiudersi dentro le frontiere nazionali, e quindi dentro le mura di casa, potranno soltanto armare le polizie ed armarsi per la propria difesa personale, ma non saranno certo più sicuri. La vera sicurezza la troveranno soltanto coloro che si organizzeranno per affrontare la crisi senza scaricarla sui più deboli, ma attaccando i veri responsabili a livello nazionale ed internazionale, riattivando processi di partecipazione democratica, e realizzando scelte di vita e di lavoro che creino opportunità di incontro e di solidarietà.

Sanzioni di distruzione di massa: la guerra degli USA contro il Venezuela

FONTE PRESSENZA.COM

31.01.2019 Countercurrents

Quest’articolo è disponibile anche in: Inglese

 

Le sanzioni economiche degli USA sono state il peggior crimine contro l’umanità dalla seconda guerra mondiale in poi: hanno ucciso più persone innocenti di tutte le armi nucleari, biologiche e chimiche mai usate nella storia dell’umanità.

Il fatto che per gli USA il problema del Venezuela è il petrolio, non la democrazia, sorprenderà solo chi segue i media mainstream e ignora la storia. Il Venezuela ha le più grandi riserve di petrolio del pianeta.

Gli USA cercano di controllare il Venezuela perché si trova nell’intersezione strategica fra i Caraibi, il Sud e il Centro America. Il controllo di questa nazione è sempre stato un modo molto efficace per proiettare il potere in queste tre regioni e oltre.

Dal primo momento in cui Hugo Chavez si insediò, gli Stati Uniti hanno cercato di rovesciare il movimento socialista del Venezuela usando sanzioni, tentativi di colpo di stato e finanziando i partiti di opposizione. Dopo tutto, non c’è niente di più antidemocratico di un colpo di Stato.

Alfred de Zayas, relatore speciale del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, ha raccomandato, solo pochi giorni fa, che la Corte penale internazionale indaghi sulle sanzioni economiche contro il Venezuela come un possibile crimine contro l’umanità perpetrato dagli USA.

Negli ultimi cinque anni, le sanzioni USA hanno tagliato fuori il Venezuela dalla maggior parte dei mercati finanziari, il che ha causato il crollo della produzione locale di petrolio. Di conseguenza, il Venezuela ha subito il più grande calo del tenore di vita di qualsiasi altro paese della storia latinoamericana.

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Il grido di Santiago per le comunità Mapuche

FONTE  LAVOROCULTURALE

L’ultima volta che è stato visto vivo, il ventottenne Santiago Maldonado stava partecipando a una mobilitazione della comunità in resistenza di Cushamen – provincia di Chubut, Argentina.

Santiago Maldonado

«… e sì, noi siamo coscienti che se fossimo stati mapuche, invece di un giovane come Santiago, tutto questo non avrebbe avuto una ripercussione del genere. Santiago ha lanciato quel grido di cui noi avevamo bisogno. È molto triste che sia toccato a lui».

Ivana Huenelaf, attivista mapuche, commentava così, lo scorso settembre, la desaparición di Santiago Maldonado. Lei stessa, nel mese di gennaio, era stata vittima della repressione scatenata dalla gendarmeria argentina contro la comunità (Pu Lof) in resistenza di Cushamen. Insieme ad altre cinque persone, è stata trattenuta per diverse ore nel commissariato locale, ferita – dopo che i gendarmi le avevano fratturato un polso –, incappucciata e isolata dal resto del mondo. Durante il fermo, ha sentito alcuni agenti negare, alle attiviste e agli avvocati venuti a cercarla, di averla trattenuta, mentre altri gendarmi le dicevano «los vamos a hacer desaparecer»: vi faremo scomparire.

Santiago

L’ultima volta che è stato visto vivo, il ventottenne Santiago stava partecipando a una mobilitazione della comunità in resistenza di Cushamen – provincia di Chubut, Argentina – che protestava per l’arresto del proprio lonko[1] e per la minaccia di sgombero da parte delle autorità locali. La manifestazione è stata duramente repressa dalla Gendarmeria nazionale[2]e le tracce di Santiago si sono perse durante le violenze, quando un testimone ha visto che veniva costretto a salire su un veicolo dei gendarmi. Da quel momento, per 81 giorni, di lui non si è saputo più nulla, finché il suo corpo non è stato ritrovato il 18 ottobre nel Río Chibut, in una parte poco profonda del fiume già ripetutamente setacciata nelle settimane precedenti.

La gestione del caso di Santiago, su cui sono intervenute anche l’ONU e la Commissione Interamericana per i Diritti Umani, ha registrato numerose negligenze da parte dell’apparato statale argentino: dalla lentezza con cui si è investigato circa il coinvolgimento della Gendarmeria – i veicoli usati durante la repressione, ad esempio, sono stati analizzati parecchi giorni dopo i fatti, quando ormai erano già stati lavati –, all’apparente svista con cui Patricia Bullrich, Ministra della Sicurezza, ha rivelato in una conferenza stampa il nome di un testimone protetto coinvolto nell’inchiesta, che aveva denunciato come, alcuni giorni dopo la scomparsa di Santiago, qualcuno avesse risposto al telefono del giovane desaparecido. Apparenti sviste e negligenze che hanno portato anche alla ricusazione e sostituzione del giudice responsabile dell’inchiesta.

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Du sang contre des minéraux ? Les États-Unis retournent en Afghanistan à la poursuite de profits miniers

 

fonte EQUALTIME

Autore dell’articolo  Shadi Khan Saif

An Afghan businessman checks lapis lazuli gemstones at his shop in the city of Kabul, Afghanistan, in March 2016. The brilliant blue stone is a key part of the extensive mineral wealth that is seen as the best hope for funding development of one of the world’s poorest nations.

Le secteur minier de l’Afghanistan est en effervescence en raison de l’intérêt manifesté par le président américain Donald Trump pour les immenses richesses minières du pays. Mais dans quelle mesure cette richesse atteindra-t-elle le peuple afghan ; et à quel prix ?

Les discussions au sujet des minéraux afghans coïncident avec la décision de Trump d’envoyer des milliers de soldats supplémentaires pour soutenir un gouvernement qui a perdu le contrôle de plus de 40 pour cent de son territoire au profit de groupes d’insurgés qui retirent des millions de dollars de l’exploitation minière.

La province du Lôgar, située au sud-est de l’Afghanistan, où les talibans ont lancé une offensive en août, abrite l’un des plus grands gisements de cuivre au monde. Les responsables afghans sont optimistes : correctement exploités, les gisements de cuivre de Mes Aynak, situés à moins de 80 kilomètres de la capitale Kaboul, pourraient changer la destinée de ce pays meurtri par la guerre.

Mohammad Nazir Mushfiq est le directeur du pétrole et des mines de la région. Il déclare à Equal Times : « Nous accueillons chaleureusement tous ceux qui sont intéressés et désireux d’investir dans le secteur minier de notre pays. »

Il ajoute que les investissements américains dans ce secteur pourraient jouer un rôle clé pour extirper le pays à la pauvreté et relancer son économie. Le nouveau ministre des Mines et du Pétrole, Nargis Nehan, a également exprimé l’espoir que le gouvernement afghan puisse réformer et assainir le secteur.

Volte-face politique

S’écartant clairement de ses promesses électorales appelant au retrait des troupes, Trump annonçait en août dernier qu’il augmenterait le nombre de soldats américains sur le terrain.

Au terme d’un long examen approfondi de la politique actuellement en place, le président a accepté la proposition du Pentagone de déployer environ 4.000 soldats américains supplémentaires, qui viendront renforcer les 8.500 militaires américains actuellement présents en Afghanistan.

Cette décision intervient en dépit de l’opposition de l’opinion publique des États-Unis à la participation de ce pays à un conflit qui a coûté la vie à plus de 2000 militaires américains et plus de 150.000 Afghans depuis son déclenchement en 2001.

« Désormais, la victoire aura une définition claire : attaquer nos ennemis, anéantir Daesh, écraser Al-Qaïda, empêcher les talibans de prendre le contrôle du pays et empêcher les attaques terroristes de masse contre les Américains avant qu’elles n’émergent, » a déclaré Trump au cours d’un discours qu’il a prononcé à Arlington, en Virginie, le 22 août 2017.

Les minéraux enfouis dans le sol afghan, dont la valeur est estimée à 1000 milliards de dollars américains, sont considérés comme un facteur déterminant dans cette décision. Le président afghan Mohammad Ashraf Ghani, économiste de formation, qui milite depuis longtemps en faveur du développement des gisements minéraux de son pays, aurait présenté l’idée à son homologue américain en février.

M. Ghani, ancien économiste à la Banque mondiale, a invité Trump à explorer les énormes réserves de minéraux qui permettraient de couvrir les coûts de la plus longue guerre de l’histoire des États-Unis et de stimuler la croissance économique des deux pays.

En Afghanistan, la Chine est également un concurrent dans l’exploitation de ces minéraux. Dans un complexe gouvernemental sous haute surveillance à Lôgar, Mushfiq informe Equal Times que l’insécurité et l’extraction illégale des mines demeurent des préoccupations majeures.

« Particulièrement dans les zones sous l’influence des rebelles armés [talibans et militants pro-Daesh] où le mandat du gouvernement est littéralement inexistant ; l’extraction illégale et effrénée [des minéraux] s’y déroule sans aucun professionnalisme, ce qui endommage par ailleurs les réserves, » déclare-t-il.

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